Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

STORIA DEL DIRITTO MODERNO COMPLETO, Dispense di Storia Del Diritto Medievale E Moderno II

7) Storia del Diritto Medievale e Moderno II (2010)  Sbobbinature delle lezioni della prof. Beatrice Pasciuta integrate con riassunti del testo adottato “Storia del diritto in Europa – dal Medioevo all’età contemporanea” di Antonio Padoa Schioppa e “Lezioni di Storia della Codificazione civile” di E. Dezza (tot. 195 pag.);

Tipologia: Dispense

2012/2013

In vendita dal 14/11/2013

cutaia.antonio
cutaia.antonio 🇮🇹

4.5

(2)

14 documenti

1 / 209

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica STORIA DEL DIRITTO MODERNO COMPLETO e più Dispense in PDF di Storia Del Diritto Medievale E Moderno II solo su Docsity! Introduzione e periodizzazione. Sappiamo già che il fenomeno sociale ed il fenomeno giuridico viaggiano su due linee parallele il cui decorso temporale non è però coincidente: “La società, il contesto sociale muta più velocemente rispetto al fenomeno giuridico”; è vero, dunque, che il diritto è il frutto della società e muta al mutar d’essa ma non con gli stessi tempi. Abbiamo già visto che in età medievale non si può assumere l’equazione diritto = legge, piuttosto è realizzata l’equivalenza diritto = società, tanto che le norme nascono in modo spontaneo dalla condivisione di regole che la stessa società pone a fondamento delle relazioni quotidiane tra gli individui (le norme nascono dal basso). L’età medievale ha dimostrato vera l’affermazione di Grassi secondo cui può esistere il diritto pur senza esser necessaria l’esistenza di un apparato istituzionale a cui sia stato affidato il potere legislativo,ma non può esistere una società in cui non vi sia diritto. Tuttavia lasciata l’età del mezzo il diritto e il suo procedimento formativo vanno sempre più dirigendosi e spostandosi verso l’alto, divenendo sempre più espressione di pochi legittimati a produrre norme giuridiche in grado di regolare la vita di molti, della società in generale. In altre parole, inizia a prender forma l’equazione diritto = legge, cosi che la formazione delle norme proviene sempre più dal legislatore vero e proprio. Tuttavia, oggi più che mai siamo in grado di dire che talvolta questo nuovo sistema giuridico, di cui noi siamo figli, ha mostrato l’esigenza di un ritorno al passato, mettendo in mostra la prevalenza del fenomeno sociale rispetto al potere legislativo accentrato nella relazione con il procedimento di formazione delle norme. In uno stato di diritto, quale è anche il nostro attuale, la norma proviene dall’alto, e trova la sua legittimazione ad esistere in un procedimento di formazione che accentra nelle mani del legislatore il potere legislativo, corollario di questo assioma, è che norme non condivise dalla società possono e devono essere comunque rispettate perché cogenti (la cogenza della norma deriva dalla legittimazione ad esistere della stessa). Dunque talvolta norme aberranti (l. razziali) possono esistere e vengono applicate, in quanto cogenti anche se non condivise dalla società che è chiamata a rispettarle. Tuttavia il nostro ordinamento giuridico ha in qualche modo prodotto delle norme superiori (norme costituzionali), condivise da tutti e frutto in un certo senso della società stessa che le ha poste, tali che possono svolgere un ruolo di controllo (attraverso organi preposti, quali la corte costituzionale) in vece dei componenti della società, nei confronti di quelle altre norme che il potere legislativo produce ed impone. In un certo senso questo sistema di produzione e di controllo (della produzione) mette in luce la prevalenza della condivisione delle regole rispetto alla loro cogenza. Ancora una volta, l’equazione diritto = società trova conferma nella circostanza che una maggioranza politica per quanto sia in grado di emanare leggi di qualsiasi tipo, di fronte a riforme profonde dell’ordinamento in vigore sente l’esigenza di trovare un accordo con le minoranze tale che le riforme siano il frutto della condivisione di tutte le fazioni politiche espressione di tutti gli strati della società. In definitiva possiamo dunque affermare con cognizione di causa che sia la condivisione che la cogenza sono in grado di rendere impositiva una norma, ma solo la prima assicura lunga vita ad una regola sociale. Il passaggio da una società in cui il diritto esiste senza uno stato, ad uno stato di diritto si configura ed inizia a muovere i primi passi nel basso medioevo, quando subito dopo la riscoperta dei testi giustinianei (le cui norme si credevano valide e vigenti nonostante la secolare caduta dell’impero romano) e la glossatura degli stessi, si affida ai giuristi il compito di dar vita ad un diritto nuovo che si diffondeva pian piano grazie alla nascita delle scuole e delle università. 1 Ricordiamo che accanto a questo nuovo diritto (iura communia), di stampo giurisprudenziale viaggiava comunque un diritto ufficiale che manteneva la forma della lex, entrambe le forme di diritto coesistevano insieme per altro all’imperituro diritto consuetudinario. Questo mondo giuridico cosi bilanciato ed equilibrato tuttavia è destinato a lasciare il posto ad una nuova visione e ad una nuova impostazione del diritto, ed ovviamente fattore determinante in questo processo evolutivo è il mutamento del contesto sociale e dunque delle esigenze della società. Sappiamo già che compito dello storico è quello di registrare questi cambiamenti senza per altro entrare nel merito degli stessi definendo più o meno giusto un sistema giuridico rispetto ad un altro, infatti nel corso della nostra trattazione vedremo per l’appunto quali fatti e quali eventi sociali hanno condizionato il percorso evolutivo del fenomeno giuridico che della società è, per l’appunto, espressione. -Analizzando i fatti storici vedremo che quella stessa società medievale che abbiamo visto evolversi e distaccarsi dalla società romana, viaggiando nei secoli dovrà fare fronte con nuovi eventi tanto rilevanti da modificare profondamente le basi giuridiche che erano state fino ad allora (grazie ovviamente ai vari accorgimenti apportati pian piano dai medesimi consociati) in grado di rispondere alle esigenze che via via la società metteva in luce, quei sistemi giuridici che fino a quel momento si erano resi sufficienti a regolare gli aspetti della loro vita vanno tanto in crisi di fronte a tali avvenimenti al punto che non bastano più gli espedienti utilizzati dagli giuristi o gli accorgimenti apportati attraverso il diritto consuetudinario (ex: diritto mercantile), serve proprio una profonda modifica del sistema di diritto in toto. Certamente anche questi mutamenti giuridici per quanto profondi sono il frutto di un processo lento, di sicuro molto più lento rispetto al susseguirsi degli accadimenti rivoluzionare dal punto di vista sociale. L’età moderna, ossia quella che nella convenzionale periodizzazione segue l’epoca medievale, deve far fronte ad un susseguirsi di mutamenti sociali già a partire dal 400. Il XV secolo è attraversato da importanti cambiamenti culturali: l'ottimismo, la fiducia nell'uomo e nelle sue possibilità, il principio della "virtù" umana contrapposta alla "fortuna" sono manifestazioni filosofiche e letterarie di un periodo noto col nome di Umanesimo. L'Umanesimo, le cui avvisaglie possono esser colte già nel Trecento, ha una prima diffusione nell'Italia rinascimentale, le cui corti sono punti di riferimento vitale per gli artisti del tempo. Il 1448 è l'anno dell'invenzione della stampa a caratteri mobili, ad opera del tedesco Johann Gutenberg che progressivamente rivestirà un ruolo fondamentale nella diffusione del libro. Con l'invenzione della stampa a caratteri mobili fioriscono le prime editorie, in particolare nella penisola italiana: celebre la stamperia veneziana di Aldo Manuzio. La scoperta di codici letterari latino e il contemporaneo arrivo di numerosi intellettuali bizantini contribuiscono a portare alla riscoperta di buona parte della letteratura latina e della letteratura greca, insieme allo studio dello stesso greco. Importanti progressi vengono effettuati anche nel campo della filologia e della storiografia, la cui importanza risulta evidente, ad esempio, con la prova della falsità della donazione di Costantino da parte di Lorenzo Valla. È in questo periodo che si sviluppano importanti richieste di riforma del clero; si assiste anche al progressivo sviluppo delle materie scientifiche (geografia, astronomia, anatomia, fisica etc). Tra tutti gli umanisti spicca la figura di Erasmo da Rotterdam, un sicuro punto di riferimento per buona parte dell'intelletualità europea. Questo periodo di vivacità culturale, che arriva a teorizzare l'eliocentrismo con (Niccolò Copernico), continua solo in parte nel XVI secolo. Il fermento rinascimentale trova espressione sotto il profilo oltre che letterario anche artistico, l’intellettuale rinascimentale è alla continua ricerca di una linea di continuità con quella classicità che aveva caratterizzato il mondo romano e che aveva incontrato una battuta d’arresto durante il medioevo, periodo durante il quale per altro ogni cambiamento era visto in senso dispregiativo ( l’appellativo Stupor Mundi affibbiato a Federico II aveva una connotazione negativa, in quanto era considerato un uomo che voleva cambiare lo stato di cose ordinato da Dio) Il 2 1848: in questo anno si verificarono importanti quanto fallimentari tentativi di rivoluzione politica, sfociati con la promulgazione di varie Carte Costituzionali, futuro preludio al costituirsi, nella maggior parte dell'Europa, di regimi liberali. Il termine moderno è stato assunto dagli storiografi per designare un periodo storico che antico non è, abbiamo già visto che l’età moderna designa il momento in cui la società si contrappone alla rozzezza ed alle barbarie della civiltà dell’epoca medievale e si riscopre contestualmente più vicina alla civiltà classica romana di cui scopre i testi letterari e ne rimane affascinata ed attratta al punto tale che ne tenta una emulazione. Abbiamo già detto, ad esempio che con l’umanesimo si identifica quel movimento socio- culturale che effettua nel 400 una rivalutazione dell’individuo, e questa stessa considerazione dell’uomo appare, per l’appunto, in netto contrasto con quanto era emerso nelle epoche precedenti in cui il soggetto e la sua identificazione era strettamente connessa ai confini ordinamentali dei quali faceva parte, il mercante era identificato non tanto come uomo ma come mercante, egli era centro di imputazione di diritti e doveri non in quanto uomo ma in quanto mercante, egli era infatti soggetto alla disciplina mercantile e si sottoponeva a quell’ordinamento, di contro l’uomo potente ricco o povero che fosse stato scomunicato dalla chiesa veniva definito res nullius, dunque era una res e non era più considerato uomo degno di salvaguardia. Essere stati scomunicati dalla chiesa voleva dire essere stati dissociati da qualsiasi ordinamento,ed esser posti fuori dall’ordinamento in assoluto il più importante, ossia l’ecumene. - Proprio per la circostanza in base alla quale la periodizzazione è una scansione cronologica convenzionale, è ovvio credere che non tutti gli storici seguono la stessa strada. La tradizione romanista ad esempio ha creduto possibile ricollegare la storia del diritto italiano con il mondo classico e la storia del diritto romano come se si fosse in presenza di un monolite storico, non tenendo dunque conto dei mutamenti anche profondi che hanno avuto decorso in questi 14/15 secoli. Con alle porte la nascita d’Italia gli storici si riproposero il problema di definire l’identità della neonata nazione e per far ciò fecero ricorso ad ogni mezzo soprattutto allo strumento storico, capace per l’appunto di identificare il processo evolutivo di una cultura, di una società, delineandone dunque l’identità. A tal proposito lo scopo degli storici era quello di delineare una storia del diritto che fosse italiana e non romana, si rifiutava dunque, soprattutto sotto l’influente spinta di Francesco Calasso, l’idea di legare la storia italiana con quella romana considerando la storia di mezzo non come un periodo a se stante ed autonomo, piuttosto come un periodo storico no meglio definito che “ Storia del diritto romano modernizzato”. Calasso, primo fra tutti, sottolineava l’esistenza di elementi nella storia del diritto italiana che romani non erano. In particolare si è voluto seguire la strada del cambiamento nel panorama del mondo giuridico, dal punto di vista dell’affermazione della legge sulla consuetudine e sulla giurisprudenza. Come abbiamo già detto in età moderna si assiste con l’assolutismo all’affermazione dell’idea che il Princeps sia l’unico centro di produzione della legge legittimato. Breve riflessione circa i mutamenti del fenomeno sociale e giuridico in atto. Abbiamo detto in diversi casi che il compito dello storico è quello di registrare i cambiamenti della società e di tutti quei fenomeni ad essa connessi. Sappiamo pure che non è certamente ruolo dello storico quello di dare un giudizio di valutazione entrando dunque nel merito dei mutamenti e definendo più o meno valido un sistema (giuridico, nel nostro caso) rispetto ad un altro. L’assioma che resse per molti anni il sistema giuridico dell’età moderna ed in particolare quello dell’assolutismo era il seguente: il popolo affida il potere legislativo al Princeps e dunque le sue 5 leggi sono il frutto della volontà della società e rispecchiano (o almeno dovrebbero rispecchiare) i cambiamenti fisionomici della società stessa. Il nostro sistema giuridico è figlio del sistema appena descritto, tanto che il parlamento, esprime la volontà del popolo stesso che lo ha eletto, quindi sembra che come in età moderna anche oggi il postulato diritto = legge abbia da un lato sostituito l’equazione medievale diritto = società, ma dall’altro lato di quest’ultima riprende il tratto essenziale, ossia che le leggi devo rispecchiare la volontà della società. Certo è che in un sistema in cui il diritto era prevalentemente di tipo consuetudinario e giurisprudenziale è senza dubbio più evidente e chiara la connessione tra fenomeno giuridico e fenomeno sociale, di contro in un sistema assolutistico, tipico dell’epoca moderna, in cui le leggi trovano la loro legittimazione nel procedimento formativo non è impossibile assistere alla formazione di leggi aberranti che divengono comunque cogenti anche se non condivise. Proprio la possibilità critica che si venisse a creare questa profonda scissione tra il fenomeno giuridico ed il fenomeno sociale ed in particolare tra la cogenza e la condivisione di una norma ha portato, come abbiamo già più volte detto, alla formazione di carte costituzionali, largamente condivise ed organi di controllo quali la corte costituzionale. Tuttavia il nostro sistema giuridico sta nuovamente presentando i segni della vecchia e della sua inadeguatezza rispetto ad una società che sta mutando o che è già mutata. Le forze politiche attuali sempre più spesso fanno riferimento all’interpretazione autentica e dunque al lavoro dei giuristi per risolvere controversie o casi di diritto; ricordiamo a tal proposito che la rivoluzione francese, da cui ebbe vita la c. d stagione delle codificazioni, mise al bando lo strumento della interpretazione in quanto essa era portatrice di arbitri e discordie su un fenomeno, quello giuridico, che deve (o dovrebbe) di contro essere intriso di principi certi. Questo ritorno al passato, viene avvertito dai politici e dalla gente comune come segno di crisi del sistema, in realtà lo storico sa bene che non si tratta di crisi ma di naturale cambiamento lento, ma visibile laddove l’urgenza e l’emergenza del caso concreto non può attendere i tempi di trasformazione lunghi che necessitano al fenomeno giuridico. Per di più lo storico sa che ciò che sta accadendo può essere sintetizzato come cedimento del passo al postulato diritto = società da parte dell’equazione diritto = legge. In conclusione un accenno va fatto alla definizione che del fenomeno giuridico ha dato la dottrina dell’800, la quale introducendo il termine di dogmatica giuridica, ha appunto definito la disciplina degli istituti giuridici come una disciplina dogmatica; essa riferendosi sia al fenomeno giuridico, sia alla sua produzione ed alla sua giustificazione, ha affermato che deve intendersi come il risultato di uno studio del diritto positivo condotto attraverso un metodo che considera le norme giuridiche dei veri e propri dogmi che costituiscono i presupposti indispensabili da cui necessariamente partire per elaborare i concetti e le qualificazioni giuridiche. In realtà anche se gli istituti del diritto potrebbero apparire come dei dogmi, sappiamo bene che la disciplina attuale di ciascun istituto giuridico o dei rapporti che si stabiliscono tra gli individui e tra gli individui ed i beni non è l’unica alternativa. La storia insegna e ha dimostrato che alcuni istituti esistono da molto tempo ma la disciplina che si da di essi varia ed è contingente sia dal punto di vista temporale che spaziale, tale contingenza è una caratteristica propria del diritto in generale. Contesto storico- giuridico: generi letterari nel ‘400, i commentatori. Nella nostra analisi storica ripartiamo più o meno dall’avvento della scuola dei giuristi commentatori i quali utilizzano un metodo di lavoro e di studio che si distacca nettamente da quello utilizzato dai loro predecessori, i glossatori ed in particolare si distaccano dall’interpretazione letterale del testo normativo. 6 Gia a partire dal 400 i giuristi spostano la loro attenzione ed iniziano a soffermarsi e a ragionare non tanto sulle parole del legislatore, quanto sui principi che reggono l’ordinamento. I giuristi quattrocenteschi sono consapevoli della imperfezione umana cui ovviamente sottende anche il legislatore da cui discende la possibilità che le norme da esso emanate siano errate e talvolta aberranti. Abbiamo già visto che i glossatori si soffermavo più che altro su un tipo di interpretazione letterale delle norme, al punto tale che dinanzi alle frequenti antinomie, essi cercavano di dare a tutti i costi una spiegazione ed una giustificazione più o meno plausibile tale da accordare i contrasti. I glossatori nel risolvere un caso di plateale antinomia tra un testo normativo ed una consuetudine attraverso l’interpretazione letterale ricorrevano spesso all’espediente volto a rintracciare la ratio costituta a partire dalla ratio rudis, essi erano certi che l’apparente antinomia potesse esser confutata in un modo o nell’altro. Di rationes si inizio a parlare con maggiore insistenza a partire dal 400, i commentatori approcciarono alle antinomie ed ai contrasti fra norme in maniera diversa, essi prendevano atto del fatto che solo una delle norme in questione era esatta, e l’esattezza della norma la si poteva rintracciare solo facendo riferimento alla ratio iuris dell’ordinamento. Cominciano inoltre, a prodursi generi letterari differenti dalle glosse, ossia i commenti; essi si distaccavano fortemente dal testo giuridico, dal testo giustinianeo cui facevano riferimento. Il testo normativo usato dai commentatori era semplicemente la base su cui i giuristi attraverso un’interpretazione creativa davano vita ad un diritto nuovo. Accanto al commento si sviluppa un altro genere letterario che è il trattato. I trattati hanno funzione sia pratica che ai fini dell’istruzione di nuovi giuristi. Esso si occupa principalmente di esporre un’argomentazione più o meno completa in relazione ad una partizione del diritto. Un altro genere letterario che si sviluppa in questo periodo e che insieme ai trattati avrà grande successo in futuro, sono i consilia. Questi corrispondevano a pareri rilasciati dai giuristi in merito a delle questioni giuridiche poste da singoli clienti dei giuristi che li formulavano (consilia pro parte) o da poste e rivolte ad un pubblico maggiore come nel caso in cui la parte proponente la questione giuridica fosse stata il Rex (consilia pro generale). Tali pareri potevano essere contraddetti da consilia successivi, la forza dell’uno o dell’altro consilia era da rintracciarsi nella capacità di questa di convincere l’utilizzatore finale sulla base di articolati procedimenti logici e razionali. Dunque un parere poteva prevalere su tanti altri pareri e restare validamente efficace (costituendo fonte di diritto) almeno fino a che non veniva prodotto un parere maggiormente convincente ed in grado di rispondere in maniera migliore a criteri di logicità e razionalità, conformandosi per altro in maniera migliore alla ratio iuris dell’ordinamento. Talvolta un consilia poteva prevalere persino su una norma emanata dal legislatore, laddove quest’ultima non fosse stata più convincente o razionale. L’insieme dei consilia ritenuti validi ed efficaci in quanto logici razionali e rispondenti ai principi dell’ordinamento andavano a costituire la communis opinio. Il lungo cammino verso la nazionalizzazione del diritto e la particolarizzazione dello ius commune. La circostanza circa la quale vi era una sostanziale omogeneità in relazione alla matrice di diritto in tutta Europa che avevamo trovato in epoca medievale permane anche nei primi secoli dell’età moderna, in realtà la divisione netta tra i vari diritti nazionali si affermerà solo nell’800 anche se in età moderna iniziano a verificarsi eventi che danne le prime avvisaglie di questo cambiamento in atto e che appunto condurranno verso una totale differenziazione nell’800. 7 Si predica dunque l’applicazione della dialettica giuridica grazie alla quale il giurista è in grado di dedurre dal testo giustinianeo diverse soluzioni possibili relativamente ad una stessa fattispecie concreta, sarà successivamente compito del giudice scegliere la soluzione giurisprudenziale più convincente in base ai criteri filosofici della logicità e della razionalità tenendo conto dei principi generali dell’ordinamento. In realtà la visione che abbiamo noi oggi del diritto e dell’applicazione mono- direzionale di una norma è figlia della dogmatica giuridica dell’800, che vede la scienza giuridica come una scienza esatta e matematica, in base alla quale ad un caso A si applica la norma B da cui deriva necessariamente la unica e sola soluzione C. I giuristi moderni non trattano la scienza giuridica come una scienza esatta ma classificano l’ambito giuridico pur sempre una scienza e ritengono utili alla formazione del bagaglio giuridico, di cui un giurista deve disporre per la risoluzione di un caso, sia le diverse interpretazioni addotte dalla giurisprudenza sia la legge scritta per antonomasia, ossia il testo giustinianeo, sia tutte le altre leggi su cui poggia l’ordinamento giuridico. A proposito della necessarietà della interpretazione giuridica è bene ricordare che lo stesso non può dirsi a proposito della interpretazione fatta dai giuristi in epoca medievale; essi ritenevano la interpretazione del maestro probabile, ed essa non era dunque ne necessaria ne tantomeno vincolante, al contraria aveva forza vincolante l’interpretazione del princeps, la sentenza del giudice o la forza stessa della consuetudine. Nel ‘500 l’interpretazione diviene vincolante e la si ritiene necessaria (almeno fino a che non sopraggiunga una diversa interpretazione per altro più logica, razionale e convincente). Il fondamento su cui poggia tale forza vincolante è da rintracciarsi nello “ ius gentium” che introduce l’interpretazione nel sistema delle fonti di diritto. Lo ius gentium è una forma di diritto la cui nozione risale al diritto romano, il quale distingueva da un diritto valido solo peri cittadini romani un diritto applicabile a tutti gli individui che romani non erano. La legittimazione che tale diritto aveva a disciplinare i popoli non romani era stata individuata nella circostanza che di fatto lo ius gentium era un diritto naturale, un diritto che esiste per natura e sul quale il legislatore non può intervenire con norme positive, il diritto canonico definì il diritto delle genti come un diritto divino naturale. Lo ius gentium non a caso ricompare nel ‘500, la scoperta di nuove terre aveva fatto sorgere l’esigenza di individuare un diritto che si potesse applicare legittimamente agli indigeni non europei, e quale diritto poteva esser applicato se non un diritto naturale e voluto da dio…? In generale lo ius comune viene fatto rientrare tra le fonti di diritto naturale, e per quanto il diritto canonico ed il diritto giustinianeo (fonti di ius comune) potessero esser classificati quali diritti positivi, in realtà erano stati voluti da Dio e quindi ispirati a principi di diritto naturale. Tuttavia perché lo ius gentium e dunque il diritto naturale possa essere applicato è necessario che si di esso si svolga un’attività interpretativa, proprio questa necessarietà rende vincolante l’interpretazione. In generale l’attività interpretativa si rende necessaria al fine di individuare la ratio ed il sensus che rende condivisibile un qualsiasi testo normativo, non basta infatti che esso sia costituito da auctoritas, la quale per altro rende valida cogente una norma. Ecco che si afferma sempre più il ruolo dei giuristi nel creare norme condivisibili dalla società. L’altra faccia della medaglia dello ius comune è costituito dal diritto canonico, i giuristi anche in questo campo svolgono una funzione fondamentale al fine di risolvere conflitti ed antinomie che si vengono a creare tra diritto canonico e diritto civile. Tuttavia in questo caso l’approccio è diverso, il giurista infatti valuta e contestualizza di volta in volta il conflitto e cerca di rintracciare la ratio che sottende alle norme in questione, inoltre il giurista è consapevole del fatto che gli ambiti di azione dei due tipi di diritto sono diversi, da un lato il diritto canonico che deve occuparsi della sfera spirituale del fedele, dall’altro il diritto civile che si occupa delle sfera terrena dell’uomo; il problema sorge laddove vi siano interconnessioni tra le 10 due sfere, in quel caso il giurista è chiamato ad effettuare attività interpretativa così da risolvere il caso di antinomia. Dunque abbiamo sino ad ora visto che il ruolo dei giuristi diviene indispensabile per rendere vivo il diritto giustinianeo; risolvere i conflitti tra diritto canonico e diritto civile; tuttavia i giuristi vengono chiamati in causa anche nel caso in cui i conflitti sorgano tra ius comune e le leggi del princeps. È bene dire che anche in questo caso gli ambiti di azione delle leggi del princeps e dello ius comune sono differenti, abbiamo già visto che lo ius comune si occupa di disciplinare rapporti tra privati mentre le leggi del princeps sono rivolte verso aspetti pubblicistici. Tuttavia talvolta casi di conflitti potevano sorgere, ma per comprendere meglio le modalità di soluzione in circostanze simili, è necessario prima analizzare quale era la posizione del princeps nei confronti delle leggi di ius comune e delle leggi in generale. Gia nel 69 d. c l’imperatore Vespasiano aveva introdotto l’assunto secondi cui il princeps è legibus solutus, cioè esso è sciolto dai lacci della legge e non è tenuto ad osservarla. I giuristi giustificano questo pericoloso assunto, sottolinenando che l’imperatore dotato di imperium (in forza del quale ha il poter di obbligare all’osservanza di un comando) ha l’onere di modificare ed innovare l’ordinamento giuridico con nuove leggi da cui deve trarre la ratio costituta, sembra dunque improbabile che esso si sottometta a delle leggi che quando vuole è in grado di modificarle. Nonostante la pericolosità di questo assunto in età moderna è stato ripreso anche se temperato con quanto scritto nella Lex Digna Vox. In essa troviamo l’ulteriore attestazione secondo cui il buon principe degno di menzione, per quanto sciolto dai vincoli della legge, ad essa si sottoporrà volontariamente, mitigando così la portata pericolosa della tesi di Vespasiano alla quale comunque non si rinuncia. Inoltre in età moderna, a proposito del rapporto tra la legge ed il principe, si assume la tesi di Azzone, in base alla quale la legge non può sottomettere o avere forza vincolante sui pari e dunque sui principi successori. E dunque un legge emanata da un princeps non può sottomettere in alcun modo il suo successore che considererà la legge del predecessore un’esortazione o un consiglio. Nonostante questo complesso rapporto delineato a proposito del principe e della legge è bene precisare che quanto detto va posto in relazione alle leggi imperiale, infatti il principe deve considerarsi alligato, sottoposto, a tutti gli altri diritti su cui egli non ha autorità, quali il diritto canonico, le consuetudini, il diritto divino, e gli iura propria laddove si tratti di ordinamenti dotati di propria iurisdictio. Mos Italicus: i Trattati Il termine Mos Italicus iura docendi viene usato per identificare il costume, il modo di insegnare diritto al giurista transalpino, ossia al giurista dell’allora Italia. Questa espressione viene usata per altro in contrapposizione al c. d Mos Gallicus, ossia il modo di insegnare diritto nella Francia cinquecentesca. Il mos Gallicus, per l’appunto indicava il metodo didattico della Scuola dei Culti, fiorita soprattutto a Bourges, mentre il <<modo Italico>> di insegnare il diritto era rimasto il vanto delle maggiori università della Penisola, da Pisa a Padova, da Bologna a Pavia. Alciato di ritorno in Francia dopo aver insegnato per un breve periodo di tempo in Italia, aveva dovuto accentuare la sua impostazione didattica in senso filologico e storico su richiesta degli stessi studenti che per l’appunto in Francia prediligono un’ approccio didattico diverso. Invece gli studenti ed i colleghi professori degli Studi italiani respingevano l’erudizione dei Culti e rimanevano fedeli al metodo che si disse <<Bartolistico>> poiché intendeva riallacciarsi al modello del massimo esponente della scuola del Commento. L’attività didattica continuò a svolgersi secondo l’ordine tradizionale dei libri legales, dunque nella forma del commento, che aveva per altro raggiunto il vertice qualitativo con i grandi commentari 11 del ‘300 e del ‘400, ripetutamente pubblicati a stampa, insieme con le raccolte di consilia dei massimi commentatori. I generi letterari principali dell’epoca post- medioevo erano ossia: - commento - consilia - tractatus A questi vanno aggiunte le raccolte di allegazioni e di decisioni. Tra questi il commento avrà vita breve e in epoca moderna lascerà spazio ai più fortunati trattati ed ai consilia. Tuttavia a proposito del commento possiamo dire che questo genere letterario mette in mostra si da subito la tendenza autoreferenziale dei giuristi di cui abbiamo parlato, anche il commento a differenza della glossa abbandona il testo giustinianeo e da esso si distacca al fine di trovare la ratio non della norma (come intendevano fare i glossatori) ma dell’ordinamento giuridico. Ma ancor espressa e manifesta è questa indipendenza dei giuristi dal testo romano nel trattato, il quale può esser definito come una forma di saggio monografico, spesso con scopi didattici, ma anche pratici, usato per l'esposizione di concetti nei più svariati ambiti del sapere giuridico. La trattistica conobbe enorme sviluppo ed ebbe prevalentemente intento pratico, ma anche didattico, tuttavia questa vasta fioritura di opere destinate a servire la pratica determinò già da parte dei contemporanei l’attribzione della qualifica di Pratici o Pragmatici agli autori dei trattati. La particolarità di questa opera letteraria è che essa svolge un determinato argomento in maniera compiuta seguendo uno schema con determinati principi che vengono per l’appunto tratti dall’intero ordinamento giuridico di allora. Sorgono trattati di diritto penale, di diritto commerciale, di diritto privato ad esempio in riferimento alle successioni o sulla dote e cosi via. Si assiste in questo periodo alla c. d pubblicizzazione del crimine di affare privato ma anche del diritto penale in generale; storicamente i romani avevano confinato nell’ambito privato, trattandosi di questioni private, le problematiche dell’ambito penale, tuttavia nel 500 il crimine viene visto non solo come un offesa arrecata al privato ma come destabilizzazione dell’ordine pubblico e dell’equilibrio sociale, per di più viene appaltato allo stato il compito di tutelare l’individuo dai crimini che attraverso la previsione di norme penali ad hoc ha il compito di prevenire e sanzionare crimini e delitti. Questa inversione di rotta rispetto al passato, (circa la considerazione privatistica che si era avuta del diritto penale), deve essere spiegata e giustificata dal punto di vista giuridico, è compito dei giuristi infatti affrontare il tema attraverso dei trattati sul diritto penale. I maggiori giuristi che si occupano di questi temi sono De ciani, Claro e Farinaccio, loro come tanti altri giuristi che si occupano di stendere trattati su temi giuridici sono operatori del diritto anche da un punto di vista pratico (da qui per altro l’orientamento pragmatico della trattistica), essi non sono soltanto teorici del diritto ma sono avvocati, notai, sono soggetti che ne applicano frequentemente il diritto a casi concreti e dunque sono a stretto contatto con le problematiche pratiche che il diritto pone nella soluzione di casi quotidiani. Il diritto penale cinquecentesco era per altro, un diritto strettamente casistico, in vero la casistica verrà astratta dal diritto penale sostanziale solo a partire dall’800 ad opera della dottrina della dogmatica giuridica. In realtà la distinzione del diritto penale sostanziale dal diritto penale processuale è tutta frutto di invenzione dottrinale, come del resto le cattedre di diritto processual- penale le quali vengono istituite sul modello di quelle di procedura civile. Contro la partizione del diritto penale processuale da quello sostanziale si sono espressi diversi teorici che hanno constatato l’impossibilità di astrarre il diritto penale dalla casistica, e la prassi ci mostra a tal proposito che tale partizione è forzata al punto tale che la casistica, intesa come precedente giudiziario, è sempre presente anche laddove si voglia teorizzare la soluzione di un caso, che per altro non potrebbe mai avvenire senza ricorrere alle circostanze pratiche. 12 Bisogna precisare a proposito dell’exeplum che questo fu dichiarato da Giustiniano non vincolante almeno fino a che non il parere o l’opinione dell’exeplum non fosse proveniente dal princeps o non fosse stata emanata sentenza giudiziale contenente il parere del giuristi in questione. Più tardi Bassiano riprese la tesi di Giustiniano e attraverso una sua interpretazione egli nego che l’imperatore volesse escludere del tutto la cogenza e la vincolatività del consilium o della sentenza, ma solo nel caso in cui ci si ritrovasse di fronte ad un parere o ad una opinione solitaria. Nel caso in cui, invece, diverse autoritate si ponevano sulla stessa posizione, questa poteva essere considerata pragmaticamente vincolante in virtù del fatto che interveniva una certa consuetudine nel vedere in un determinato modo una data questione giuridica. In fondo questa è la visione che prevale in età moderna e cha dà fondamento alla c. d communis opinio, in tal modo Bassiano non fa altro che dare voce autorevole ai giuristi e alla loro interpretazione giurisprudenziale. Questo fiorire dell’attività giurisprudenziale e la circostanza per la quale assunse via via sempre maggiore importanza fece si che la professione di giurista divenne molto ricercata e ambita dato che permetteva di fare il salto nella scala sociale, infatti grazie ai proventi dell’attività dei giuristi, questi potevano permettersi di acquisire un titolo nobiliare. L’umanesimo giuridico ed il Mos Gallicus. Come abbiamo già accennato dal modo di insegnare e fare diritto nei paesi transalpini, si distingue il c. d mos gallicus iura docendi. Lo studio, l’insegnamento dei testi giuridici e i conseguenti risvolti applicativi, nella Francia del 1500 furono contrassegnati da diversi approcci di tipo critico, storico- filologico, teorico e sistematico con riferimento ai testi classici in generale ma anche e soprattutto ai testi classici normativi da un lato e al corpus iuris iustinianeo con i farraginosi apparati di glosse e commenti dall’altro. Ad influenzare fortemente il differente approccio ai testi legislativi ebbe senza dubbio un ruolo rilevante, l’umanesimo, cioè quel movimento culturale che afferma la dignità dell’uomo in quanto essere umano, e che si pone in antitesi rispetto a quanto il medioevo aveva fatto prevalere circa la visione dell’uomo; nel medioevo l’identità dell’ individuo era strettamente connessa alla sua appartenenza ad un ordinamento giuridico, posto fuori da questo l’uomo non era uomo ma veniva considerato una res. Con l’umanesimo si accompagna la riscoperta di molti testi dell’antichità greca e romana, lo studio appassionato della cultura letteraria, poetica, storica, filosofica ed anche dell’arte del mondo antico, il disegno di studiarne le radici e di imitarne per quanto possibile la perfezione anche formale. Tutto questo amore per il classico ebbe dei risvolti dal punto di vista delle attenzioni che alcuni umanisti prestarono ai testi giuridici antichi, in loro prevaleva l’ammirazione per la cultura antica e la preoccupazione di riscoprirne i profili dell’originalità liberandosi della massa soverchiante delle interpretazioni (glosse) e delle dottrine delle scuole medievali. Scrupolo filologico e critica delle fonti ebbero un ruolo importantissimo nell’impostazione umanistica. Gia nel Quattrocento, con l’umanesimo si ridesta l’interesse per la filologia, sopito nei commentatori. Gli umanisti criticano e disprezzano i dialettici, cercano la riscossa delle arti liberali sul diritto. D’altronde gli stessi giuristi non possono far meno della filologia, allorché essi apprendono dagli umanisti che il testo del Digesto vulgato è corrotto. Ad un certo punto, molti giuristi divengono essi stessi umanisti, spinti dai loro maestri di latino e greco essi sono indotti ad applicare alle fonti di diritto i frutti della loro conoscenza di fonti non giuridiche. Nascono dunque l’umanesimo giuridico e la Scuola culta; Esso si diffonde in tutta Europa: tra gli esponenti principali ricordiamo il francese Budeo, il tedesco Zasio e l’italiano Alciato. Questi insegna a Bourges ed ha tra i suoi uditori Francesco Connan, che elabora una interessante teoria del sinallagma. Come abbiamo già detto sono gli umanisti del 400 che metteranno in rilievo la corruzione del 15 digesto (di cui per altro anche i glossatori erano a conoscenza) essi sentiranno il dovere, e la necessità appunto di riscoprire il valore dei testi classici normativi in tutta la loro originalità. Tuttavia a fronte di questo bisogno di originalità essi percepiscono il rischio che con esso venga messo in discussione il patrimonio dottrinale, ovviamente venendo meno la diretta filiazione del digesto dai testi classici e ancor peggio essendo messa in discussione la paternità del digesto rispetto a quei testi normativi vigenti e diffusi in quel tempo sarebbe stata certamente messa in crisi la legittimità dell’impalcatura legislativa che i giuristi medievali avevano messo in piedi. I glossatori erano anch’essi già al corrente della corruzione del digesto, frutto delle interpolazioni apportate da Triboniano su ordine di Giustiniano ai testi classici dell’impero romano, ma , per l’appunto, hanno bisogno di quel testo normativo poiché è l’unico riferimento legislativo generale, comune (insieme al diritto canonico)a cui possono attingere per darsi una regolamentazione, in un contesto socio –politico assai variegato e privo di uno Stato in grado di appaltarsi il potere legislativo. Sia i glossatori e ancor meglio successivamente gli umanisti (di cui nel caso specifico dell’antitribonianismo si fa portavoce Francois Hotman), per altro, sono consapevoli che le antinomie riscontrate nel testo giustinianeo non sono solo apparenti, bensì sono il risultato delle interpolazioni di Triboniano messe in atto al fine di piegare alle esigenze politiche imperiali romane del VI secolo, quei testi classici che erano entrati a far parte della tradizione giuridica del mondo classico romano e da cui si poteva attingere non solo per ricercare soluzioni a casi concreti ma più che altro per legittimare la costruzione di un diritto temporale generale, contemporaneamente asservito al potere imperiale e falsamente imperniato sui testi giuridici classici che appunto erano stati corrotti. Ovviamente la consapevolezza di tutto ciò è messa a tacere dai glossatori attraverso metodi interpretativi e giustificazioni varie, essi avevano preferito poter fare riferimento ad un digesto corrotto ma pur sempre legittimo (data la provenienza imperiale)e considerato legge universale, piuttosto che restare privi di una regolamentazione generale e legittimante (dato che le glosse e più tardi i commenti faranno riferimento ai testi giustinianei come fonte autorevole), del resto la corruzione del digesto venne amplificata dagli stessi glossatori che con infiniti apparati di glosse avevano asservito il diritto giustinianeo alle loro esigenze ed ai nuovi scenari dell’età medievale. Tutto questo e altro ancora venne messo in risalto nel 400, tuttavia mentre la scuola francese (scuola culta) è permeata dall’umanesimo, la scuola italiana resta ancorata al metodo dialettico-scolastico, (tanto che come abbiamo già detto si contrappone un mos gallicus iura docenti ad un mos italicus iura docendi). In Francia il diritto romano non viene tenuto nella stessa considerazione che invece ha in Italia. Certamente le circostanze per la quale l’umanesimo giuridico, l’antitribonianismo, l’approccio critico e filologico ai testi classici e la concezione di un diritto romano storicizzato, trovano fertile il terreno per la fioritura in Francia sono da rintracciare ancora una volta, nel contesto socio- politico del paese d’oltralpe. Tuttavia a questo punto non è difficile capire come mai giuristi italiani del calibro di Andrea Alciato, milanese del 1492, dopo aver insegnato per un breve periodo di tempo in Italia si trasferisce in Francia, a Bourges, dove fonda la scuola culta, e dove il contesto gli permette di applicare nel campo giuridico le competenze che aveva acquisito negli studi condotti in letteratura, dove per l’appunto conosce ed applica la metodologia filosofica. Andrea Alciato infatti e come lui molti altri umanisti entrarono in aperto conflitto con il mos italicus ed in particolare con i generi letterari che lo distinsero, nello specifico Alciato rigettava la valenza giuridica oggettiva del genere del consilium sapientis, che, obiettava l’umanista, risultava viziato dalle opinioni e dai pareri del giurista piegati al servizio del cliente che pagando il doctor ovviamente si aspettava e pretendeva un documento autorevole che esponesse delle tesi favorevoli alla sua causa. 16 Ciò che dunque creava insofferenza negli umanisti era il vizio e la difformità rispetto all’originale, alterazioni che potevano riscontrarsi dal confronto di un testo moderno con uno classico sia esso di ambito letterario che giuridico. E come abbiamo già detto tali alterazioni presenti in Italia sin dal Medioevo erano invece state esaltate perché in grado di rendere vivo un diritto antico, capaci dunque di attualizzare il diritto secondo le esigenze della società in continuo mutamento. Ciò nonostante, almeno in Francia il gusto umanista, per il contatto senza intermediari con la fonte antica portò con se l’insofferenza per il greve apparato di interpretazioni, glosse, commenti accumulatosi nei secoli. I culti, a cominciare da Alciato fecero ricorso oltre alle fonti giuridiche note da secoli, a testi latini ancor più antichi che la passione e la perizia degli umanisti avevano riscoperto di recente nelle biblioteche europee. Dal confronto delle varie fonti, medievali e propriamente classiche, era possibile, attraverso l’applicazione del metodo filologico, depurare un Passo di Ulpiano, per esempio, o qualsiasi altro testo giuridico, dalle aggiunte o dalle alterazioni che i giuristi giustinianei (e poi i glossatori, anche se bisogna tenere presente che essi apponevano le glosse a margine del testo) vi avevano apportato nel tentativo di renderlo coerente con il diritto del dell’età di Giustiniano, questo ovviamente rendeva per altro possibile un diverso approccio interpretativo che meglio rendeva il senso del testo nel suo contesto originario. Tutto ciò per altro aveva dei risvolti e delle conseguenze a catena, nel senso che un passo o un testo normativo classico, corretto e riveduto alla luce dell’applicazione del metodo filologico, non poteva che influenzare la revisione di tutti quegli altri testi normativi che ad esso facevano riferimento, e cosi se ad esempio veniva alla luce un passo giurisprudenziale classico originario al quale il digesto aveva fatto riferimento ma introducendo alterazioni, queste venivano smascherate e dunque eliminate. Si comprende bene che se vi era una data legge vigente che faceva riferimento a quel dato testo giustinianeo che a sua volta riportava scorrettamente il passo giurisprudenziale,questa perdeva la sua legittimità quanto meno formale e la sua validità che traeva dal fallace testo giustinianeo. Un'altra forma di alterazioni che potevano essere messe in chiaro attraverso l’applicazione della filologia erano a differenza dei primi di tipo involontario, essi riguardavano gli errori di trascrizione e copiatura. Poteva accadere infatti che un manoscritto venisse copiato e ricopiato più volte e non era infrequente che talvolta venissero fatti errori di copiatura a monte e che questi si ripetessero poi nei manoscritti successivi, questo poteva capitare quando ad esempio ad effettuare lavori di ricopiatura erano amanuensi non consapevoli della realtà storica che stavano ricopiando, e dunque non correggevano l’errore molto spesso stupido. Il filologo studia i testi nella loro evoluzione storica, ricercandone modifiche e cambiamenti, tenta dunque di rintracciare quelle difformità e quei vizi che rendono alterato un testo rispetto al suo originale. Il procedimento filologico consiste nel tentare di risalire con criteri meccanico-probabilistici e linguistico- formali alla forma originaria di un testo, inevitabilmente corrotta dalla serie di copie che lo hanno tramandato dall'antichità a oggi. I filologi si affidano principalmente ai c. d “testimoni” ossia quei testi che sebbene ricopiature risalgono ad epoche vicinissime dal punto di vista temporale e magari anche spaziale al contesto in cui è venuto alla luce il teso originale, questi testi quasi certamente non dovrebbero riportare alterazioni e se vi sono non sono significative, è ovviamente improbabile diffondere un manoscritto difforme rispetto all’originale laddove questo sia ancora reperibile. Rintracciato il testimone, il filologo tenta di scoprire tra questo e gli altri manoscritti in questione un rapporto di filiazione, che come abbiamo detto può per altro essere evidenziato dalla ricopiatura cosciente o incosciente di errori o vizi stessi. È poi necessario riscoprire il significato originario del testo, e l'intenzione dell'autore, per far ciò deve per altro depurare il testo dalle glosse o dai commenti dei giuristi medievali, il cui contenuto 17 senso, anzi si vuole ovviamente mettere in luce l’inadeguatezza del diritto antico e la necessita che via sia un sovrano che si appalti il potere legislativo. I giuristi in Francia guardano al diritto giustinianeo come un diritto da emulare, dal quale poter attingere schemi formali ma da dover riempire con contenuti che devono provenire direttamente dal potere regio. Dal particolarismo giuridico verso l’assolutismo. L’età moderna, ed in particolare il periodo che va dal ‘500 al ‘700 è stata etichettata come età del particolarismo giuridico. Ricordiamo che l’era medievale che era stata definita età del pluralismo giuridico, tuttavia l’accezione e la connotazione che è stata data dai giuristi dell’età della codificazione a questa definizione è certamente negativa. Con tale denominazione i giuristi dell’800 volevano intendere l’epoca che li ha immediatamente preceduti come un età in cui vi era un sistema giuridico basato sulla coesistenza di una molteplicità di ordinamenti giuridici ciascuno con un suo apparato di norme per altro tutte validi contemporaneamente. Quello che distingue i primi secoli dell’età moderna rispetto all’epoca medievale sta proprio nella circostanza che sebbene anche nel medioevo vi fosse un sistema giuridico composto da molti ordinamenti giuridici, da cui la definizione di pluralismo giuridico, in quell’era vi era un rapporto tra i vari ordinamenti di genus a specie dove vi era una prevalenza generale dei due ordinamenti universali, l’impero e la chiesa, che per altro disciplinavano ambiti diversi. Di contro con i colpi inferti all’universalismo della chiesa e dell’impero (dal protestantesimo nel primo caso e dal desidero della creazione di un’identità nazionale nel secondo accompagnato per altro dalla crisi del diritto universale giustinianeo che l’umanesimo aveva generato) in età moderna si viene a creare inevitabilmente un sistema giuridico in cui vi sono tanti ordinamenti tutti validi e tutti alla pari, dirà Voltaire che in Francia (per fare un esempio) si cambia cavallo tante volte quanto cambia il diritto. Tutto questo caos crea un sistema giuridico tanto incoerente (ogni norma di un ordinamento può essere contraddetta da un altro ordinamento) quanto in conoscibile. Ovviamente uno stato di cose simile genera nei giuristi dell’800 un sentimento di ripudio, eppure l’età moderna, il particolarismo giuridico sono tappe fondamentali ed obbligate perché la società europea approdi ad un sistema giuridico basato sulla tecnicizzazione del diritto ed alla sua codificazione. La tecnicizzazione del diritto è un’espressione volta a definire il diritto come il frutto di categorie dogmatiche certe e dimostrabile, questi fattori che caratterizzano il diritto del nostro attuale sistema giuridico sono per altro il prodotto di un lento processo che ha condotto verso la deresponsabilizzazione dei giuristi in favore dell’accentramento del potere legislativo nelle mani del sovrano. Tecnicizzazione del diritto e deresponsabilizzazione dei giuristi sono fenomeni che hanno per altro condotto in maniera obbligata alla codificazione del diritto. Quest’ ultima può essere identificata come, per altro, un processo storico e culturale il cui prodotto necessario è il codice. Un codice del 1800 altro non è che un documento contenente norme che ha carattere unitario ed una pretesa sistematizzante, ha inoltre il carattere dell’esaustività nel senso che tende a disciplinare in maniera completa (questa caratteristica non la si rintraccia analizzando i nostri codici, il codice civile senza le centinaia di leggi che lo corredano non è per nulla esaustivo) un’ ambito del diritto non lasciando spazio ad antinomie o a lacune, infine un codice fa uso di un linguaggio tecnico- giuridico comunque semplice e chiaro. 20 Per altro il processo di codificazione porta con se istanze di ripartizione del diritto in macro- aree o ambiti e istanze di cristallizzazione e conservazione di quelle novità di cui lo stesso processo di codificazione si è fatto portatore nel riformare il sistema giuridico in cui si insedia. Tutte queste caratteristiche rispondono perfettamente alle richieste di necessità di certezza da parte del diritto, ma ovviamente affinché si giunga alla produzione del primo codice, il code Napoleon, è necessario attendere che la storia faccia il suo naturale decorso, ricordiamo che la società e dunque le esigenze di questa cambiano molto più rapidamente rispetto al percorso della evoluzione del diritto. Un primo passo che bisogna fare per poter comprendere come sia stato possibile giungere all’età delle codificazioni partendo dal pluralismo giuridico e passando per il particolarismo giuridico, è quello di spostare il nostro campo di analisi dal centro di attività legislativa giurisprudenziale, quindi i giuristi, al centro di produzione di norme regie; sappiamo ormai per certo che il diritto è ed e sempre stato il prodotto della dell’unione ma più che altro della dicotomia tra le due principali fonti di diritto appunto, iura e leges, diritto positivo e diritto giusnaturale. Bisogna infatti capire come sia stato possibile che l’importanza e la centralità della legislazione regia abbia preso il sopravvento nel panorama delle fonti spodestando di fatto il ruolo dei giuristi che come abbiamo visto dal medioevo fino ai primi decenni dell’età moderna avevano dominato la scena legislativa con la loro attività giurisprudenziale. È questo un percorso storico che passa obbligatoriamente per quelle che sono state le grandi idee del giusnaturalismo e dell’illuminismo giuridico e che hanno fortemente influenzato i rapporti di forza tra i grandi attori della scena politica e legislativa. Il processo riformatore parte per l’appunto dall’esigenza di semplificare un sistema giuridico costituito dai due grandi ordinamenti degli iura propria e dello ius comune e corredato da una molteplicità di micrordinamenti,ossia i vari diritti particolari. Questo panorama delle fonti rende impossibile soddisfare quelle istanze di certezza del diritto che iniziano a farsi sentire soprattutto nella Francia del ‘500; per il vero il giudice che volesse risolvere un caso processuale ha ampio margine discrezionale potendo attingere dalle varie norme che compongono i diversi ordinamenti giuridici e che pur essendo tutti validi e legittimi sono molto spesso contrastanti e antinomici. Nella Francia del ‘500 il diritto che prevale su tutte le altre fonti è quello di natura regia, le correnti filosofiche tentano in ogni modo di sostenere la legittimità di tale supremazia, in quanto si diffonde la consapevolezza che la legislazione regia non ammette antinomie in se e neppure con ordinamenti minori, questa quindi si presta a divenire preminente potendo soddisfare le esigenze di certezza del diritto. In altre parole si assiste ala statalizzazione del diritto. Tuttavia ben sappiamo che affinché il diritto cambi profondamente aspetto, non basta da sola ne un’istanza politica ne filosofica, è invece necessario che a mutare siano proprio il contesto sociale e le esigenze di quest’ultimo. E guardando al contesto della Francia del ‘500 ci accorgiamo che sebbene la legislazione regia prevalga sulle altre almeno dal punto di vista produttivo, lo stesso non può dirsi dal punto di vista delle gerarchia; infatti le norme regie venivano prodotte in modo alluvionale esse non erano mai abrogative ed andavano ad accumularsi con le precedenti, tutto ciò creava confusione e rendeva difficilmente conoscibile l’apparato delle norme di produzione regia. La stessa cosa poteva dirsi dei diritti particolari, per lo più a base consuetudinaria, esse non venivano abrogate dalla legislazione regia, il Re infatti rispettando la tradizione medievale, all’atto dell’ascesa al trono giurava che avrebbe rispettato le consuetudini locali, non aveva dunque la forza politica di abrogarle attraverso la sua normazione. Tutte queste fonti che vanno moltiplicandosi nel tempo sono ovviamente abilmente maneggiate da giuristi ed avvocati ma poco conosciute dal giudice che è da sempre ignorante in materia giuridica, 21 il cui compito è sempre stato quello di decidere sulla base di quanto esposto dagli avvocati o di quanto consigliato da giuristi esperti. Ovviamente queste circostanze comportano che un abile avvocato può raggirare il giudice come vuole attingendo da questa o da quella fonte pur sempre valida e legittima a difesa del proprio cliente. Tutto questo disordine nel panorama delle fonti rende incerto il diritto ed incerta la sua applicazione, tanto che nel ‘600 fanno la loro comparsa alcune raccolte private o pubbliche (in quest’ultimo caso commissionate a privati da pubblici poteri che poi promulgavano rendendo così pubbliche tali raccolte) di norme per lo più, ma non solo, consuetudinarie. Lo scopo di tali raccolte è quello di riordinare le fonti del diritto ed anche se non hanno formalmente efficacia abrogativa, di fatto è come se l’avessero, infatti essendo conosciute perchè conoscibili solo le fonti direttamente esposte nelle raccolte tutte le altre erano implicitamente inapplicate. Queste raccolte di fatto deprivavano le consuetudini delle loro caratteristiche principali ossia la tradizione orale, e la provenienza dal basso; è infatti contro la natura stessa delle consuetudini essere messe per iscritto ed è ancor più innaturale che una stesura di una raccolta venga ordinata dal potere pubblico. Carlo VII: verso l’accentramento del potere politico e del potere legislativo. Tuttavia nel 1454 il re di Francia Carlo VII emana un’ordinanza in cui esplicita che uno dei suoi prossimi obbiettivi è quello di riordinare tutte le fonti del diritto,incluse le consuetudini effettuando una sistemazione delle stesse in raccolte che dovranno redatte da una commissione mista. Di certo il re non aveva intenzione di abrogare le consuetudini locali, non avrebbe potuto farlo, tuttavia le consuetudini se messe per iscritto e promulgate dal re perdono le loro principali caratteristiche e divengono legge del re. Tuttavia in tal modo il re mette bene in chiaro quali dovranno essere i rapporti di forza, egli bene esplicita il suo desiderio di controllare tutte le fonti di diritto presenti nel regno. Il nome dell’ordinanza prende il nome dal luogo in cui essa fu emanata, “Ordonance de Montil Lez Tours”, con essa Carlo VII specifico quale era il suo progetto di riordino e quali sarebbero state le modalità di svolgimento dell’operazione. In particolare la raccolta si sarebbe dovuta occupare di mettere insieme usi, consuetudini e stili. È questa una formula molto ampia, per il vero consuetudini ed usi differiscono solo nella terminologia, in quanto sostanzialmente indicano la stessa cosa, piuttosto il termini stili va inteso come l’insieme delle modalità procedurali proprie di un Tribunale d’ancien regime; per l’appunto ciascun tribunale aveva il suo modus operandi in quanto a meccanismi e procedure che si affermavano in maniera consuetudinaria cosi che ognuno d’essi potessi vantare una propria identità. Questa redazione scritta doveva quindi comprendere consuetudini, usi e stili; il progetto di redazione doveva essere condotto da una commissione mista composta da funzionari del re, operatori del diritto, quali avvocati, notai e giudici, e la popolazione del luogo, dalla quale doveva provenire non solo un apporto di consulenza ma anche il consenso a procedere con la redazione scritta delle consuetudini locali. L’ordinanza prevedeva inoltre che il testo cosi come redatto dalla commissione sarebbe stato poi inviato a corte dove il sacro consiglio del re ed il Parlamento lo avrebbero vagliato ed infine inoltrato al Re, il quale con un suo placet ne avrebbe decretato la vigenza confermando il contenuto del testo cosi come era stato redatto dalla commissione. Quindi facendo riferimento alla conferma contenutistica il re nell’ordinanza vuole assicurare che non avrebbe assolutamente tolto o aggiunto nulla al testo redatto ne avrebbe manipolato in alcun modo il contenuto piegandolo al suo piacimento. 22 strutturato di funzionari e burocrati che è capace di amministrare al meglio, anche se sotto la guida del re, la macchina statale. In definitiva con una mossa apparentemente innocua Luigi XIV da l’avvio a quel processo di accentramento del potere politico nelle sue mani che per l’appunto sfocerà nell’assolutismo del sovrano. Ma perché il progetto assolutistico possa dirsi compiuto è necessario che anche l’intero panorama del potere legislativo venga accentrato nelle mani del sovrano, Luigi XIV raggiunge anche questo obbiettivo attraverso un’ulteriore operazione importante. Infatti per il tramite del suo penitenziario, il ministro Jean Baptist Colbert, il Re sole tenta di dare l’avvio ad un processo di unificazione del diritto francese che per altro prevedeva l’accentramento del potere legislativo nelle mani della corona. Questo tentativo viene attuato tramite l’emanazione di 4 grandi ordonance per l’appunto redatte ed emanate tra il 1667 ed il 1681. Esse riguardavano quattro diverse aree del diritto: 1°: Ordonance civil pour la reformation de la justice, questa per l’appunto riguardava la riforma in materia di procedura civile- 1667; 2°: Ordonance criminel, in riferimento all’ambito penale e di procedura penale- 1670; 3°: Ordonance du commerce, relativa al diritto commerciale- 1673; 4°: Ordonance touchane la marine, in riferimento al diritto della navigazione- 1681. Da notare che nessuna delle ordinanze si occupa di diritto privato o diritto civile. Esse hanno carattere abrogativo nei confronti di tutte quelle norme non inserite negli apparati normativi e che si occupano di disciplinare materie già disciplinate dalle ordinanze. Inoltre viene imposto il divieto di interpretazione ai giudici ed ai giuristi, l’unica interpretazione possibile in caso di lacune o non chiarezza del testo delle ordinanze è quella autentica, e quindi in corso di un procedimento il giudice dubbioso poteva chiedere l’interpretazione della norma direttamente al sovrano legislatore. Con queste quattro ordinanze e con il regime a cui esse sono state assoggettate Luigi XIV evidenzia la sua intenzione ormai chiara di avocare a se il potere legislativo e di far prevalere la legislazione regia su tutte le altre fonti di diritto nel regno. Talvolta queste ordinanze sono state assimilate a dei codici,con la logica conseguenza che costituirebbero essi il prototipo del codice attuale piuttosto che il code Napoleon; tuttavia questa assimilazione è stata fortemente contrastata da quei giuristi che a sostegno della loro tesi hanno evidenziato che le quattro ordinanze mancano del carattere dell’esaustività e del divieto della eterointegrabilità, esse infatti abrogano solo quelle norme che disciplinano materie già regolate da esse stesse, ma lasciano in vigore quelle norme di diritto consuetudinario e di diritto particolare che si occupano di regolare aspetti della vita non tenuti in considerazione dalla ordinanze, come nel caso del diritto civile e privato. Per altro un codice che propriamente così possa definirsi, un codice che presenti le caratteristiche di cui abbiamo già parlato e che porti con se quegli elementi caratterizzanti che i giuristi dell’800 hanno per altro stigmatizzato e dogmatizzato, deve contenere delle norme nuove rispetto al sistema giuridico che va a sostituire, di contro le ordinanze di Luigi XIV contengono una rielaborazione di una serie di norme scelte tra il materiale già esistente nell’ordinamento francese. Infine un codice come abbiamo gia detto ha pretesa di completezza logica in quanto immagina di poter rispondere a qualsiasi lacuna esistente nel codice stesso (anche perché il codice non è eterointegrabile) facendo ricorso alla logica che sottende alla struttura del codice stesso, per cui anche se non vi è una norma esplicita che disciplini un caso concreto il giudice ricorrendo ai principi logici che sottendono al codice, e non a norme esterne al codice, dovrebbe essere in grado di risolvere l’antinomia. Per capire le profonde motivazioni che hanno spinto il sovrano assoluto a scegliere di disciplinare degli ambiti giuridici piuttosto che altri, è necessario guardare al significato che ogni area ha per il 25 potere pubblico ed alle conseguenze che da tale riordino sono derivate in riferimento ad ogni ambito giuridico. Partendo dalla prima ordinanza, ossia quella relativa al processo civile, per capire ciò che ha indotto Luigi XIV ad un riordino di tale ambito, dobbiamo prima analizzare il concetto di processo e cosa significa per il potere pubblico assoggettare con una propria disciplina la procedura civile. Il processo in vero è il momento in cui il diritto trova una sua applicazione patologica (l’applicazione fisiologica del diritto la si rintraccia ad esempio nella stipula del contratto) ed il luogo in cui tale applicazione avviene è il tribunale. Nei grandi tribunali della monarchia francese, ma in genere in tutti i tribunali, viene gestito il processo e giudicata una specifica controversi mediante l’applicazione di una norma scelta dal giudice che attraverso l’arbitrium di cui dispone fa una cernita tra le norme in vigore nell’ordinamento alla ricerca dell’aequitas consituta ossia l’equità del caso concreto, in modo tale da applicare al caso specifico la norma più equa e più adatta. Oggi al termine arbitrium si da una connotazione negativa, nel senso che lo si considera come una scelta antidemocratica e fondata in forza del potere di cui chi sceglie dispone,piuttosto che sulla base di criteri giusti ed equi. In realtà il giudice medievale ed il giudice d’età moderna disponeva di arbitrium nel senso che al momento dell’applicazione di una norma al caso concreto doveva scegliere tra le varie formule interpretative fornite dal giurista , quella che maggiormente si addiceva al caso disciplinato. La connotazione negativa che oggi si da al termine arbitrium è per altro frutto della circostanza per la quale il giudice dell’età della codificazione è divenuto mero esecutore della legge espressamente prevista per il caso concreto dal codice. Inoltre il giudice odierno è deresponsabilizzato nei confronti della sentenza nel senso che non spetta a lui, a differenza che nel caso del giudice di ancien regime, trovare l’aequitas che è stata invece trasfusa nel codice dal legislatore stesso. Il paragone tra l’attuale procedimento applicativo di una norma al caso concreto e quello d’ancien regime, ci conduce ad afferrare le motivazioni che hanno spinto un sovrano assoluto, il Re Sole, a disciplinare il processo civile. Abrogando tutte quelle norme di procedura civile, provenienti da fonti parallele alla legislazione regia, Luigi XIV limita fortemente l’arbitrium del giudice che non potrà più scegliere quale norma dover applicare e non dovrà più attraverso attività interpretativa, che per altro vieta espressamente nell’ordinanza, rintracciare l’aequitas del caso concreto, tra norme di diverse fonti, in quanto da quel momento l’unica e sola fonte vigente disciplinante quella data situazione giuridica è quella proveniente dalla legislazione regia. In altre parole da un sistema processuale fondato sull’attività interpretativa dei giudici e dei giuristi di stampo prettamente medievale, Luigi XIV introducendo tali limitazioni per il tramite delle ordinanze, traghetta il sistema verso quello che attualmente viene definito un sistema dogmatico, laddove il giudice nel risolvere il caso deve affidarsi non al suo arbitrium (nonostante sia ad esso conferito un certo margine di discrezionalità) bensì alla norma indicata e ben definita nel codice oggi, e dunque nelle ordinanze all’epoca del Re Sole. Per altro la valenza delle norme riportate nell’ordinanza assume maggiore assolutistica se si pensa che Luigi XIV con la già citata operazione politica della reggia di Versailes, aveva affiancato ai potenti nobili giudici togati, dei giudici burocrati direttamente scelti e stipendiati dalla corona e da essa stessa manovrati. Dunque la combinazione dei tre fattori, ossia l’ esautoramento dei nobili che ormai solo nominalmente avevano la funzione di giudice la nomina di giudici a lui sottoposti e l’emanazione di un’ordinanza che abrogava tutte le altre fonti parallele a quella regia in materia di processi civili, permise a Luigi XIV di avere il controllo contemporaneamente del potere politico, del potere legislativo e dell’applicazione della legge. A differenza degli altri ordinamenti europei che tra il 1400 e il 1500 avevano anch’essi provveduto al riordino delle norme processuali, Luigi XIV affianca alla riforma processuale, un apparato 26 giudicante che risponde solo a lui e che inevitabilmente applica quelle norme che lui stesso ha fatto emanare in materia di processi. Dunque l’ordinanza sulla procedura civile può essere ascritta all’interno di quel disegno più grande che dirige la monarchia francese verso tendenze assolutistiche e di accentramento di tutti i poteri nelle mani del sovrano. Lo stesso può dirsi a proposito dell’ordinanza relativa al diritto penale sostanziale e procedurale (si ricorda in merito che la distinzione fra le due categorie è frutto della dottrina ottocentesca). Il riordino in materia penalistica riguarda ovviamente il campo della composizione del conflitto. Abbiamo parlato tanto a proposito della composizione delle controversie e sappiamo già che questa può avvenire in differenti modi: innanzitutto in maniera naturale ed istintiva per il tramite della vendetta privata; poi è possibile comporre un conflitto tra due parti attraverso l’intromissione di un terzo soggetto, che può essere detto mediatore qualora questo sia dotato di una certa autorevolezza all’interno della comunità ma che non ha alcuna autorità tra le parti; ed infine per il tramite dell’intromissione di un arbitro, un terzo soggetto la cui autorità proviene dal consenso delle parti che lo scelgono attribuendogli il compito di risolvere la controversia. Tuttavia la storia insegna che in tutti e tre i casi la composizione del conflitto è debole ed effimera; ciò che manca in ognuno delle tre modalità è il corredo di un apparato repressivo capace di costringere la parti a rispettare la decisione compositiva. Per altro in tutti e tre i casi la composizione del conflitto viene vista come un affare privato che va risolta tra le parti con al massimo l’intromissione di un terzo soggetto, ricordiamo a tal proposito la distinzione che facevano i romani in merito ponendo da un lato i crimina che erano le azioni delittuose arrecate all’intera comunità e dall’altro i delicta, che costituivano le offese arrecate al singolo individuo. Le due fattispecie criminose erano per altro perseguibili attenendosi a due diversi fonti di diritto, e dunque i delicta erano perseguibili nell’ambito del processo privato o civile mentre i crimina venivano repressi nell’ambito del processo pubblico o criminale. Dunque sin dall’epoca del diritto romano la composizione del conflitto tra privati viene vista come un affare privato che va risolto tra le parti. Dal punto di vista del penale, la storia del diritto è storia dell’emersione di apparati pubblici repressivi in grado di comporre il conflitto tra le parti assicurandosi poi che la decisione presa vanga rispettata da entrambe. Il conflitto da affare privato, regolato dalle parti diviene sempre più questione pubblica. L’evoluzione dell’aspetto penalistico in tal senso è dovuta innanzitutto alla circostanza che pian piano ci si rende conto del fatto che il conflitto per quanto privato e per quanto prenda le mosse dalle parti in questione, deve essere considerato alla stregua di un delitto pubblico, in quanto esso principalmente mette in crisi l’equilibrio tra i componenti sociali. Laddove vi sia incapacità di repressione e composizione del conflitto da parte di uno stato, questa circostanza viene avvertita come vera e propria assenza dello stato sul territorio. Questa circostanza per altro conduce inevitabilmente all’emersione di apparati paratali ( quali le criminalità organizzate, tipo mafia o camorra) che si appaltano il potere di comporre e reprimere con mezzi tra i più disparati e il più delle volte criminosi, il conflitto. Il fatto che un conflitto venga sanato da tali apparati e non dallo stato, comporta che le parti ad essi si rivolgano nel caso di necessità, ed ovviamente il potere di queste organizzazioni parallele allo stato cresce divenendo concorrente sul territorio con quello dello stato stesso. In definitiva l’autorevolezza nella composizione dei conflitti si traduce inevitabilmente in controllo del territorio, ed un potere pubblico è tanto più forte sul territorio quanto più questo ha la capacità di reprimere atti criminosi e di ricomporre, secondo criteri di giustizia ovviamente, l’equilibrio sociale; erigendosi come unico appaltatore della giustizia in senso ampio, e non lasciando spazio alcuno ad organizzazioni parastatali nell’ambito del controllo del territorio. 27 Inoltre l’ordinanza impose l’introduzione della tenuta obbligatoria dei libri contabili ai quali fu data per altro efficacia probatoria, che dipendeva però dalla forma con cui erano stati redatti, infatti il Code Savary aveva delineato un particolare forma scritta per tali registri. Infine il Code Savary introduce importanti modifiche a proposito delle modalità processuali adottate dai mercanti. Le compagnie mercantili per le controversie relative all’attività di mercatura sin dal medioevo si rivolgevano ai tribunali mercantili, istituiti appositamente al fine di ovviare attraverso meccanismi processuali più rapidi alla lentezza dei tribunali ordinari. Tuttavia nel 1600 si assiste ad una inversione di rotta almeno nel caso di controversie riguardanti la bancarotta fraudolenta di una compagnia mercantile, infatti nel tal caso il procedimento deve essere affidato esclusivamente ad un tribunale ordinario. La motivazione di tale cambiamento è da rintracciarsi nella mutata visione della bancarotta fraudolenta, nella Francia di Luigi XIV si da a questo tipo di fallimento una connotazione di carattere pubblico e non solo privato. Fino ad allora si era sostenuta la connotazione privata del fallimento per bancarotta fraudolenta in quanto si rilevava che tale fallimento arrecava danni alla compagnia che oltre a fallire veniva cancellata dall’esistenza e talvolta alle banche che avevano prestato dei soldi che non potevano più avere indietro. Tuttavia a partire dal 1600 si pone l’accento sul fatto che la frode ha un carattere più ampio e mette in crisi in realtà non solo gli attori protagonisti, mercanti e banche, ma tutto il sistema che li circonda, e dunque i piccoli risparmiatori,il cui denaro è stato investito dalle banche nelle compagnie (c’e uno stretto legame tra banche e mercanti al punto tale che talvolta le due professioni sono esercitate dalla stessa persona) non possono più ricevere indietro i loro risparmi perché fallendo la compagnia la banca non può riscuotere il prestito fatto e non può restituire i soldi ai risparmiatori. Oggi in casi simili gli stati nazionali prendono in mano la situazione attraverso interventi economici che tentano di salvaguardare banche e risparmiatori cercando di rimettere in moto l’economia, nella Francia del 1600 questi meccanismi interventisti non erano previsti tuttavia si ricorre a sistemi di pubblicizzazione del fallimento per bancarotta fraudolenta attraverso la procedibilità esclusiva innanzi a tribunali ordinari. Per altro il carattere pubblico delle conseguenze che il fallimento fraudolento comportava è rilevato anche dalla circostanza che la fides pubblica veniva tradita da tali compagnie mercantili creando un generale senso di squilibrio nel sistema economico collettivo. Quello su cui bisogna puntare l’attenzione riguarda tuttavia la circostanza che nel 1600 si intraprende una via in cui tutti o quasi tutti gli aspetti giuridici della vita quotidiana di un uomo sono regolamentati dall’apparato pubblico, tale percorso intrapreso nella Francia del 1600 condurrà verso l’affermazione, oggi a noi nota, del binomio diritto = legge. Per quanto riguarda la quarta ordinanza, quella relativa alla marina, ossia al diritto di navigazione, essa risulta essere complementare al diritto commerciale. Un po’ in tutta Europa nel 1600, si fanno sempre più pressanti e forti le mire espansionistiche ed il colonialismo diventa obbiettivo comune di tutte le grandi potenze marittime europee, la Francia in questo affianca in maniera oltremodo competitiva potenze coloniali quali le Fiandre, l’Olanda, la Spagna ed il Portogallo. In particolare la Francia si mette in rotta verso la conquista di nuove terre sia ad ovest che ad est, e come un po’ per tutte le potenze marittime, le basi coloniali vengono considerate come fonte di ulteriori incassi per le casse della corona. Il re Luigi XIV vuole approfittare di questa situazione oltremodo interessante ed attraverso una regolamentazione pubblica del diritto di navigazione intende sottoporre al suo controllo queste attività particolarmente redditizie. Con l’ordonance de la marine si introducono forme regolamentate della navigazione che permettono alla corona francese di accertare in maniera sicura i carichi navali di merce che viene esportata ed 30 importata salpando da un porto per approdare in un altro, a tal proposito si impone per esempio l’obbligo di non ostacolare ispezioni dei carichi navali agli ufficiali del re; in tal modo è certamente più facile per il regno imporre dazi e tasse doganali sulle importazioni e sulle esportazioni in relazione al carico navale. Per altro l’ordinanza istituisce dei registri in cui ogni nave francese deve essere iscritta, ma oltre questo l’ordinanza impose l’obbligo ad ogni spostamento da un porto all’altro di registrare l’arrivo e la partenza della nave nei porti in cui approdava. Queste ultime due ordinanze oltre l’importanza direttamente percepibile nella Francia del 1600 hanno anche una profonda rilevanza dal punto di vista storico in quanto confluiranno nel code du commerce napoleonico del 1807, il quale a sua volta sarà preso come modello e il contenuto farà da base per la costituzione del codice civile italiano del 1865 nella parte in cui tratterà dei diritto commerciale. Ovviamente con tutte le trasformazioni del caso, le ordinanze di Luigi XIV confluiranno nel sistema dei codici napoleonici i quali a loro volta saranno recepiti in tutta l’Italia preunitaria (ad eccezione di Sicilia e Sardegna) e quando nel 1865 raggiunta l’unita del paese ,ed i nostri antenati decisero di impiantare nella neonata nazione un sistema codicistico, quello stesso contenuto dei codici napoleonici venne quasi integralmente recepito in quel codice civile del 1865 che rimase vigente sino al 1942. Le ordinanze si possono in definitiva, definire come un tentativo, per altro riuscito, di imporre la legge regia su tutte le altre fonti di diritto quali diritti particolari su base personale, come il diritto mercantile o il diritto feudale o ancora il diffusissimo diritto consuetudinario. Sin dal medioevo i vari diritti appena citati potevano addirittura imporsi sulla legislazione regia a seconda dei casi e delle circostanze concrete, vige senza rivali il binomio diritto = società; in età moderna si intraprende un percorso inverso che prende le mosse dall’accentramento del potere legislativo, le cui giustificazioni possono talvolta rintracciarsi in elaborati modelli di giustizia filosofici quali umanismo giusnaturalismo ed illuminismo. Tale percorso condurrà verso la supremazia della legge e con l’affermazione dei codici nel 1805 potrà dirsi (almeno momentaneamente) conclusa la lunga e duratura battaglia tra legge e diritto giurisprudenziale. Diritto dei giuristi che nel medioevo, in assenza di un potere sovrano in grado di avocare a se il potere legislativo, aveva dettato norme attraverso l’interpretazione di un diritto assai antico, il diritto romano, conciliandolo con le consuetudini generali e locali. La giurisprudenza giudicante ed i Grandi Tribunali. Questo periodo fiorente del diritto giurisprudenziale giunge al culmine in età moderna, e può dirsi concluso con l’affermarsi del diritto codicistico. Tuttavia parallelamente all’affermazione della supremazia della legge va facendo la sua comparsa un’altra importante fonte di diritto, apparentemente amica ma in realtà antagonista della legislazione regia, ossia il diritto della giurisprudenza giudicante. Tale forma di diritto prende corpo nel 1600 circa nei Grandi Tribunali istituiti per l’appunto per volere del Re, ecco perché è necessario sottolineare il paradosso che viene a crearsi verso la fine del 1600, infatti quest’ulteriore fonte di diritto che diverrà antagonista della legislazione del re ,imbrigliando il potere legislativo regio, era stata indirettamente creata dal Re stesso che aveva voluto l’istituzione dei Grandi Tribunali. La necessità avvertita dal monarca di istituire dei luoghi in cui si amministrasse giustizia a lui sottoposti va ascritta nello stesso disegno di cui abbiamo ampiamente parlato dell’accentramento del potere sovrano. Già nel primo medioevo la funzione principale del re in tempo di pace era quella di giudicare delle controversie e di ristabilire l’ordine sociale in casi di conflitti (oltre quello di guidare il popolo in battaglia), la funzione legislativa verrà affidata al re soltanto più tardi e comunque in maniera 31 marginale, del resto abbiamo appena detto che la legislazione principale nel medioevo è costituita da consuetudini e diritto giurisprudenziale. Lo stesso Federico II nel Liber Augustalis, (scritto per altro in un era del Medioevo in cui si iniziava ad affermare l’idea di un sovrano legislatore in grado di imporre la propria supremazia con le leggi) ribadisce il fatto che la sua principale funzione è quella giudicante. Del resto l’innovazione legislativa e dunque la produzione di norme, come tutte le novità, non era vista di buon occhio, ricordiamo in proposito che a Federico II viene dato l’appellativo in accezione negativa di stupor e innovator mundi. Le innovazioni soprattutto dal punto di vista giuridico erano intese come sconvolgimenti dell’ordine naturale dato da Dio. In particolare il diritto è dato da Dio attraverso il diritto divino, il diritto della chiesa e il diritto giustinianeo, il giurista, l’interprete deve attenersi a quanto scritto letteralmente (ovviamente la necessaria contestualizzazione del diritto antico comporta il graduale allontanamento da questa rigida visione) ed il legislatore medievale può intervenire con il diritto positivo soltanto laddove il diritto naturale non è sufficientemente completo o chiaro ma non può comunque e non deve sovvertire l’ordine dato. Per altro l’idea della maggiore importanza di un sovrano giudicatore rispetto ad un sovrano legislatore è corroborata dalla visione teologica del potere laddove le dottrine della chiesa sottolineano la forza di Dio o di Gesù quali entità giudicanti, basti pensare ai vari riferimenti al giudizio di Dio, al giudizio universale, per non parlare della vicenda processuale legata al peccato originale. Tutte queste considerazione sulla preminenza del potere giudiziario rispetto al potere legislativo lasciano immaginare quali istanze e quali retaggi medievali trascinati in età moderna, abbiano influenzato il monarca Francese che voleva imporre la propria supremazia su tutto il territorio abbracciando tutte le articolazioni del regno comprese quelle relative all’amministrazione della giustizia. Se è accettata l’idea che il potere passa anche e soprattutto attraverso l’applicazione e l’amministrazione della giustizia in un momento di piena affermazione della sovranità del Re non si può pensare ad un amministrazione della giustizia affidata ed appaltata soltanto ai tribunali ordinari, gestiti da quei potenti giudici nobili,per altro ignoranti in materia giuridica, che hanno comprato il titolo di giudice e che ostentano il loro potere effettivo di amministrazione della giustizia al Re ed alle sue pretese di accentramento di tutti gli aspetti della sovranità. I Grandi Tribunali del Re. Dunque già a partire dal ‘200- ‘300 e ancor di più in età moderna,il re amministra personalmente la giustizia attraverso esperti del diritto da lui direttamente nominati. Questa tendenza si afferma compiutamente nel ‘500 quando accanto ai tribunali ordinari vengono istituiti i c. d Grandi Tribunali del Regno gestiti da collegi giudicanti o da giudici monocratici nominati direttamente dal Re e dunque a lui sottoposti. In tal modo nell’ambito dell’amministrazione della giustizia si crea un via parallela ai tribunali ordinari, ed i Grandi Tribunali possono considerarsi espressione diretta della funzione di Re- giudice. In Sicilia ad esempio, viene istituito un organismo giudicante monocratico denominato giudice della sacra reggia coscienza, esso è dunque nello svolgimento della sua funzione espressione della coscienza giudicante del re, ovviamente tale giudice è direttamente nominato dal re. I Grandi Tribunali giudicano su tutte le cause già giudicate dai tribunali ordinari di grado inferiore, costituiscono dunque la più alta forma di tribunali d’appello, sono in effetti anche denominati Tribunali apicali. Inoltre ovviante come è giusto che sia, i G. Tribunali hanno competenza esclusiva in altri ambiti come ad esempio per quel che riguarda il reato di lesa maestà o sulle cause feudali dei feudi maggiori; 32 ed è proprio sulla base della circostanza per cui un tribunale sentenza dopo sentenza conferma la propria posizione riguardo ad alcune fattispecie concrete e il proprio modo di operare, che si afferma lo stilus di un dato tribunale, lo stile, l’orientamento che caratterizza e distingue un tribunale rispetto ad un altro. In altre parole la coerenza di un tribunale apicale viene concepita come autorevolezza di questo organismo, e soprattutto dei membri che ne fanno parte. La giurisprudenza giudicante che si sviluppa nel corso del ‘500 cerca di mantenere una determinata autonomia nell’ambito della creazione del diritto in un contesto in cui si va affermando compiutamente il potere legislativo del sovrano su tutte le altre fonti del diritto. Il rapporto tra il re e la nascente giurisprudenza giudicante risulta essere paradossale rispetto ai presupposti sulla base di quali il monarca aveva dato incipit ai Grandi Tribunali. I Tribunali apicali erano stati creati per volontà del sovrano, quali espressione della volontà della corona nell’amministrazione della giustizia e quale braccio esecutivo del re che aveva piano piano sottoposto al suo controllo ogni articolazione del regno. Tuttavia per mezzo dell’arbitrium e della grande autorevolezza di cui dispongono i giudici dei tribunali apicali si viene a creare una situazione paradossale in cui il potere legislativo del re viene limitato e controllato dal potere giudiziario di quegli stessi organismi da lui voluti e creati al fine di non essere sottoposto a controlli e limitazioni nell’esercizio dei suoi poteri (i tribunali apicali nati per volontà del sovrano non solo dovevano applicare esclusivamente la legge del Re assicurando ad essa validità non solo formale ma anche concreta e dovevano inoltre rappresentare il Re nell’esercizio della funzione giudicante). In altre parole ci troviamo di fronte ad una situazione in cui due diritti autolimitanti provengono anche se per vie e con scopi diversi ,dalla stessa fonte, il Re. Il paradossale risultato raggiunto dalla corona francese è certamente imputabile a vari fattori, primo fra essi il prestigio di cui godevano i giuristi scelti quali membri del collegio giudicante; la loro autorevolezza era talmente tanta che solo Napoleone con la forza non del diritto ma della rivoluzione, riuscirà a limitarne la portata in favore dell’autorevolezza dei codici. La circostanza per cui soltanto con i codici si pone un freno agli interventi della giurisprudenza nell’ambito della formazione del diritto fa riflettere su un altro fattore che ha favorito l’ascesa ed il prestigio della giurisprudenza giudicante e dei giudici dei Grandi Tribunali. L’autorevolezza dei Grandi Tribunali, era infatti tra le altre cose determinata dalla esistenza di un orientamento prevalente nel loro modus operandi, confermato di processo in processo e di sentenza in sentenza. La reiterazione di un dato orientamento giurisprudenziale rispondeva in qualche modo alle richieste di certezza del diritto; il fatto che ogni tribunale avesse un proprio stilus ne rafforzava innanzitutto l’identità ma soprattutto la coerenza che è il punto di forza di questi tribunali; laddove un collegio giudicante mantenesse costantemente un proprio stilus iudicandi applicando determinate leggi piuttosto che altre ne conseguiva necessariamente che le leggi inapplicate pur se continuavano ad essere valide cadevano in desuetudine e venivano dimenticate, in tal modo si diffondevano e venivano conosciute (perché applicate costantemente) solo quelle leggi per l’appunto utilizzate dai tribunali (del resto proprio questa osservazione spinse il re ad istituire tribunali a lui sottoposti), il che in definitiva permetteva ai sudditi del regno e soprattutto ai giuristi di potersi orientare tra le leggi applicate che essendo conosciute rendevano in qualche modo una risposta alle esigenze di certezza del diritto. L’autorevolezza dei grandi Tribunali viene per altro ostentata non solo nei confronti dei tribunali minori, che devono adeguarsi allo stilus dei tribunali apicali se non vogliono rendere appellabile ogni loro sentenza, ma anche verso il monarca le cui leggi paradossalmente devono in qualche modo conformarsi all’orientamento consolidato dal collegio giudicante. In realtà non si detta alcuna imposizione al re rispetto al suo potere legislativo, le sue leggi sono sempre e comunque valide e vigenti, il problema è però evidente: se le leggi del Re contraddicono 35 l’orientamento dei Grandi tribunali, i collegi giudicanti di questi difficilmente le applicheranno ai processi, cosi che tali leggi perderanno forza pratica. Dunque paradossalmente gli stessi tribunali creati dal Re si pongono come una limitazione ed una forma di controllo rispetto al suo potere legislativo, attraverso il non- uso di leggi contrarie alla consolidata giurisprudenza giudicante. Del resto questa azione di contenimento da parte dei Grandi Tribunali nei confronti dell’attività legislativa del Re viene a volte sancita da prerogative istituzionali proprie dei tribunali apicali. In Francia i tribunali apicali sono più di uno, ossia uno per regione, ma quello più importante è quello di Parigi, chiamato Parlamento di Parigi, questo non è un organo rappresentativo che in Francia è per altro costituito dall’Assemblea dei Stati generali. Il Parlamento di Parigi possiede una prerogativa importantissima concessa in virtù di un antico privilegio, ossia la facoltà di perpetrare al sovrano le c. d Lies de Justice, cioè rivendicazioni di giustizia di cui il Re deve tenere conto dandone risposta obbligata (e sarà proprio una rivendicazione del genere che causerà lo scoppio della rivoluzione francese). Un’ altra importante prerogativa istituzionale del Parlamento di Parigi grazie alla quale è in grado di limitare il potere del sovrano è il già citato diritto di interinazione, ossia quel procedimento formale posto a compimento dell’iter normativo e che consente ad una disposizione del re di diventare legge valida attraverso la registrazione di essa negli appositi registri detenuti dal Parlamento. A parte il fatto che, attraverso questo procedimento si configurava per altro, la possibilità per i cittadini di conoscere le leggi valide del regno di Francia, l’importanza di questa prerogativa risiedeva nella circostanza che il Parlamento come abbiamo già detto, registrava la legge soltanto dopo averne verificato l’inesistenza di contraddizioni con le consuetudini ed i privilegi che il sovrano aveva precedentemente giurato di rispettare, limitando così già a priori il potere legislativo del Re (oltre che, lo ricordiamo, poteva poi contenere il potere normativo del sovrano a posteriori non utilizzandola nei processi). Il G. Tribunale esercitando il diritto di interinazione, respinge la legge laddove riscontri incongruenze e non viene registrata come legge del regno di Francia ed infine la rimanda al Re, con la motivazione che “è per il bene del Re di Francia al quale viene così impedito di cadere in contraddizione con il suo stesso giuramento”. Certamente il diritto di interinazione cozzava in maniera evidente oltre che la tendenze espansionistiche dal punto di vista dei poteri del sovrano anche e soprattutto con le mire assolutistiche del Re di Francia. Il sovrano si sentiva legibus absolutus e la lex digna vox ne aveva dato in passato conferma, ma proprio come la lex sottolineava il re era sciolto dai lacci della legge frutto del potere normativo della corona, e dunque nei confronti delle leggi che lui stesso o i suoi pari predecessori avevano prodotto e che lui poteva modificare in ogni momento. A proposito delle altre fonti del diritto, quali consuetudini e privilegi, il sovrano su di esse non esercita alcun potere e ad esse è sottoposto anche se la sottoposizione, sottolinea le lex digna vox è volontaria, al punto che il Re al momento dell’ascesa al trono giura solennemente di rispettare le consuetudini ed i privilegi del regno. A proposito, del privilegio in particolare, il fondamento giuridico della sottoposizione del Re al rispetto di esso è da rintracciare oltre che nell’accettazione volontaria dato il giuramento, anche e soprattutto nella base giuridica su cui poggia il privilegio stesso. Il privilegio, infatti, è un tipico esempio di quello che i giuristi romani definivano ius singolare, un diritto cioè concesso dal legislatore, che va contro la ratio del sistema e che viene dato per una specifica utilitas del destinatario. Dunque il privilegio si configura come un vincolo di natura giuridica tra il beneficiario ed il legislatore stesso che lo concede. L’obbligo, in definitiva discende dalla volontaria accettazione del patto, da parte del Re, dunque il privilegio si configura come un vincolo contrattuale, un obbligo giuridico che attiene cioè alla sfera 36 dei rapporti privati regolati da quello ius gentium, quel diritto naturale quindi sul quale il sovrano no ha alcuna prerogativa di potere, ma al quale anzi è sottoposto. Posto che il diritto naturale è imprescrittibile e che il privilegio è stabilito tra il destinatario e la corona a prescindere dalla persona fisica che ne ricopre la carica non bisogna dimenticare che anche quando la concessione eccezionale risale ad un sovrano predecessore, l’obbligazione contrattuale veniva esplicitamente rinnovata al momento del giuramento. A tal proposito Jean Bodin, teorico dell’assolutismo, ebbe a dire che il giuramento è un atto limitante del potere sovrano del re. Tutte queste considerazioni teoriche relative al potere istituzionale limitante (nei confronti del sovrano)di cui il Parlamento di Parigi condurranno in pratica a scontri continui e rapporti non idilliaci tra il Re e il Parlamento di Parigi che arriveranno al conflitto finale con la Rivoluzione Francese nel 1789. La Sacra Rota ed il Tribunale Camerariale dell’impero. Il più antico e duraturo dei Grandi Tribunali è la Sacra Rota, un tribunale ecclesiastico istituito nel 1331 per e nello stato pontificio da Papa Giovanni XXII con la bolla Ratio Iuris, esso ha sede dapprima ad Avignone e poi viene spostato a Roma. Con quella bolla il Papa istituisce un organo di giustizia autonomo rispetto alla sua persona ma che dietro sua commissio si occupa degli affari giudiziari che riguardano o interessano il pontefice. La S. Rota ha uno stilus che viene consolidato e mantenuto nelle sue linee essenziali per diversi secoli: il processo si svolge dinanzi ad un giudice monocratico detto Reference o Ponence, esso segue il processo dall’inizio alla fine (cioè sino all’emanazione della sentenza) ma non partecipa alla votazione da cui proviene la sentenza del collegio giudicante. Il collegio è un corpo giudicante formato da giuristi di fama straordinaria chiamati Auditores domini Papae, il ponence viene, per altro scelto tra i membri del collegio giudicante ed insignito del ruolo di giudice istruttore del processo. Il reference ottenuto l’opinamentum ossia il voto, il parere di ciascun auditores, lo mette per iscritto e al momento dell’enunciazione della sentenza è obbligato a motivarla accompagnandola con gli opinamenti dei giuristi che l’hanno concepita, dunque a differenza dei Grandi Tribunali del Re, la Sacra Rota rende noto sin da subito l’iter dottrinale seguito dal collegio giudicante. Questa circostanza è dovuta sopratutto per il fatto che soltanto ricevendo le motivazioni degli auditores le parti possono approntare una ulteriore difesa. Del resto nel processo rotale la contrapposizione tra le parti non è rilevante, il processo si svolge come una controversia tra le parti e l’ecumene in generale, e quindi per esempio nel caso odierno dell’annullamento del matrimonio i conflitti tra le parti non vengono in rilievo poiché il processo è svolto con riferimento al sacramento del matrimonio stesso. Le decisiones della S. Rota sono messe per iscritto e pubblicate a stampa in raccolte ufficiali, esse per altro conferiscono particolare autorevolezza al Tribunale pontificio al punto tale che fa la sua comparsa una importante comunis opinio fondata sulle decisiones della S. Rota, che sono ritenute di maggior prestigio datone il carattere dell’ufficialità rispetto a tutte le altre raccolte di decisiones di qualsiasi Tribunale apicale. Tale communis opinio per altro influenza lo stilus di altri Grandi Tribunali, tra cui il G. Tribunale del Regno di Sicilia (Tribunale del concistoro e della sacra reggia coscienza), il Senato di Milano, il Senato di Chambery (per il Regno di Piemonte) la Rota Lucchese e la Rota Fiorentina. Un altro G. Tribunale è il Tribunale Cameriarale dell’impero, nel ‘400 circa il Sacro Romano Impero si configura come uno stato nazionale corrispondente orientativamente all’attuale Germania, sebbene continui a mantenere la denominazione di Impero. Nel 1495 il G. Tribunale della Germania viene riformato dall’imperatore Massimiliano I con la conseguenza che vengono introdotte delle imposizioni singolari rispetto a quanto era il panorama delle monarchie nazionali europee (Francia per tutte, ma ad esclusione dell’Italia che per altro non è una monarchia unitaria). 37 può intervenire se non limitatamente, spazio per l’appunto denominato diritto naturale; ma dall’altro lato bisogna sottolineare l’esigenza dei giuristi di riempire di contenuti contingenti questo spazio intangibile di diritti naturali, contenuti che sono ovviamente relazionati alle esigenze della società e che per questo motivo non possono che essere mutevoli e contingenti. Anche la connotazione di questi diritti è variabile, infatti la legittimazione posta a fondamento della validità universale dei diritti naturali è mutata nel tempo al variare del contesto sociale. Ad esempio gli stoici nel mondo romano immaginavano l’esistenza di diritti universalmente validi e connessi alla natura, termine, per altro, molto sfuggente che con il diffondersi del cristianesimo è stato collegato a Dio. Ed infatti alla connotazione di tipo laica data dallo stoicismo che identificava il diritto naturale con lo ius gentium si alternò la connotazione religiosa che ritroviamo nel diritto divino naturale di Graziano nel medioevo. Ed ancora in età moderna, proprio quando agli inizi del ‘400-‘500 il sistema universalistico della Chiesa entra in crisi, la riflessione giusfilosofica torna ad orientarsi verso una matrice laica del concetto di diritto naturale e della sua base legittimante. L’esigenza di rivedere le basi legittimanti e i principi ispiratori del diritto naturale, in età moderna, è dettata da una serie di fattori che influenzano il contesto sociale del 1500 e rendono inadeguata la visione religiosa che del diritto naturale si aveva avuto sino ad allora. Innanzitutto, la necessità da parte della riflessione giusfilosofica di individuare dei limiti al potere normativo del sovrano e sottolineare i confini all’ambito di competenza del diritto positivo è certamente avvertita sensibilmente data l’esigenza di arginare le mire assolutistiche del sovrano e le tendenze accentratistiche del Re. Il sovrano in età moderna, come abbiamo già visto, attuando una politica di accentramento, ha via via sottoposto al proprio controllo tutte le articolazioni del diritto, tuttavia a fronteggiare le tendenze assolutistiche della corona oltre alla giurisprudenza giudicante che facendo ricorso alle proprie prerogative istituzionali e al personale prestigio ha imposto degli impedimenti e dei limiti al potere normativo del sovrano, contemporaneamente si sviluppa una riflessione giusfilosofica che, per l’appunto, tenta di rintracciare i confini e le ragioni di tali limiti al potere normativo del re. I limiti al diritto positivo sono certamente dati dal diritto naturale ma era necessario per la filosofia individuare il fondamento giustificatore del diritto naturale, una base legittimante dunque che essendo condivisa da tutti gli individui potesse rendere universalmente validi e vigenti i principi di un siffatto diritto naturale. Fino al 1500 il fondamento legittimante del diritto naturale era stato individuato in Dio, il cui potere legislativo era universalmente accettato e condiviso, il che rendeva ovviamente validi i principi naturali definiti intangibili su tutto l’ecumene. In altre parole dunque, un principio di diritto naturale era ritenuto valido oltre i confini dell’ordinamento perché legittimamente dettato dalla natura, ossia da Dio quale legislatore di tutti gli uomini. A riprova di ciò ricordiamo ancora, quanto detto a proposito della circostanza per cui il sovrano in età moderna è considerato legibus absolutus nei soli confronti della legge, ma è ritenuto alligatus rispetto al diritto naturale che, per l’appunto proviene da un legislatore gerarchicamente superiore rispetto a lui, ossia Dio; il sovrano dunque sa di non potere controllare il diritto naturale che non gli appartiene, che è proprio dell’umanità, e ad esso si sottopone. La diffusione del cristianesimo e l’ascesa della chiesa che a partire dai secoli “bui” del medioevo dominava l’intero ecumene aveva, per altro, condotto ad un processo di identificazione del volere di Dio con il dettato normativo della Chiesa stessa; il diritto naturale, il diritto proveniente da Dio era stato pian piano identificato con il diritto naturale divino che faceva parte del corpus iuris canonici, ossia del diritto della chiesa. La crisi dell’universalismo della chiesa causato dal protestantesimo ha dunque travolto a pieno il diritto naturale ed il suo fondamento, il concetto Dio non è più un simbolo unificatore in grado di rendere valido in tutto l’ecumene i principi del diritto naturale. 40 In nome di Dio il mondo si è diviso, e il Dio della Chiesa non è più il legislatore universalmente riconosciuto, e quindi il suo diritto non può più essere condiviso oltre i confini dello stato. Serve dunque trovare un nuovo fondamento autoritario comune a tutta l’umanità da cui far discendere e su cui fondare i principi del diritto naturale. Il giusnaturalismo moderno, anche detto seconda scolastica rintraccia nella ragione, quale qualità intrinseca a tutti gli esseri umani in quanto tali, il fondamento del diritto naturale. La ragione distingue l’essere umano dagli animali ed ogni essere umano al di la del luogo o del tempo in cui vive possiede la ragione; e quindi un principio di diritto che sia valido non perché emanato dall’imperatore dalla chiesa o perché proveniente da Dio, i cui poteri universalistici si sono dissolti, ma che sia valido perché logico e razionale, perché fondato sulla ragione, non può che essere accettato e condiviso da tutti gli esseri umani a prescindere dall’orientamento religioso, dal regno di appartenenza e persino dall’esistenza di Dio. Oltre la crisi dell’assolutismo della chiesa e di Dio, oltre la necessita di porre un limite al potere normativo del sovrano, un’altra questione fa nascere l’esigenza di rintracciare un fondamento nuovo e che prescinda da Dio, quale base legittimante del diritto naturale, ossia la scoperta dell’america. L’approdo nel nuovo mondo, comporta la comparsa di questioni di non poco conto, fra le quali quella relativa alla determinazione di diritti validi anche per i nativi d’america. Gli indigeni non sono selvaggi, piuttosto sono individui organizzati secondo un diverso modo di vivere , hanno monumenti, case, vestiti e sono persino dotati di una moneta. Ovviamente non sanno nulla del diritto degli europei, non riconoscono il diritto della chiesa o il diritto giustinianeo (legittimato da Dio, che però i nativos non conoscono) come loro diritto anche perché non lo conoscono per nulla, per di più non credono in Dio, non hanno mai conosciuto Cristo ne riconoscono nella Chiesa il corpo mistico di Cristo o nel Papa il Vicario di Cristo nel mondo; dunque non hanno alcuna autorità comune con gli europei dalla quale possa provenire un diritto valido per entrambi e sulla base del quale poter instaurare delle relazioni giuridicamente valide. La questione è molto complicata ma gli europei la complicano ancor più di quanto non lo sia già, si mette addirittura in dubbio la possibilità che gli indios abbiano un diritto e si cerca di individuare qualora vi fosse un fondamento di tale diritto. La questione della individuazione diritti dei nativos differenti rispetto al diritto degli europei, l’impossibilità da parte del legislatore europeo di disciplinare un mondo nuovo che non gli appartiene e su cui non ha giurisdizione, la necessita di intrattenere relazioni commerciali con gli indios conducono il giusnaturalismo a riflettere al fine di rintracciare una base legittimante di diritti validi per l’umanità intera al di la dei confini politici, fondamento che non può per ovvie ragioni essere identificato con Dio, ma che sia condiviso da tutti gli uomini in quanto tali. In definitiva l’urgenza di definire i contorni e i contenuti del diritto naturale nasceva quindi dalla contestuale comparsa di alcune questioni che abbiamo già trattato: -il venir meno di una concezione unitaria e coerente della comunità internazionale sotto la duplice suprema autorità dell’impero e della chiesa in concomitanza con la formazione degli stati europei; -la presenza di stati sovrani in conflitto tra loro per il dominio dei mari e la conquista delle terre extraeuropee a seguito delle scoperte transoceaniche; -i contrasti scaturiti dalla scissione religiosa conseguente la riforma protestante, con le cruente guerre di religione e con la necessità di porvi fine. Alcuni intellettuali del ‘600 si dedicarono infatti a definire la natura e la disciplina e i limiti del potere pubblico nei confronti dell’individuo. Comune a molti esponenti del giusnaturalismo è la teoria di un contratto sociale originario,stretto tra gli uomini per raggiungere una condizione di pace e di sicurezza affidandone la tutela ad un sovrano; un altro profilo comune alle costruzioni della scuola giusnaturalistica risiede nella convinzione che sia possibile,oltre che necessario,identificare un complesso di principi e regole di diritto naturale oggettivamente valido perché conforme alle regole della ragione e della natura umana, un insieme di regole concepito come valido in ogni tempo ed in qualsiasi luogo. 41 Dunque la dottrina giusnaturalistica opera in tre diverse direzione o meglio raggiunge tre differenti risultati: -1) delinea limiti e confini al potere dei sovrani dinanzi al diritto naturale, i cui principi razionali devono costituire una base per la costruzione di una sovrastruttura giuridica, in modo tale che in alcuni dati ambiti il diritto positivo recepisca il diritto naturale; -2) identifica il fondamento di questo diritto naturale che è la ragione umana, così che i principi di questo diritto passano essere validi per tutti gli individui; -3) al tempo stesso legittima il potere del sovrano che viene visto come il tutore del patto sociale necessario alla convivenza civile. A proposito della corrente culturale giusnaturalistica, anche se non può parlarsi di una scuola nel senso accademico del termine, si riesce a raggruppare insieme le dottrine degli intellettuali del ‘600 in virtù della comunanza dello scopo di questi autori che hanno l’ambizione di giustificare il diritto naturale, e al tempo stesso il diritto positivo definendone però i confini di competenza. Tuttavia i moderni autori della corrente giusnaturalistica si richiamarono direttamente o indirettamente alle elaborazioni di giuristi ed intellettuali antichi, medievali ma soprattutto della modernità giuridica fra i quali Jean Bodin, contestualmente si lasciarono molto influenzare dalle dottrine dei teologi della scuola di salamanca. La scuola di Salamanca. La storia del moderno pensiero giuridico deve molto ad un piccolo gruppo di professori dell’università spagnola di Salamanca, vissuti nel ‘400 e nella prima parte del ‘500. Salamanca divenne per un periodo sede universitaria d’avanguardia, privilegiata da studiosi innovatori sul terreno del diritto. Ciò che caratterizza la Scuola spagnola è la comune estrazione teologica, i membri della Scuola di Salamanca infatti sono tutti giuristi e teologi per la maggior parte Dominicani, dunque essi combattono contro il protestantesimo, potendosi definire un ordine religioso ortodosso. La Scuola di Salamanca, detta seconda scolastica, recupera il metodo della scolastica di T. D’Aquino, e muove spesso i passi dal commento a quella parte della grande Summa dello stesso Tommaso D’Aquino che trattava appunto del diritto. I maestri di Salamanca non solo affrontarono i temi della giustizia, della legge, del diritto naturale, del diritto divino, dei poteri del principe, ma spinsero oltre, sino a prendere in esame analiticamente anche molti specifici istituti dell’ordinamento normativo, quali ad esempio la proprietà, le successioni ereditarie, i singoli contratti e l’usura. Alcuni esponenti della Scuola Culta esprimevano negli stessi anni, atteggiamenti critici, rispetto alle normative giustinianee; ma gli scolastici spagnoli si proposero di disegnare confini precisi entro i quali le proposizioni del Corpus Iuris dovessero ritenersi valide perche conformi a principi e a valori di livello superiore rispetto al diritto positivo. Tuttavia la scuola filosofica di Salamanca, si è distinta soprattutto per la riflessione sul diritto naturale, a partire dall'incontro-scontro tra Spagnoli ed Indios, nel Nuovo Mondo Ed il maggiore esponente di questo indirizzo Francisco de Vitoria, domenicano, educato a Parigi nei primi anni del ‘500 e acclamato professore della Scuola di Salamanca già dal 1526, viene ricordato in particolar modo per la sua lezione sugli Indios, detta “Relectio de Indis” tenuta appunto presso l’attuale Università di Salamanca dinanzi ad un vasto uditorio di cui faceva parte anche l’imperatore Carlo V. Carlo V era l’allora imperatore di un territorio tanto vasto al punto che, come disse lui stesso, su di esso non tramontava mai il sole; infatti per una serie di fortuite coincidenze ereditarie si ritrovo a governare sulla Francia, la Spagna, la Germania,l’Italia ed il Regno delle due Sicilie, ricompattando cosi il vasto territorio dell’antico S.R.I. Francisco de Vitoria nella sua Relectio de Indis, basandosi sull'idea di diritto naturale come presentata da Tommaso d'Aquino, critica le presunte motivazioni degli spagnoli per la guerra di conquista. 42 de Vitoria contesta questo titolo dichiarandolo infondato e sottolinea la pericolosità dell’atto di avocare a se doni laddove non vi siano titoli giuridici a riprova di quanto si afferma. F. de Vitoria nella sua relectio de indis, dunque con gran coraggio, data la importante presenza dell’imperatore Carlo V, confuta tutti i titoli giuridici avanzati da quei giuristi al servizio del potere politico che avevano tentato di giustificare e legittimare sul piano giuridico le operazioni di conquista nei confronti dei nativos. Il tentativo di giustificare con la legge e sul piano giuridico azioni politiche e talvolta aberranti e violente diviene una pratica frequente in età moderna, resa possibile dalla circostanza per cui il diritto si allontana sempre più dal binomio diritto = società e si avvicina all’equazione diritto = legge. Infatti se in età medievale era improbabile che una norma aberrante e che non avesse precipui scopi di tipo giuridico, potesse avere valore vincolante e venisse considerata valida in quanto non condivisa, in età moderna la condivisione non ha alcun valore e quindi anche se una norma non è condivisa dalla società perché sia cogente basta che provenga dall’autorità che detiene il potere legislativo. Nel medioevo il diritto era il frutto della società ed ovviamente era espressione delle esigenze dei consociati, al contrario dall’età moderna in poi il diritto, è frutto del potere politico e agli interessi di questo viene piegato. Certamente il sovrano del 1500 detenendo il potere legislativo ed assieme quello politico e vista la possibilità di sfruttare al meglio la scoperta delle terre d’america, ebbe interesse a piegare il diritto più che mai ai suoi interessi politici, ed i giuristi asserviti al potere politico del sovrano infatti cercarono in tutti i modi di rintracciare forzatamente delle giustificazioni giuridiche ad atti ritenuti comunemente illeciti. Ovviamente soltanto i giuristi lontani e liberi dal potere politico come Francisco de Vitoria, con piena lucidità sono in grado di smascherare l’infondatezza sotto il profilo giuridico di azioni violente aberranti o prettamente politiche. Al contrario F. de Vitoria che è per l’appunto un esponente del clero mette bene in chiaro la realtà dei fatti e pubblicamente smentisce le pretese di legittimità giuridica delle conquiste e degli stermini a danno degli indios. Tuttavia dopo aver sottoposto ad analisi critica gli infondati titoli giuridici avanzati comunemente, fa un escursus ed un elenco di quali potrebbero effettivamente essere i titoli legittimi alla conquista delle terre d’america. - Il primo titolo legittimante lo individua nell’assunto secondo il quale l’uomo possiede un diritto e allo stesso tempo una qualità che gli appartiene in quanto essere umano ed essa è la naturale socievolezza e l’istinto alla comunicazione. E questa considerazione teorica, secondo F. de Vitoria, ha ovviamente una importante ricaduta pratica, ossia che gli individui sono indotti a viaggiare, aggregarsi commerciare e comunicare con altri individui in tutte le parti del mondo, al fine di soddisfare il loro bisogno di socievolezza. Volendo applicare questo corollario agli spagnoli, F. de Vitoria aggiunge che dunque essi sono liberi di spostarsi nelle terre degli indios e ivi abitarvi, potendo tra l’altro intrattenere rapporti con essi di tipo commerciale e non solo ,a patto che, sottolinea il giurista, non arrechino danno ne ai nativos ne alla propria patria. In tal modo F. de Vitoria vuole sottolineare che egli non contesta ne nega la possibilità agli spagnoli di recarsi nelle terre d’america ma ci tiene ad evidenziare che l’esercizio della loro libertà di migrare per il soddisfacimento del loro bisogno di socievolezza non deve arrecare danno ad altri. Del resto il de Vitoria, afferma e definisce civile l’accoglienza pacifica da parte degli indigeni nei confronti degli ospiti spagnoli, è altrettanto necessario e doveroso che gli ospitanti rispettino gli ospiti. Le prerogative che de Vitoria accorda agli spagnoli risiedono nel diritto naturale e trovano in esso legittimazione giuridica, per tal motivo valgono in via bilaterale e quindi è legittimo da parte degli indios qualora lo volessero spostarsi nelle terre d’Europa e da questi ricevere ospitazione pacifica. 45 A sostegno di questo assunto di diritto naturale, F. de Vitoria, da buon cristiano fa riferimento alla situazione originale del mondo quando tutto era in comune e quando era possibile per ciascun individuo spostarsi liberamente ovunque volesse, e sottolinea che la divisione artificiale dei territori voluta dagli uomini per organizzarsi secondo regole di diritto positivo di certo non aveva lo scopo e non poteva del resto fa estinguere il diritto allo spostamento che la natura aveva reso legittimo al fine di soddisfare un bisogno naturale. Una linea di confine ovviamente non può pregiudicare ai popoli la possibilità e la facoltà di comunicare tra loro o di spostarsi da una parte all’altra, piuttosto i confini attendono ad altri scopi eminentemente di natura politica. In queste considerazioni possono certamente ravvisarsi i postulati del venturo Giusnaturalismo, in essi si accenna all’esistenza di un ideale mondo originario non databile e teorico. Una fase del mondo in cui tutto è comune e gli individui sono totalmente liberi, e questa è identificata da Hobbes come lo Stato di natura, segue ad essa una seconda fase, lo Stato civile, in cui interviene l’uomo con il diritto positivo volto alla produzione di norme e parametri giuridici su cui fondare un’artificiale e convenzionale ma non naturale distribuzione delle risorse (per altro non equa) delle cose e dei territori. Queste due fasi che Francisco de Vitoria presuppone in maniera quasi casuale, saranno argomento di dibattito e spunto di riflessione per i filosofi del Giusnaturalismo. - Un secondo diritto addotto da de Vitoria, e che secondo il giurista di Salamanca può legittimamente avvalorare le pretese di giuridicità di fronte alle operazioni di conquista degli spagnoli,è il diritto alla difesa. F. de Vitoria ritiene lecito respingere la forza con la forza e dunque definisce legittime le azioni violente dei conquistadores qualora queste fossero state indotte dai nativos che con la forza avessero tentato di limitare il soddisfacimento del diritto naturale alla comunicazione e allo spostamento degli spagnoli, i quali per altro sottolinea il giurista possono ricorrere alle armi solo dopo aver intentato di esercitare il loro diritto con tutti i mezzi pacifici possibili e per il tramite di ogni forma ragionevole di persuasione. Un altro titolo legittimante le azioni di conquista degli spagnoli, per altro strettamente connesso al diritto di difesa e di conseguenza a quello della comunicazione e della libertà allo spostamento, è il diritto di attacco. F. de Vitoria afferma che laddove gli indios hanno tenuto un comportamento da nemici avendo limitato il diritto allo spostamento ed alla comunicazione agli spagnoli, quest’ultimi non solo hanno il diritto a difendersi imbracciando le armi per rispondere con violenza alla violenza, ma hanno anche il diritto di trattarli da nemici di guerra e applicare nei loro confronti il diritto di guerra che per altro prevede la possibilità per il governante vincitore di deporre i governanti vinti ed imporre un proprio governante assoggettando alle proprie regole gli indigeni. Queste considerazioni relative al diritto di attacco e di difesa faranno poi parte delle argomentazioni che lo stesso de Vitoria tratterà poco dopo nelle sue lezioni volte alla giustificazione della guerra legittima tra stati, in un periodo in cui le grandi potenze sono frequentemente in guerra. - Il secondo titolo legittimante a cui F. de Vitoria fa riferimento è il diritto che i cristiani, e tutti gli uomini in generale, hanno di professare e predicare ad altri individui la propria fede o qualsiasi altra verità da essi detenuta. Certamente è fuor di dubbio il fatto che F. de Vitoria non pensi assolutamente di giustificare la conversione forzata alla fede cristiana, piuttosto il giurista filosofo intende rendere legittimo l’utilizzo delle armi fatto dagli spagnoli, laddove a questi sia stato vietato o limitato, anche con la forza, l’esercizio del diritto di predicare ad altri la propria fede nelle terre d’america. Ovviamente secondo il de Vitoria gli indios sono liberi di non convertirsi ma non possono assolutamente impedire ai cristiani di propagandare la fede nel Cristo, anche se il giurista nella sua lectio ammette che forse gli spagnoli avevano esagerato nell’utilizzo della forza e delle armi, andando ben oltre quanto il diritto morale permetteva. 46 - Dal secondo titolo legittimante secondo de Vitoria discende poi una terza argomentazione che giustifica l’utilizzo della forza da parte degli spagnoli contro gli indios laddove questi abbiano cercato di minacciare i loro compatrioti convertitisi al cristianesimo. Secondo il dominicano, era dovere del buon cristiano difendere in tutti i modi i nativos convertiti alla fede nel Cristo Signore, imbracciando le armi contro i nativos pagani se lo si fosse ritenuto necessario. Aggiunse, per altro che laddove una comunità di nativos si fosse convertita anche se sotto il timore delle armi o con l’inganno, e qualora avessero successivamente dimostrato vera fede, era lecito l’intervento del Papa per la deposizione del governante pagano in favore di uno cristiano. - Infine conclude de Vitoria l’enunciazione dei titoli da lui ritenuti fondati, enucleandone uno che egli stesso ritiene incerto in quanto a reale legittimità. Il giurista spagnolo, postulando il fatto che i nativos sebbene non propriamente idioti, sono ritenuti comunque degli incapaci al punto tale che sono privi di qualsiasi struttura organizzativa anche dal punto di vista familiare, assume legittima la possibilità che almeno temporaneamente il governo dei nativos sia affidato a capi spagnoli affinché essi compiano un atto caritatevole imponendo le loro norme ed insegnando loro la civiltà ed i modi organizzativi del vecchio mondo. Certamente de Vitoria sa che questa argomentazione giuridica è molto pericolosa oltre che ben poco fondata, ma deve in qualche modo legittimarla e lo fa ponendo però un limite alla c. d civilizzazione, ossia che essa sia effettuata al solo scopo di fare del bene agli indios e non per soddisfare nessuno degli interessi degli spagnoli. - Conclude la sua trattazione de Vitoria dicendo che se nemmeno uno dei titoli legittimanti da lui enunciati fosse il reale fondamento su cui gli spagnoli avessero basato le loro conquiste, allora in tal caso i conquistadores avrebbero dovuto interrompere gli scambi ed i viaggi dalla terre d’america, provocando gravi danni al commercio transoceanico. Poi con un ritorno alla lucidità rassicura che mai potrà verificarsi alcun pericolo per il commercio europeo dato che questo non è legato alle operazioni di conquista e posto che ormai gran parte degli indios erano stati convertiti. La tesi della libertà degli Indiani trovava negli stessi anni un difensore di straordinario livello in Bartolomé de Las Casas, anch’egli monaco domenicano, che per tutta la vita si batte con gli scritti e con l’azione allo scopo di sostenere il diritto degli Indios alla libertà argomentando teologicamente e giuridicamente, come del resto aveva fatto de Vitoria, l’illegittimità della loro riduzione in schiavitù da parte dei conquistatori e tentando anche con l’assenso di Carlo V di fondare città abitate da liberi Indiani. Domenicano fu anche Domenico Soto, che sostenne la derivazione del diritto positivo dal diritto naturale in due distinte forme: in via deduttiva logicamente coerente con le premesse e perciò non mutabile, oppure attraverso una specificazione che tenesse conto delle circostanze concrete. Questa tesi fu per altro sostenuta anche da un altro maestro tra i maggiori di Salamanca, il gesuita Luis de Molina Jean Bodin. Un’ altro importante filosofo, considerato fondamentale per la modernità, è Jean Bodin (1530- 1596)- (vedi pag. 141 vol. II) giurista e teorico della politica e della sovranità che vive a Tolosa in Francia. Tra le sue opera la più importante è Les Six Livres de la République, ossia i sei libri della repubblica, edita in Francese nel 1576 e successivamente riedita in latino al fine di permetterne la fruizione ad un più vasto pubblico. Definito il maggiore teorico del principio della sovranità in senso moderno, è stato considerato (soprattutto da Carl Smith) uno dei padri fondatori della moderna dottrina dello stato. A proposito della sovranità la definisce come quella prerogativa che sta unicamente in capo al sovrano e che è un potere, il più assoluto possibile che non riconosce alcun superiore. 47 - i patti devono essere rispettati - non rubare e restituire il maltolto; - riparare i danni causati per propria colpa. Questi tre principi, fra i quali il primo è propedeutico agli altri due, secondo Grozio stanno alla base del diritto naturale razionale e garantiscono l’osservanza di tale diritto in ogni ordinamento al di la del regime giuridico applicato. Il diritto naturale che va formandosi in età moderna anticipa l’attuale diritto internazionale, che oggi come in età moderna, non può ovviamente fondarsi su regole di diritto positivo le quali certamente non possono che avere un ambito di applicazione circoscritto al territorio sottoposto alla giurisdizione del sovrano legislatore. Al contrario il diritto internazionale deve fondarsi su norme valide a prescindere dall’attività normativa o dall’intervento del legislatore, o ancora dal timore di Dio, esse devono essere valide perché condivise e saranno condivise solo se razionali. Il pensiero di Grozio esercitò il suo principale influsso soprattutto nella dottrina del diritto internazionale pubblico, Grozio in effetti si era proposto di individuare una legge comune tra le nazioni tale da porre un argine a quelle violenze senza freni. Tuttavia la razionalità, almeno in età moderna, è ancora considerata la base legittimante del solo diritto interstatale, del diritto cioè naturale, di contro il fondamento del diritto positivo interno continua ad essere la forza autoritaria del sovrano legislatore. La moderna storiografia ha mostrato come una gran parte delle proposizioni di Grozio derivano dal pensiero della scolastica spagnola, in particolare da De Vitoria e soprattutto da Francisco Suarez. Potrebbe allora sembrare fuorviante il ritenere Grozio fondatore del moderno giusrazionalismo e del moderno diritto internazionale. Tuttavia l’impianto complessivo delle sue opere è originale e su molti punti le formulazioni del pensatore olandese introducono elementi nuovi e nuove soluzioni. HOBBES. Hobbes è uno dei pilastri del giusnaturalismo, vicino dal punto di vista temporale a Grozio ma assai lontano nell’impostazione teorica è un pensatore centrale nella storia del pensiero politico-giuridico. Egli elabora una teoria dello stato che definisce paragonabile ad un’ orologio in cui ogni pezzo preso singolarmente non ha alcuna funzione ma se messi tutti insieme fanno perfettamente funzionare l’orologio stesso. Noi ce ne occupiamo perché Hobbes fonda alcuni presupposti e ha una tale fama, una tale diffusione che in fondo gli esiti, o perlomeno, alcuni degli esiti giuridici di questo fermento che c’è in Europa in pieno Seicento li dobbiamo proprio alla diffusione del pensiero di Hobbes. Egli vive tra Cinque e Seicento, negli anni in cui ha luogo lo scontro tra il parlamento inglese e la corona d’Inghilterra ed il famoso processo (di abbiamo parlato a pag. 40). Hobbes muore nel 1679, quindi il Seicento è suo secolo, il secolo del giusnaturalismo e della ragione. A lui dobbiamo l’introduzione, specialmente nella sua opera principale, il Leviatano, di nuove metodologie scientifiche che interessano proprio il ragionamento giuridico. Secondo Hobbes la politica è una disciplina creata dall’uomo, quindi, poiché è creata dall’uomo, deve poter essere sottoposta ad un’analisi di tipo logico-sperimentale che ne dimostri il rigore. Ricordiamoci che siamo nel tempo dell’empirismo: l’empirismo scientifico ha una ricaduta diretta sull’impostazione del ragionamento giuridico. Il metodo sperimentale che in questo periodo è alla base della scienza, viene applicato a tutti gli aspetti dell’esistenza umana compreso il diritto, esso consiste nel verificare se in uguali condizioni l’esperimento che si fa produce il medesimo risultato. Questo è un presupposto fondamentale della logica giuridica moderna, perché sposta il piano del diritto dal campo del sensibile a quello dello scientifico. Il diritto, in altri termini, da una parte, viene considerato un prodotto dell’esperienza umana, ma, dall’altra, viene asservito alle regole che non sono proprie dell’esperienza umana. Le regole della fisica, della chimica, della matematica, dell’astronomia non sono regole proprie dell’esperienza umana; ma al fine di ottenere un diritto certo e razionale l’unica strada che i filosofi giusnaturalisti individuano è proprio quella di creare un 50 diritto razionale, secondo le regole della scienza che è il campo del razionale per eccellenza. Questo è un presupposto fondamentale che informerà di sé non solo il diritto del Sei e Settecento ma tutto il diritto fino ai nostri giorni. Noi siamo, cioè, ancora abituati a pensare il diritto come una soluzione razionale a un problema, una soluzione che non può che essere una e una sola, ma non perché prodotta da un’esigenza sociale e politica, ma perché razionale. La logica giuridica è una logica che pretende di essere scientifica, che pretende di essere razionale: il fondamento di questo presupposto è qui, è nel giusnaturalismo; non è insito nel diritto, è frutto di un periodo, e il periodo è proprio questo. Nel momento in cui scienza e filosofia si intrecciano attraverso la metodologia scientifica il diritto comincia a pretendere di essere scientifico. Sappiamo adesso che prima di questo momento il diritto non pretende di essere scientifico, il diritto pretende di essere equo. E l’equitas è il frutto di un insieme di fattori, di un insieme, come sappiamo, assai complesso e variabile di fattori, un insieme però in cui la razionalità non ha alcun posto, la logica matematica non trova spazio perché l’elemento legittimante, comunque, in ultima analisi, è l’intervento di Dio. Nel momento in cui questa sacralità del diritto viene meno, per i motivi che sappiamo, la scienza giuridica con l’ausilio fondante della filosofia si rivolge ad un altro sistema di legittimazione, che è quello della razionalità, che poi è il nostro sistema di legittimazione. Noi consideriamo una qualunque cosa accettabile, cioè legittimata perché razionale. Questo presupposto è un presupposto che potremmo definire della modernità; dove ovviamente né il termine razionale né il termine modernità hanno un’accezione positiva rispetto al passato, hanno un’accezione connotativa. Connotativa significa che noi non attribuiamo, in questa sede, al termine modernità un valore positivo rispetto a quello che non è moderno e che consideriamo negativo, non attribuiamo all’aggettivo razionale il valore positivo che avrebbe nei confronti dell’aggettivo irrazionale; perchè razionale qui non è contrapposto a irrazionale, ma è contrapposto ad equo, cioè ad un diverso sistema di legittimazione delle norme. Questo è un punto fondamentale che spiega, veramente, più di quanto noi non crediamo. Quello che interessa è che si comprenda come oggi noi pensiamo il diritto, anche inconsapevolmente, è un modo che ha le sue radici in un momento preciso della storia del pensiero filosofico-giurdico dell’Occidente e questo momento comincia a fare passi in modo evidente proprio quando prende piede il movimento del giusnaturalismo. Quindi, Hobbes dice che la politica è un prodotto della società, non esiste di per sé, la società produce la politica e per verificare se questa politica prodotta è utile alla società bisogna sottoporla al metodo di analisi scientifico per verificarne la razionalità. Come vedete il paradigma si sta spostando. Il modo di comprendere e osservare il reale si sta spostando, presupponendo che le azioni umane debbano essere sottoponibili, comunque, alla verifica scientifica della razionalità, cioè, a parità di condizioni, il risultato deve essere sempre lo stesso. Questo è un atteggiamento nei confronti degli accadimenti umani, l’atteggiamento vichiano, se si vuole, dei corsi e ricorsi, che è un atteggiamento che non spiega nulla ma che è assolutamente diffuso. In realtà noi sappiamo che le vicende storiche non sono sottoponibili al metodo empirico, se non fosse altro perché è impossibile creare in laboratorio le medesime condizioni di partenza. Non c’è mai una situazione sociale che è identica ad un’altra, noi la possiamo vedere simile, ma in realtà non può essere identica perché formata da individui che non sono mai gli stessi. Il punto di partenza di Hobbes è l’individuo e il suo aggregarsi in forme sociali. Egli teorizza che le aggregazioni sociali di individui seguano schemi geometrici, quindi esatti. Come fa a teorizzare questo? Se l’organizzazione dell’uomo in società è un prodotto artificiale perché avviene attraverso il contratto, il patto sociale, allora bisognerà studiare le regole attraverso le quali questa aggregazione, questo patto può avvenire. Si tratta di regole precostituite, non sono spontanee. Il contratto segue delle regole, poiché all’origine di qualsiasi aggregato umano in società si trova un contratto, bisogna vedere quali regole ha seguito quel contratto. Hobbes è un autore che ha una fama straordinaria, fu molto letto; ebbe però anche una cattiva fama, è un autore maledetto, perché viene considerato a ragione, devo dire, anche se probabilmente non volontariamente, il teorico dell’assolutismo; tanto che anche i regimi totalitari del Novecento 51 invocano Hobbes, il nazismo su tutti. Il nazismo fa un’operazione di ripresa della filosofia di Hobbes come uno dei fondamenti filosofici e giustificativi dell’affermazione del potere assoluto del dittatore, del Furer. In realtà ciò contribuisce nel primo Novecento a gettare una cappa di ombra sul pensiero di Hobbes. Oggi siamo, fortunatamente, abbastanza lontani da quegli avvenimenti per poterci occupare di Hobbes senza che esporre il suo pensiero ci evochi situazioni e circostanze che ovviamente col suo pensiero non hanno nulla a che vedere. Il punto di partenza, come si diceva, è l’uomo e il suo aggregarsi in società. Qual è la pulsione prima dell’agire politico dell’individuo, cioè, qual è la molla che fa scattare i comportamenti aggregativi? Hobbes parte da una constatazione banale, potremmo dire. L’uomo desidera per sé ciò che è buono e rifugge ciò che è cattivo. Questo, ovviamente, comporta un estremo grado di soggettività. Io posso ritenere buona una determinata cosa e cattiva un'altra, ma ovviamente non è un parametro oggettivo. I concetti di buono e cattivo sono concetti variabili che cambiano continuamente perché derivano dall’esperienza: io posso sperimentare che una determinata cosa è buona e quindi volerla ma questo desiderio può cambiare nel tempo perché io posso cominciare a considerare questa cosa meno buona o addirittura cattiva in base all’esperienza. Quindi, l’obbiettivo dell’uomo, ciò che l’uomo persegue, non è la felicità somma, suprema, ma è in realtà il continuo passaggio da un desiderio ad un altro. L’obiettivo ovviamente è il bene, ma è un obiettivo astratto; questo bene che si persegue, questo bene per sé, in realtà si serve di una strada tortuosa che è quella del passaggio da un bene contingente ad un altro. Tutto questo lo possiamo ben trasporre anche banalmente nella vita di ognuno di noi; non c’è un unico obiettivo, c’è un obiettivo o più obiettivi, che variano a seconda delle esigenze, e che, spesso, una volta raggiunti, si rivelano meno buoni di quanto si pensasse per cui si va verso un altro obiettivo. Secondo Hobbes l’agire naturale, istintuale dell’uomo è proprio questo: non è il perseguimento del sommo bene, della somma felicità, ma è il passaggio da un desiderio ad un altro; quindi, da un bisogno da soddisfare ad un altro bisogno ugualmente da soddisfare. Quali sono i mezzi che l’individuo utilizza per raggiungere il proprio scopo, quindi per soddisfare il suo desiderio o il bene immediato? Secondo Hobbes l’uomo utilizza il proprio potere naturale, ma anche il proprio potere strumentale. Il potere naturale di ciascun individuo risiede in caratteristiche della persona: la forza, la bellezza, l’eloquenza, la capacità di fare un discorso, di convincere. Questo è il potere naturale, la natura dota cioè l’individuo di alcune caratteristiche che lo fanno speciale rispetto agli altri se le può utilizzare a proprio vantaggio; deve quindi imparare a utilizzare queste caratteristiche come un potere personale naturale da impiegare al fine del soddisfacimento dei bisogni. Il potere strumentale è quell’insieme di elementi che l’uomo non ha per natura ma costruisce: la ricchezza, il potere, le amicizie. Tutto questo viene utilizzato insieme al potere naturale, in concorrenza o in sostituzione, per ottenere il proprio scopo. Il volere raggiungere l’obiettivo, cioè il proprio bene immediato, la passione, come Hobbes definisce questo bisogno di raggiungere l’obiettivo immediato, ha una forza straordinaria, non è una cosa che si può mettere da parte. E questa passione ha una forza tale che, vi leggo proprio il brano dal Leviatano, “Se l’affermazione i due angoli di un triangolo sono uguali a due angoli retti fosse contraria al diritto di dominio di qualcuno o all’interesse delle persone che detengono il dominio, quella dottrina sarebbe stata se non messa in discussione, addirittura eliminata col rogo di tutti i libri di geometria per quanto ne fosse capace colui al quale la cosa interessava”. Se, quindi, la constatazione di una verità matematica, oggettiva, incontrovertibile fosse per ipotesi contraria ad un bisogno, quella teoria, pur essendo vera, oggettiva, incontrovertibile, non solo, sarebbe stata messa in discussione, ma addirittura sarebbero stati bruciati tutti i libri di geometria, soltanto se chi doveva soddisfare il bisogno contrastato dalla legge matematica ne avesse avuto la forza e la potenza. Questo paradosso può essere, ovviamente, trasposto e pensato nelle società politiche. Gli esempi di roghi e di epurazioni culturali sono innumerevoli. Perché si fa un’epurazione culturale, perché si 52 noi decidiamo di fare tra di noi un patto perché per es. voi siete la società in guerra e dovete stare li solo per arrivare al vostro obiettivo e arrivati ad un certo punto decidete di fare un patto tra di voi con cui stabilite che io sono il leviatano semplicemente perché vi faccio simpatia ovviamente questo non è un presupposto dimostrabile. Non è dimostrabile il fatto che voi dite ci pensi lei perché ci sembra una brava persona, ma ci vuole ben altro per supportare una costruzione. E questo ben altro lo fornisce il diritto, che è l’unica chiave che all’interno dei rapporti sociali possa inserire un elemento di razionalità e di oggettività che somiglia alle leggi della geometria more geometrico. Se l’organizzazione sociale deriva da un contratto, essa è sottoposta alle regole del contratto, del patto. Il patto è stipulato tra i componenti della società (io cedo il mio potere al terzo a patto che anche tu lo faccia) il patto è fra individui. Il patto è quindi irrevocabile per coloro che lo hanno stipulato. Ma il sovrano che non fa parte del patto, egli sta fuori dal patto, quindi non è vincolato agli ordini del patto, non è in alcun modo vincolato da questo patto sociale. Da questa stessa considerazione discende che il sovrano è assoluto in quanto egli non è sottoposto a nessun vincolo. Solo ciò che il sovrano stabilisce ha valore di legge, alla quale nessuno può ribellarsi, neppure se il suo contenuto sia ingiusto intermini di ragione, la legittimazione del potere cogente delle leggi del sovrano non risiede dunque nella razionalità delle stesse semmai nell’autorizzazione che gli individui hanno dato al sovrano di disporre dei loro diritti. Il margine di autonomia dell’individuo è limitato a quei rapporti entro i quali comunque l’autorità non potrebbe penetrare. Altro punto fondamentale è che, siccome il sovrano agisce non per conto o in rappresentanza, ma come se fosse uno dei consociati e tutti i consociati insieme, l’azione del sovrano è giusta per definizione. Ma questo come si dimostra? Nessuno pensa, neanche di se stesso, di commettere solo azioni giuste. Si può sbagliare, ma l’impulso all’azione ha sempre una motivazione che l’individuo ritiene giusta, giusta per sé, per il soddisfacimento del bisogno. Anche l’omicidio ha una motivazione che chi commette quell’omicidio ritiene giusta, non giusta in senso etico e assoluto, giusta! Se no non lo farebbe. Qualunque cosa l’individuo compie la ritiene giusta in quanto rispondente al diritto naturale di soddisfare i bisogni. Se questo diritto è stato ceduto ad un soggetto terzo, ciò non vuol dire che il diritto non ci sia più, il diritto c’è ancora, solo che è nelle mani di un soggetto terzo, che non partecipa al patto, ma che compie tutto in funzione di quel diritto e, quindi, tutto ciò che fa il sovrano è per definizione giusto, non può essere messo in discussione; non ci sono spazi di dissenso nell’azione del sovrano e non ci sono non perché il suo è un potere ingiusto e irreprensibile, ma non ci sono razionalmente. Ci rendiamo conto di come la costruzione stia crescendo e che se utilizzata strumentalmente può essere piegata a legittimare le aberrazioni più totali come è stato fatto. E l’importanza della storia è proprio quella di vedere cosa delle cose se ne è fatto: perché se noi studiamo Hobbes in filosofia probabilmente resta così e sarà uno degli argomenti ulteriori della nostra cultura o della nostra noia. Se invece noi pensiamo che questa costruzione logico, filosofico, giuridica ha avuto una vita altra rispetto a quella per la quale era stata pensata, questo lo possiamo sapere solo se la osserviamo con gli occhi dello storico e non del politologo o del filosofo, allora tutto questo assume uno spessore, una concretezza, un pragmatismo che sono quelli che in questa sede non dobbiamo mai perdere di vista. Il potere del sovrano è un potere assoluto e sappiamo cosa vuol dire assoluto: solutus, sciolto, svincolato. Un potere assoluto è un potere che non ha vincoli. Questo potere, così costituito, ovviamente, non ha vincoli, perché il sovrano non sta nel patto; si può essere vincolati soltanto da un accordo che impone delle regole e quindi dei limiti, ma chi sta fuori dall’accordo non ha limiti perché non ha regole e non ha vincoli. Quindi è un potere assoluto; è un potere indivisibile: non esiste un altro soggetto ad eccezione del sovrano che sia fuori dal patto. Direte voi, ma parlava anche di assemblea di uomini. Certo non esiste altro soggetto al di fuori dell’assemblea che sia fuori dal patto. Il potere dell’assemblea, nel caso in cui il patto abbia previsto di consegnare tutti i diritti ad un’assemblea, è indivisibile. Questo è importantissimo, perché, mentre Hobbes, seppur di assemblee ne capisce e sa cosa vuol dire potere assembleare, ma il presupposto dell’assemblea in alternativa al sovrano, cioè un unico individuo è un presupposto che entrerà a far parte della grande 55 costruzione politica dell’Illuminismo. Assemblea come depositaria della volontà generale. Anche noi abbiamo in teoria il concetto di democrazia rappresentativa, oggi non lo abbiamo più ma è stata una svista del legislatore che si è dimenticato questo piccolo particolare. Quindi, un potere assoluto, un potere indivisibile, un potere irrevocabile. Non c’è differenza fra monarchia e tirannia. Tutta la grande riflessione sul tiranno, che avevamo conosciuto soprattutto in Bartolo ma non solo, in quanto la riflessione sul tiranno è la riflessione costitutiva che tutto il Medioevo fa sul governo politico. Il sovrano diventa tiranno quando viola i principi del diritto, non della legge. Tommaso d’Aquino teorizza un diritto di resistenza al sovrano che diventa tiranno. Bracton aveva teorizzato i due corpi del re, per cui il sovrano che diventa tiranno deve essere eliminato, perché è la persona fisica del re che ha sbagliato, fermo restando che la persona mistica, il corpo mistico non può sbagliare, quindi viene temporaneamente sostituito con un altro individuo. Il re medievale è limitato dall’ordine giuridico e questo limite, che lui ha, è per l’appunto la discriminante tra re e tiranno. Nella ideologia costruita da Hobbes questi limiti non ci sono più; il sovrano è tale in quanto detentore di un potere non contraddicibile, non limitato, non cedibile, non revocabile mai; è un presupposto della sua stessa esistenza: l’esercizio del potere senza limiti. Perché l’individuo si affida ad una forma così aberrante di potere? Perché in questa forma di potere aberrante si vede la sicurezza. La libertà, cioè, è scambiata con la sicurezza: in cambio della libertà che non mi garantisce sicurezza io ottengo la sicurezza, ovviamente, perdendo la libertà. Quindi la dicotomia non è più tra potere e limiti, ma tra libertà e sicurezza. Le due cose insieme non stanno. O sono libero, ma in questo caso sto in uno stato di guerra permanente, quindi non sono mai sicuro, perché ciascun individuo ha una quantità variabile di potere naturale e artificiale. Finché io sono più potente la mia libertà mi assicura la mia sicurezza, ma nel momento in cui c’è un individuo più forte fisicamente, più potente di me, io non sono più sicuro. Il patto garantisce la sicurezza a tutti i consociati, ma li priva della loro libertà. Ora, il passaggio allo stato civile (dove per stato civile intendiamo lo stato artificiale, non l’accezione nostra di stato civile), presupponendo la rinuncia alla libertà, configura una nuova idea di libertà, trasforma il concetto di libertà. Se nello stato di natura la libertà coincide con il soddisfacimento dei propri bisogni senza limiti, nello stato artificiale, nello stato civile, nello stato sociale, la libertà è circoscritta agli ambiti in cui il sovrano non interviene. Il sovrano può intervenire dove vuole, come vuole e nelle modalità che preferisce; tutti gli ambiti in cui interviene il sovrano sono ambiti in cui non c’è la libertà perché c’è il comando; ma in ambiti in cui il sovrano non interviene, quegli ambiti che sono lasciati da parte da un intervento ex professo del sovrano- legislatore, quelli sono ambiti di libertà. La libertà, dunque, dipende, è vincolata, è la conseguenza del silenzio della legge. La legge è comando vincolante, laddove la legge non interviene quello è uno spazio libero; uno spazio, cioè, in cui ciascuno è libero di esercitare il proprio diritto naturale del soddisfacimento del bisogno. Se questo è vero, se è vera questa costruzione la libertà non è un concetto astratto, è un concetto che deve essere storicizzato, è un concetto, cioè, la cui sostanza varia a seconda delle circostanze, varia nel tempo e varia da un ordinamento ad un altro. Ci sono circostanze, momenti, tempi, ordinamenti in cui alcuni ambiti non sono oggetto di comando da parte del potere politico, sono lasciati alla libera gestione degli individui; ma quegli stessi ambiti in altri ordinamenti o in altre epoche possono diventare oggetto specifico di attenzione da parte del legislatore, quindi la libertà in quegli ambiti viene meno. La libertà, dunque, non è un concetto filosofico, non è un ideale, non è un qualcosa di oggettivamente esistente, di naturalmente esistente, a cui naturalmente si tende, ma è lo spazio che risulta dal silenzio della legge; quindi è un concetto storico, flessibile, mai uguale a se stesso sia nel tempo che nello spazio, cioè nella differenza di ordinamenti che agiscono sincronicamente. Tutto questo, se lo caliamo in qualunque contesto, è assolutamente verificabile. Consideriamo che la verifica a posteriori è facile. In alcuni regimi dalla Cina all’Iraq, ad es., non c’è libertà di espressione, noi l’abbiamo; potremmo dire sì ma la libertà di espressione è un diritto negato in quei paesi, ma è in diritto al quale tutti quanti devono aspirare perché è una sorta di diritto razionale, umano, non negoziabile; constatandolo freddamente con l’occhio di un giusnaturalista è 56 semplicemente uno spazio che in alcuni ordinamenti è privo di una sezione specifica del legislatore, in altri ordinamenti è sottoposto a minuzioso comando. Quindi la libertà è frutto del silenzio della legge, ma c’è un’altra componente, un altro ambito che interessa l’idea di libertà, ed è il patto. La libertà riguarda tutto ciò che non può essere ceduto con il patto. E qua stiamo arrivando ai limiti del potere, ci sono tutta una serie di componenti che non entrano nel patto; il contratto, il patto riguarda solo diritti disponibili, di cui l’uomo può disporre e che dunque può cedere al Leviatano affinché questo li tuteli. Tra i diritti indisponibili rientra il diritto alla vita a difendere il proprio corpo, la difesa fisica di se stessi, non entra nel patto, non è un elemento che viene ceduto. Dice Hobbes anche vivere bene, cercare di vivere il meglio possibile, questo non entra nel patto, quindi non può essere oggetto dell’intervento del sovrano, quindi è uno spazio libero, è uno spazio indisponibile per il legislatore, ma non perché ci sia un limite morale, etico, trascendente, ma semplicemente perché giuridicamente non è oggetto della trattativa, e siccome il sovrano è stato scelto attraverso un patto che segue delle regole giuridiche, potrà muoversi in quel contesto, ma se del patto non fanno parte alcuni elementi, su tali elementi il sovrano non ha alcun potere di intervento. Questo cosa significa? Che se il sovrano pretende di intervenire su quegli ambiti, a quel punto e solo in questa circostanza, i consociati possono disubbidire al comando, quel comando è privo del fondamento giuridico che legittima il potere assoluto del re. Se il sovrano comanda ai sudditi di uccidersi con le proprie mani, il suddito può non ubbidire. Il sovrano può uccidere il suddito, ma non può ordinargli di uccidersi da solo; non può ordinargli di amputarsi il braccio da solo, ma può sottoporlo alla pena dell’amputazione del braccio. Questa finestra sulla libertà derivante dalla indisponibilità di aree che riguardano l’individuo è una finestra destinata ad accrescersi, attraverso la quale entreranno in questa costruzione così serrata tutta una serie di diritti dichiarati indisponibili, non negoziabili. Tra questi per esempio l’obbligo a spostarsi: non c’è fra i diritti del patto la possibilità di comandare a qualcuno di spostarsi dal luogo in cui vive, in cui ha la propria casa, la propria famiglia; questo comando dovrà essere imposto come pena per un reato (es. una facoltà non può comandare ad uno studente di iscriversi in un’altra facoltà ma può semmai espellerlo). RIEPILOGO: Hobbes dunque introduce diversi concetti fondamentali in merito allo stato, alla sua esistenza ed alla sua legittimazione: 1. Laicizzazione dello stato: Hobbes sostituisce all’origine sacra del potere quella razionale derivante dal patto. Lo stato leviatano è prodotto esclusivo di un patto tra soggetti. L’origine del potere è un origine laica, non più sacra: questo è fondamentale!!! 2. Principio di legalità: poiché tutto ciò che non è oggetto di intervento del sovrano è libero, se ne può dedurre che è reato soltanto ciò che viene fatto contro un comando del sovrano. Ovviamente, questo presuppone che il reato venga commesso e sia considerato tale, solo dopo che il comando venga effettivamente pronunciato. Il comando deve essere non solo pronunciato ma deve essere anche pubblicizzato, perché, diversamente, si condanna un innocente, cioè un soggetto che credeva di agire diversamente ma che invece stava violando un comando che nel frattempo era sopravvenuto. La libertà è flessibile, è ciò che non è legiferato. Ciò significa che si introduce il concetto di reato legato esclusivamente ad una previsione esplicita della legge. Tutto quell’ambito del reato contro Dio viene automaticamente depotenziato. Anche l’omicidio è reato soltanto se e dal momento in cui il legislatore dice che è vietato dalla legge uccidere un proprio simile, fino a quel momento non è reato. Tornando ai nostri giorni e alla legge 194 questo risulta molto chiaro: se fossimo in uno stato non laico come spesso tendiamo a far finta di essere questo sarebbe un reato peccato: l’interruzione della gravidanza. Lo Stato laico ha legiferato su questa materia e nel momento in cui ha legiferato non è più un reato, all’ interno di uno spazio non libero, ma disciplinato dalla legge. Questo vuol dire che la libertà è a geometria variabile e che i diritti sono un 57 tutto sia giuridico, cioè che non ci sia un comportamento punibile con gli strumenti del diritto che non sia stato anche disciplinato con gli strumenti del diritto. Questo è un dato nuovo, una significativa svolta verso l’idea che qualunque comportamento che si svolga secondo le regole mutuate dal diritto debba essere giuridico. C’è una scissione sempre più evidente tra etica e diritto. Non c’è un’equiparazione, non è tautologico che tutto ciò che è etico deve essere giuridico, e viceversa. I campi, in nome della laicizzazione dell’ordinamento, cominciano sempre più a scindersi, io posso non fare una cosa perché non la ritengo eticamente valida, ma questo non vuol dire che io ho un obbligo giuridico nei confronti di quel determinato comportamento. I due campi che in un determinato momento sembravano coincidere, prendono poi due strade differenti mediante una tecnicizzazione dell’intervento normativo. Questa tecnicizzazione comporta la certezza delle leggi: le leggi devono essere conoscibili. Il comando del sovrano deve essere accessibile a tutti i componenti dell’ordinamento, perché diversamente la sua azione ha un problema di esercizio. L’accessibilità del comando del sovrano riguarda ovviamente sia i modi attraverso i quali le leggi possono e devono essere conosciute, sia la forma attraverso la quale questi comandi si esplicano. C’è una chiara edificazione verso una semplificazione del linguaggio giuridico, verso, cioè, l’adozione di un linguaggio che sia semplice, chiaro, immediato e comprensibile da tutti. Non si ha soltanto l’auspicio che i comandi del sovrano vengano ridotti all’essenziale, al giuridico, cioè privati di tutti quegli orpelli retorici che li caratterizzavano, di tutte quelle motivazioni etiche ampollose che non andavano al cuore della prescrizione. Se noi analizziamo un qualunque atto normativo di antico regime, ad esempio un privilegio, lo troviamo scritto in una pergamena lunghissima anche se poi il dispositivo è magari contenuto in una sola riga. I filosofi giusnaturalisti cominciano ad invocare con forza che questo linguaggio giuridico venga cambiato, venga razionalizzato. Ma non è soltanto un fatto di semplificazione della retorica, è anche un fatto di semplificazione di un linguaggio tecnico. Ci si rende conto in maniera sempre più evidente che viene sminuito il potere dei giuristi, di quei giuristi che poi materialmente lavorano nelle cancellerie e confezionano gli atti normativi di qualunque natura. Atti che avevano un linguaggio assolutamente criptico, un linguaggio che è un linguaggio tecnico, voluto proprio per renderlo inaccessibile a coloro che non sono giuristi; questo perché chiaramente nel momento in cui dovesse sorgere una controversia in relazione ad un determinato atto, questa potrà, anzi dovrà, essere appaltata ai giuristi di professione, quindi agli “azzeccagarbugli” di passaggio, o anche ai grandi giuristi che compongono i tribunali. Rendere il linguaggio giuridico accessibile a tutti ha evidentemente un ritorno nel depotenziamento del potere politico del ceto dei giuristi. Nella ricostruzione di Hobbes certamente si avverte, ma non potrebbe che essere così, una preferenza per la legge a danno della consuetudine. Una costruzione teorica così fortemente centrata sulla figura del sovrano non può evidentemente dare grande spazio alla consuetudine. Il sovrano ha potere di intervento su tutti gli ambiti dell’ordinamento che egli comanda e governa, ciò significa che potrà intervenire, laddove lo riterrà opportuno, anche sulla consuetudine. C’è quindi uno scardinamento totale di un presupposto fondamentale di tutta la giuridicità occidentale che noi conosciamo, sin dal diritto romano. La contrapposizione tra legge e consuetudine, quindi fra princeps e consuetudo (o mores) è un tema antichissimo, possiamo infatti ricordare la famosa antinomia che sta nella compilazione giustinianea fra il passo di Salvio Giuliano e la costituzione di Costantino, laddove Salvio Giuliano dice che la consuetudine può abrogare la legge desueta e Costantino invece dice che per quanto forte possa essere la consuetudine non potrà mai vincere rationes aut legem. Questa dicotomia, questa antinomia tra la forza della consuetudine e la forza imperativa del comando è uno dei temi che stanno più a cuore anche ai giuristi medievali ovviamente. Questi ultimi inclinano a seconda dei momenti, ma sembrano propendere chiaramente per la forza della consuetudine, che comunque è la matrice della giuridicità medievale. Adesso le cose sono molto cambiate. Hobbes dice che la consuetudine c’è fin quando e solo se il sovrano non decida di eliminarla, di cambiarla e di intervenire. Ovviamente ne ha tutte le prerogative, può farlo perché quella comunità che ha prodotto la consuetudine in realtà si è 60 spogliata di ogni diritto e glielo ha ceduto. Il sovrano agisce in quanto incarnazione della comunità, non per conto della comunità. Egli stesso è la comunità, tutto ciò che farà naturalmente sarà fatto per il bene della comunità, perché egli è la comunità, quindi seguirà l’istinto naturale di agire per il proprio bene e cioè per il bene della comunità. Questo ovviamente è un sillogismo perfetto, ma come tutti i sillogismi perfetti non è sufficiente a spiegare, anzi tutt’altro. I limiti giuridici al potere del sovrano non esistono. Il sovrano non ha limiti giuridici. Deve vigilare sulla trasmissione delle dottrine, deve quindi operare un controllo sulle università, occorre cioè che chi viene asservito al potere dello Stato, che è quello di fare le leggi, debba essere in consonanza col sovrano, debba essere cioè formato con principi che siano perfettamente coerenti con l’idea che sta alla base del potere sovrano. Abbiamo detto inoltre che la teoria del Leviatano riguarda anche il concetto sacro della proprietà. Hobbes dice che la proprietà di distribuire i beni è un diritto esclusivo, originario dello Stato, e quindi lo Stato lo dovrà esercitare quando vorrà, potrà cioè riprendere una sua proprietà laddove riterrà che questa azione è fatta per il bene comune. Certamente è un diritto che si esercita dal sovrano ai sudditi, soltanto il sovrano può decidere la distribuzione della proprietà, dei beni, può separare ciò che è mio da ciò che è di un altro, ma è un diritto che non è esercitabile nella stessa maniera da parte dei consociati ovviamente, perché questi hanno ceduto al sovrano questo diritto insieme a tutti gli altri. I consociati potranno scambievolmente mettersi d’accordo per trasferire temporaneamente (anche se questa temporaneità è per sempre risulta comunque temporanea) e scambiarsi i beni, fermo restando che il proprietario finale rimanga sempre lo Stato. Quindi è un concetto di proprietà che subisce una chiarificazione ulteriore rispetto a tutte quelle teorie di domini divisi che avevano animato la riflessione giuridica medievale. La stessa cosa vale per la riscossione delle imposte: scardinando uno dei presupposti fondamentali della opposizione fra sudditi e sovrano, della contrattazione, della dialettica fra il Regno e il re, Hobbes dice che il monarca ha tra i suoi diritti quello di imporre tutte le tasse che vuole, senza bisogno che questa imposizione venga in alcun modo contrattata con il Regno, e lo può fare sempre in funzione del fatto che egli agisce per il bene comune. Se infatti identifichiamo il sovrano con la comunità, il fine ultimo dell’esistenza del sovrano è il bene comune. Tutto ciò che egli fa lo fa in nome e per raggiungere il bene, non suo proprio in quanto persona fisica, ma della comunità tutta che egli stesso incarna. Il bene dello Stato: concetto nuovo o che perlomeno in Hobbes ha una nuova chiarificazione. A questo punto però ci consentiamo un piccolo passo indietro e andiamo negli anni 70 del 1500 e ci trasferiamo nuovamente in Francia. In Francia, quasi contemporaneamente agli epigoni dell’umanesimo giuridico, pensiamo a Hotmann col suo Antitribonianus, quindi a questo attacco forte al fondamento a-storico del diritto romano, compare sulla scena Jean Bodin, giurista e umanista, che scrive nel 1576 (anno in cui esce l’edizione ufficiale) un’opera che si chiama “I sei libri della Repubblica”. Nell’opera di Bodin c’è una prima chiarissima comparsa di alcune idee che poi verranno frapposte nel giusnaturalismo. Bodin è un giurista. Certamente il confine tra giurista, politico, filosofo è un confine non sempre chiaro, ma la formazione di Bodin è una formazione prettamente giuridica, studia cioè il sistema del diritto comune, la communis opinio, la giurisprudenza pratica e studia anche i fermenti culturali della Francia del mos gallicus. Vive in un momento di grande agitazione politica, di grande violenza, cioè nella Francia delle guerre di religione, e fa una riflessione fondante e colossale sullo Stato, su com’è e come dovrebbe essere. A Bodin comunemente si ascrive la prima teorizzazione del concetto di sovranità in senso moderno. Il concetto di sovranità è uno dei punti fermi del dibattito giuridico-politico dell’età moderna, è uno degli elementi della modernità. Il medioevo non conosce l’idea di sovranità così come noi oggi la intendiamo, il medioevo conosce l’idea di iurisdictio, cioè di autonomia, pienezza dei poteri di governo di un ordinamento all’interno dei confini dell’ordinamento. Ma questo concetto di autonomia passa in maniera inevitabile dalla pluralità di ordinamenti, dalla coesistenza di più ordinamenti. Il medioevo è un’epoca che conosce gli ordinamenti universali, ma che ovviamente non si pensa come soggetta alla sovranità dell’ordinamento universale. I comuni della Lega Lombarda ad es. non 61 rivendicano affatto l’indipendenza dall’impero, ma l’autonomia di governo all’interno dell’ordinamento, rivendicano la possibilità di avere dei propri magistrati, di amministrarsi la giustizia di primo grado, di riscuotersi i tributi che riguardano la città e di potere con questi soldi provvedere a quello che serve per la città: manutenzione delle strade, delle mura, gestione dei posti dei mercati, sicurezza pubblica, etc. Ma ovviamente questo non significa disconoscere la superiore autorità dell’imperatore, anzi la superiore autorità dell’imperatore è richiesta come elemento legittimante dell’autorità dell’ordinamento inferiore. L’autonomia, che, oggi in maniera sempre più evidente, viene invocata da parte di enti locali di qualunque genere, non significa disconoscimento della superiore autorità dello Stato, significa altro. Una cosa è l’indipendenza e quindi le richieste di tipo indipendentista, una cosa è l’autonomia: sono due ambiti assolutamente e profondamente differenti. Il medioevo attribuisce agli enti universali, cioè quelli che stanno su tutto, l’idea di diritti universali, di leggi universalmente valide, ma sappiamo anche che il medioevo esercita una gerarchia tra leggi universali e leggi particolari che vede ovviamente l’utilizzo della legge particolare nel luogo particolare anche in presenza di una legge universale che sia contraria. Questo lo aveva detto anche Graziano nel Decretum e lo aveva detto proprio in relazione a uno dei due diritti universali, cioè quello della Chiesa. Graziano dice che uno dei criteri che usa per concordare i suoi canoni è la ratio loci, per cui in presenza di due norme, una destinata ad un’area particolare e una destinata ad un’area generale la contraddizione non esiste, perché quella generale rimane in vigore per tutto il resto dell’universo, quella speciale si applicherà soltanto in quel territorio, e questo anche se la norma generale viene per es. dal Pontefice e la norma speciale viene da un Concilio provinciale, ossia da un organismo gerarchicamente subordinato. Questo vuol dire che c’è certamente un’idea di una dignità universale, ma ogni ordinamento ha una fisionomia sua propria e non è una figura geometrica di tipo piramidale, non c’è un vertice e poi tutti gli altri ordinamenti. All’interno di ciascun ordinamento particolare convivono, coesistono e si intrecciano altri ordinamenti particolari che entrano in gioco laddove è necessario. Anche questo non deve stupirci, perché nessuno di noi che faccia una riflessione più attenta intorno alla situazione attuale, può pensarsi come all’interno di una piramide ordinamentale, non è così, ciascun soggetto sempre più oggi è determinato dall’ordinamento o dagli ordinamenti giuridici ai quali appartiene: certamente siamo italiani, ma facciamo parte della comunità europea, siamo siciliani, siamo palermitani, siamo studenti universitari, e tra di noi che abbiamo queste caratteristiche ci può essere un ordinamento differente se uno per esempio fa il calciatore, o è diversamente abile, etc. Possiamo pensare tutta una serie di specificazioni che sempre più definiscono noi in quanto portatori di diritti che gli altri non hanno. Queste differenze ordinamentali, micro o macro o variabili, fondanti o effimere, sono differenze giuridicamente rilevanti, sono differenze che rilevano sul piano della fisionomia giuridica di ciascun individuo visto ovviamente a 360 gradi. JEAN BODIN. Se le posizioni di Hobbes sono vicine e coerenti con impostazione assolutistica del potere del sovrano, il giurista Jean Bodin, non può che essere definito il teorico della sovranità per eccellenza.. Tra 500 e 600 c’è bisogno di ripensare all’ordinamento in termini nuovi, in termini cioè di rafforzamento univoco di una autorità all’interno di un ordinamento talmente complesso. I giuristi, così come anche i filosofi, vedono nel rafforzamento dell’autorità del sovrano e nella eliminazione di tutti gli stadi intermedi, la soluzione ai problemi politici del tempo. Soltanto in presenza di un potere forte si potranno reprimere le guerre civili che stanno insanguinando gli Stati europei in nome della religione. La guerra civile che c’è in Francia c’è anche in tutta Europa, ed è il prodotto dell’assenza di un potere centrale forte. La guerra civile si scatena quando manca un’autorità in grado di evitarla, ossia quando manca un’autorità in grado di garantire il rispetto dell’ordine che vale per tutti e di reprimere qualsiasi tentazione di gruppi contrapposti che ad un certo punto imbracciano i fucili e vanno all’attacco. Bodin apre il capitolo VIII del I dei sei libri della Repubblica con una definizione celeberrima: “per sovranità si intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato”. Siamo nel 1576 ma in realtà sembra un concetto che troviamo 62 o qualche aiuto, questi dicono che il re è obbligato, mentre per le altre leggi non vi è obbligazione da parte sua; tuttavia essi devono pur sempre riconoscere che può derogare anche a quelle ordinanze quando il motivo della legge venga a cessare”. Il sovrano quindi si impegna a rispettare il patto, salvo poi a decidere di concedere qualcosa in deroga. “Non c’è bisogno né di denaro né di giuramento per obbligare il principe sovrano se i sudditi cui ha fatto promessa hanno interesse a che la legge sia conservata. La parola del principe sovrano deve essere come un oracolo, il principe perde molto in dignità quando si diffonde una così cattiva opinione sul suo conto che non si ha più fede nei suoi giuramenti, e ci si convince che non sa stare alle sue promesse a meno che non gli si dia del denaro”. Non c’è bisogno cioè che il re si faccia pagare come garanzia per rispettare la promessa perché la sua dignità dovrebbe essere superiore. “Tuttavia resta pur fermo il principio che il principe sovrano può derogare anche a quelle leggi che abbia promesso e giurato di osservare se il motivo della promessa venga meno, anche senza il consenso dei sudditi, benché in questo caso la deroga generale non basti e occorra anche una deroga speciale”... “ da tutto ciò risulta che non bisogna mai confondere legge e contratto: la legge dipende da colui che ha la sovranità, egli può obbligare tutti i sudditi e non può obbligare se stesso, mentre il patto è mutuo tra principi e sudditi, ed obbliga entrambe le parti reciprocamente, né una delle due parti può venir meno ad esso senza il suo consenso. In un caso del genere (cioè nel caso del patto) il principe non ha alcuna superiorità sui sudditi , sennonché cessando il giusto motivo della legge che ha giurato di osservare, egli non è più vincolato alla sua promessa”. Solo questo è il caso in cui è possibile per il principe scindere, rompere unilateralmente il patto con i suoi sudditi. Il patto ha una sua giusta causa, se viene meno viene meno il patto. Tali passi di Bodin sono estremamente limpidi e lucidi, e rappresentano un modo nuovo di teorizzare dei cambiamenti all’interno della stessa società che questi soggetti, giuristi e filosofi tra 500 e 600, riescono a rendere in maniera esplicita e con una nuova chiarezza. Bodin quindi pur essendo un umanista, uno che continua a pensare l’idea di sovranità ultima incarnata in un Dio, tuttavia fa una lucidissima analisi dei fondamenti di una sovranità che è tutta all’’interno degli ordinamenti, fa una lucidissima analisi, dando anche un esempio precoce di comparazione far ordinamenti giuridici, sull’idea della legge e sulla differenza tra legge e patto. Questo giusnaturalismo, che ha origini antiche ed ha tante facce, ha anche un’altra linea importante che compare sempre ma poi diventa tipica di una delle correnti: il razionalismo. La ragione diventa un principio che muove e che legittima, in maniera quasi teatrale se vogliamo, l’esistenza stessa di un ordinamento. Ragione sempre più diventa natura e viceversa. Un’idea, un concetto, un ordinamento è condivisibile e legittimo in quanto è razionale, in quanto si conforma al principio di natura che è razionale di per sé. La legittimazione ultima si sposta da Dio alla natura, cioè alla ragione. L’influenza della ragione e del razionalismo, cioè di un metodo logico utilizzato per tentare di spiegare ogni fenomeno, è qualcosa che sta a cavallo tra filosofia e scienza. E ancora una volta conviene che restiamo nel 500, in un’epoca precedente al giusnaturalismo. Per esempio Cartesio, è fra i primi ad invocare l’acquisizione di un metodo di tipo matematico per la spiegazione di concetti non chiari, e soprattutto come statuto da assumere per discipline caratterizzate da una certa ambiguità, prima fra tutte il diritto. Cartesio sostiene che se si utilizza un metodo matematico nella spiegazione dei fatti del diritto si ottiene un sapere certo, se si riduce il diritto ad un insieme di postulati questi saranno dimostrabili ed avranno un’evidenza razionale. Si potranno trovare secondo lui le regole matematiche del giusto, dell’equo, regole quindi che per questa loro caratterizzazione scientifica verranno private del loro carattere contingente, del loro carattere temporaneo. Se il diritto si riduce o si guarda attraverso il metodo matematico si ottiene un diritto razionale, non contingente, ma radicato nell’ordine naturale delle cose. Naturale cioè razionale. Il pensiero cartesiano ha un’influenza diretta nelle dottrine giuridiche secentesche, in particolare in Leibniz, grandissimo matematico oltre che grandissimo filosofo. Leibniz è colui che, occupandosi di diritto, arriva a teorizzare il diritto more geometrico, che è uno dei presupposti fondanti delle manifestazioni formali del diritto anche in pieno ottocento. 65 ...IL GIUSNATURALISMO. (Continuiamo a parlare di giusnaturalismo) Accennando alla dottrina cartesiana abbiamo sottolineato che l’atteggiamento che Cartesio ha nei confronti del diritto si mostra come un postulato secondo il quale il diritto possa ridursi ad una serie di regole chiare, univoche ed improntate da una logica di tipo matematico e questo al fine di potere garantire la certezza del diritto. Il diritto cioè si può, secondo Cartesio, sottrarre all’arbitrio a condizione che segua delle regole che siano oggettive. Si comincia ad immaginare cioè un piano meta giuridico nel quale questo diritto si sganci dalle contingenze per assurgere a postulato, a paradigma, sempre dimostrabile a parità di condizioni. Ovviamente questa è una delle strade che la filosofia, per prima, e poi il diritto cercheranno di praticare per porre rimedio ad una situazione oggettiva, ad una situazione di disaggio che noi, ormai, abbiamo in qualche modo delineato: cioè il diritto risponde comunque a esigenze della società; anche il pensare il diritto come avulso alla società è una risposta, una risposta ad un problema oggettivo di inconoscibilità delle fonti che diventa ormai arbitrio. Da arbitrium si passa ad arbitrio. Dall’accezione non valutativa di arbitrium come potestà e facoltà del giudice di scegliere tra le norme esistenti quella più confacente al principio di aequitas, in realtà sempre più velocemente il sistema scivola verso il più totale arbitrio. Un arbitrio - come abbiamo detto nel momento in cui abbiamo cercato di definire il particolarismo giuridico - determinato dalla sovrapposizione di fonti non conoscibili tutte vigenti, concorrenti senza alcuna gerarchia. Le risposte che da la filosofia e la teorica in generale che si occupa del diritto sono appunto risposte che postulano un sistema ordinato, chiaro, univoco, razionale e conoscibile, e una delle strade che viene invocata attraverso Cartesio ed il razionalismo giuridico, è proprio quella di far diventare il diritto una scelta esatta, una scelta regolata cioè dalle stesse leggi che regolano l’indagine scientifica, matematica, astronomica, fisica, etc. PUFFENDORF Spostiamoci per un momento in Germania dove dobbiamo occuparci di un filosofo, giurista che si chiama Samuel Puffendorf. Puffendorf vive in pieno 600 (1632-1694), e secondo lui il diritto è un sistema di comandi coattivi e di regole che sono autonome, sono cioè esclusivamente giuridiche. Quindi comandi coattivi e regole autonome. Autonome significa non derivate e non collegate alla teologia e all’etica. Le regole che compongono il diritto sono soltanto regole giuridiche, stanno nella sfera autonoma del diritto. Sono comandi coattivi. Se non c’è un comando coattivo non c’è diritto. Il diritto è un comando coattivo. Ovviamente in questo è chiaro l’eco della riflessione giusnaturalista, perché noi sappiamo che il diritto non è riconducibile esclusivamente o comunque 66 non è sempre stato un diritto unicamente derivante da un comando coattivo; la consuetudine non è un comando coattivo; le decisioni assembleari non nascono come comando coattivo. Dice Puffendorf: «La legge è un comando con cui un superiore obbliga un soggetto a lui suddito – dove nel termine soggetto c’è un’accezione duplice e cioè il soggetto è l’attore ma soggetto è anche la traduzione di suddito, di “subiectum”, di sottoposto – a regolare le sue azioni secondo il proprio precetto». Non è una definizione che ci suscita tanto stupore. In verità possiamo concordare con questa definizione. La cosa interessante è la riflessione sulla natura della legge e sulla valenza del comando. Questa definizione di legge che ci da Puffendorf porta con se alcune considerazioni. Innanzitutto, se la legge è il comando con cui un superiore obbliga un suddito a un determinato comportamento, bisogna conoscere la legge; è necessario che, per ubbidire al comando, io debba conoscere il comando, quindi bisogna conoscere il comando ma, ovviamente nella necessità logica di conoscere il comando è insita la necessità, altrettanto logica, di conoscere colui che da il comando, quindi il legislatore. E Puffendorf dice: «per la legge di natura, per il diritto naturale così come si è consolidato nella tradizione giuridica occidentale, il legislatore è Dio». Ma questo spiega poco perché ciò che importa è la legge civile, quella che regola lo stato civile. Quindi bisogna determinare chi è il detentore del sommo potere all’interno dello Stato civile ed è necessario che costui renda conoscibili, a tutti coloro a cui i comandi s’indirizzano, questi comandi. Una necessità sempre più forte di rendere chiaro e conoscibile il contenuto delle leggi. La legge dunque è un comando sanzionato. La legge cioè contiene in sé una sanzione per la trasgressione all’ordine. Secondo Puffendorf, quindi, la legge consta di due parti: 1. una parte definisce cosa fare e cosa omettere (parte che dispone); 2. l’altra indica quale male è inflitto a chi omette l’azione comandata o a chi compie l’azione proibita (parte che sanziona). Tale riflessione ha una data di nascita precisa: 600 con qualche epigono cinquecentesco. La legge può comandare di fare qualcosa o di non fare qualcosa. Il legislatore obbliga e determina il comportamento dei sudditi o con l’imposizione in positivo o con il divieto. La seconda parte della norma contiene la sanzione che verrà comminata a chi omette di fare ciò che era previsto o a chi fa ciò che era vietato. Tutto questo conduce ancora una volta all’esigenza che la legge venga conosciuta, che venga pubblicata, cioè che venga affidata a canali di comunicazione di trasmissione ufficiali che garantiscano che il contenuto dei comandi è rispondente alla volontà del legislatore. Che non c’è 67 le azioni non vietate esplicitamente dalla legge sono consentite. L’idea del volontarismo della legge è evidentemente contrapposta all’idea del naturalismo della legge. Non c’è una legge naturale che non ha bisogno, quindi, di essere messa per iscritto, di essere data, di essere positivizzata. In un sistema giuridico razionale è necessario che tutto venga esplicitato. Non si può pensare che da una griglia così costruita stiano fuori comandi che prima facevano parte di un’area di un diritto, talmente diritto che non aveva bisogno di essere messo per iscritto o comunque dichiarato dal legislatore. Volendo, quindi, utilizzare una definizione sintetica di questo filone del giusnaturalismo potremmo dire che, la disciplina della legge divina e umana soprattutto, è un sistema di comandi che fondano, che istituiscono comandi e doveri. Come si vede una risposta estrema ed estremista ad una situazione non più accettabile. L’illuminismo, lo vedremo, recupererà alcuni ambiti di diritto non scritto che chiamerà le libertà naturali. Le libertà naturali verranno visti dall’illuminismo come diritti soggettivi non negoziabili perchè appartenenti alla sfera più intima dell’individuo (es. libertà di coscienza, la libertà di religione). Il 600 però è l’epoca degli scontri, in cui ancora è fortissima la contrapposizione religiosa. Tutti i filosofi del 600 non possono che prendere in considerazione il diritto positivo, perché diversamente il rischio di cadere in qualcosa che è ormai superato è fortissimo. Puffendorf distingue nettamente tra diritto e morale, e relega le libertà naturali soltanto nelle zone non legiferate dal sovrano. THOMASIUS Il problema della contrapposizione tra diritto e morale è al centro del pensiero di Christian Thomasius (1655-1728); altro giurista di area tedesca. Christian Thomasius, sulla scia di Puffendorf approfondisce la distinzione tra diritto e morale, laddove il diritto è l’oggetto della scienza giuridica e la morale è l’oggetto della teologia. Thomasius da una spiegazione, che si può definire anche antropologica, del rapporto tra diritto e morale, in una sorta di evoluzione non storica, ma postulata e totalmente utopica, della vita dell’uomo all’interno della sua organizzazione sociale. Secondo Thomasius l’uomo che tende naturalmente alla felicità – questo postulato che riguarda tutto il giusnaturalismo – l’uomo tende al soddisfacimento del proprio bene, tende a fare ciò che è buono – anche questo postulato può sembrare banale ma non lo è. La Chiesa, ad esempio, postula che l’uomo agisce o deve agire in funzione della salvezza eterna e non in funzione del soddisfacimento del proprio bene; sono due cose del tutto diverse. Quindi l’uomo nel suo tendere alla felicità segue quattro modalità, quattro strade: 70 1. la prima è quella primigenia dello stato di natura primitivo, in cui ogni uomo segue il proprio bene senza alcun riguardo al bene degli altri, senza alcun disciplinamento derivante da diritto né tanto meno da morale. 2. Uscendo dal primo stadio, dallo stato primigenio, l’uomo segue la via dell’honestum, che è il primo stadio, diciamo, di civilizzazione della società – ripeto sono tappe non collocate storicamente ma postulate idealmente. L’honestum si caratterizza per il perseguimento della pace interna, interiore. Ognuno – questo è il postulato - deve essere e deve agire come vorrebbe agissero gli altri. Questo dell’honestum è lo stadio delle azioni buone, l’oggetto della scienza morale. Non è ovviamente un qualcosa che ha a che fare con il diritto; principio evangelico che garantisce la pace interiore, cioè se ognuno si comporta come vorrebbe che si comportassero gli altri, cioè fa solo azioni buone, teoricamente raggiunge la pace interiore. Ovviamente questo non significa nulla ai fini del diritto, non rileva affatto. 3. Comincia a rilevare in diritto nella fase del decorum. Il decorum è la fase in cui si pongono le regole sociali, le regole del buon vivere. Ognuno si deve comportare con gli altri come vorrebbe che gli altri si comportassero con lui. Deve fare cioè delle azioni che potrebbe volere ricevere in cambio. Questo garantisce un’armonia nei comportamenti sociali. 4. L’ultima fase, quella che rileva maggiormente dal punto di vista giuridico, è la fase del iustum. È la fase che riguarda da vicino la giurisprudenza, il diritto, la riflessione sulle regole. È la fase che disciplina le azioni da opporre alle azioni ritenute ingiuste, secondo il principio sec cui ciascuno deve evitare di fare agli altri ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui. Questo garantisce la pace esterna; io devo evitare di commettere un’azione che non vorrei subire. Quest’ultima fase è ovviamente quella che rileva più dal punto di vista dei rapporti giuridici con l’esterno. Per esempio evita il male maggiore cioè la guerra: infatti io non faccio agli altri ciò che non vorrei fosse fatto a me, non faccio ciò che vorrei che fosse fatto a me, ma evito di fare, cioè inserisco un dato positivo che garantisce la fase del giusto. Sono tutte riflessioni che apparentemente possono sembrarci sganciate ma non lo sono affatto. Stanno tutte in un pozzo preparatorio, che poi diventerà preparatorio ma loro non lo sanno. Ovviamente la teoria di Thomasius, per esempio, verrà utilizzata per teorizzate il divieto di tortura. La tortura non rientra in questa griglia, la tortura non garantisce un utile assetto e armonico della società; non rientra in questi parametri che secondo lui sono gli unici parametri che devono regolare lo stato civile. Cioè un atteggiamento intimo che è quello dell’honestum, ognuno deve essere nel suo profondo come vorrebbe che fossero gli altri; un atteggiamento sociale, il decorum, ognuno deve fare, deve comportarsi come vorrebbe che gli altri si comportassero con lui; e un atteggiamento giuridico vincolante l’iustum: ognuno deve evitare di fare agli altri ciò che non 71 vorrebbe gli venisse fatto. Possono essere tutti precetti che semplificando possono essere condotti ai precetti evangelici, ovviamente non c’entra niente, stiamo parlando di filosofia laica applicata al diritto. Sono riflessioni filosofiche che stanno alla base di fondamenti giuridici. LEIBNIZ Sempre in pieno 600, ma stavolta più spostati con epigoni settecenteschi vi è un altro personaggio fondamentale: Leibniz (1646-1716). Leibniz è un grandissimo matematico, filosofo. Per quanto riguarda le sue posizioni sul diritto, egli certamente è l’interprete di questa marcata attenzione verso il razionalismo di matrice cartesiana che ora arriva, utilizzando ampiamente la elaborazione giuridica-filosofica del 600, a maturazione. Secondo Leibniz il diritto è un insieme di proposizioni che contengono soggetti connessi a predicati. Soggetti giuridici, predicati giuridici, la connessione tra soggetto e predicato è il diritto. Per due punti passa una sola retta: questo non è certo un precetto giuridico, ma la struttura della frase è quella che Leibniz auspica per tutto il diritto. Il diritto come connessione logica tra un soggetto ed un predicato. Così come in un postulato, in una definizione matematica, così anche in una definizione giuridica, ossia nell’estrinsecazione e nella manifestazione del diritto è necessario utilizzare un linguaggio univoco ed una formulazione semplice. Il pensiero di Leibniz avrà un’influenza fondamentale nelle moderne tecniche di codificazione del diritto. Secondo Leibniz tutte le norme devono essere pensate come sistema logico, quindi non si limita ad analizzare la singola norma ma estende la sua analisi al sistema giuridico tutto. Non potrebbe che essere così perché se il punto di partenza è la tecnica scientifica è evidente che la definizione “tra due punti passa una ed una sola retta” va inquadrata in un sistema logico che ha tanti altri enunciati che riguardano i punti, che riguardano lo spazio, che riguardano le rette, etc. Diversamente questo postulato da solo non avrebbe in sé carattere di razionalità e di univocità che rende il sistema giuridico certo e conoscibile. Il sistema, secondo Leibniz, per essere conoscibile, quindi utilizzabile, deve essere ordinato secondo il metodo utilizzato nella logica, nella matematica. Quindi sarà necessario: in primo luogo che vi siano le premesse, cioè le definizioni dei termini adoperati nella legge; in secondo luogo che il sistema contenga regole generali o principi; infine occorrerà indicare le proposizioni particolari cioè le eccezioni alle regole. Definizioni - Principi - Eccezioni. • Definizioni cioè spiegazione univoca dei termini utilizzati. • Principi generali che utilizzano i termini prima spiegati. • Eccezioni, casi particolari. Casi cioè in cui la regola generale non può essere applicata. 72 DOMAT. Nel solco del giusnaturalismo è da considerare anche il pensiero di Jean Domat (1625- 1696) dapprima avvocato e poi procuratore del re a Clemont e a Parigi espone la sua posizione in materia di diritto nel trattato Le leggi civili nel loro ordine naturale. Domat espose le regole del diritto di Francia sulla base e alla luce di alcuni principi fondamentali che egli riconduce al diritto naturale. Secondo Domat le regole del diritto naturale in generale possono concretarsi in regole di diritto positivo non identiche nei diversi ordinamenti e sono già contenuti in larga misura nei testi giuridici romani. Altre regole dipendenti dalle circostanze e dalle scelte politiche contingenti hanno il carattere dell’arbitrarietà e nulla hanno a che vedere con le norme derivanti o comunque costruite sulla base di norme naturali. Inoltre Domat predicava la possibilità per i privati di disciplinare i loro rapporti contrattuali privati entro i confini dell’ordine pubblico e del buon costume nel rispetto della buona fede e delle regole conformi al diritto naturale. Questa visione anche se non può propriamente qualificarsi di impostazione liberistica ne in economia ne in etica certamente verrà recepita nel contesto storico dell’ottocento, i codici napoleonici ne sono un evidente esempio. 75 DAL GIUSNATURALISMO ALL’ILLUMINISMO DEL ‘700. Il giusnaturalismo del ‘600 e l’illuminismo giuridico del ‘700 sono due movimenti che costituiscono il retroterra culturale, lo sfondo culturale di un percorso storico che conduce alla formazione dello Stato moderno, di quello stato che si ha nell’800 e che si occupò di diritto introducendo, dal punto di vista delle fonti del diritto, una soluzione che segna una cesura rispetto al passato: la codificazione. La soluzione codicistica, cioè l’idea per cui il diritto si identifichi, coincida con la legge e si esaurisca con essa, non sia una soluzione ovvia, ontologica del diritto; non è detto cioè che il diritto debba essere compreso e compresso dentro un corpo, dentro un codice: corpo di leggi confezionato dal potere politico sovrano. Questa è solo una soluzione giuridica, e si è parlato in merito a questa soluzione, a quella del codice, di una mitologia giuridica della modernità, ne ha parlato Paolo Grossi. Mitologia giuridica: condizionamento culturale talmente forte da rendere l’oggetto, in questo caso il codice, non più oggetto di discussione, non più discutibile, e quindi in un certo senso assoluto. E’ un falso mito l’idea che il diritto debba necessariamente identificarsi con la legge, l’idea che debba promanare in maniera discendente dall’alto verso il basso e provenire in maniera esclusiva da un legislatore che esprime una volontà, una volontà politica. Questa è una delle possibili soluzioni, non è la condizione ontologica del diritto, che non è necessariamente identificato con la legge. E di questo ci si è resi conto studiando il medioevo e la modernità. Infatti nel medioevo il sistema delle fonti del diritto era fondato sullo ius commune. Il sistema era quello del particolarismo giuridico (controllare una lezione precedente della prof, se non ricordo male per la prof nel medioevo si poteva parlare di un vero e proprio pluralismo giuridico): può accadere così che in uno stesso ordinamento politico concorrano contemporaneamente non soltanto una molteplicità di fonti del diritto (diritto romano, diritto canonico, le ordonnances regie, le consuetudini, gli statuti corporativi, gli statuti cittadini, le sentenze dei tribunali, le opinioni della dottrina) ma anche una molteplicità di diritti diversi in ragione dello stato personale. È cosa diversa dalla molteplicità di fonti, anche oggi abbiamo tale molteplicità: ci sono i regolamenti, c’è la legge, ci sono le consuetudini a determinate condizioni... ma tutte queste fonti concorrono a fondare un unico diritto, che è quello dello Stato italiano. Ciò non accade con il particolarismo giuridico, non c’è un diritto unico sia pure con diverse fonti, ci sono tanti diritti quanti sono gli status personali: in base al sesso, al ceto, alla cultura, alla religione, al mestiere. Ciascuno ha un proprio patrimonio giuridico, nel senso che è destinatario di un ordine diverso. Il salto qualitativo, la cesura che si ha invece con la codificazione è che si ha un unico soggetto di diritto, prima ancora di un’unica fonte del diritto. È un salto radicale quello che si ha con la codificazione e si può avere soltanto con un cambiamento dell’assetto sociale, dell’assetto economico, dell’assetto giuridico. Per cui alla società dei ceti, delle corporazioni, si sostituisce una società semplice, in cui si hanno una molteplicità di diritti per tutti uguali, in quanto si ha un unico soggetto di diritto. La soluzione codicistica è una delle possibili soluzioni giuridiche, ed è il portato di un percorso storico, che prende le mosse alle soglie della modernità, quindi più o meno nel ‘400 con l’Umanesimo giuridico, e si conclude con la Rivoluzione Francese. Il primo esempio di stato 76 moderno sarà lo stato napoleonico. Si avrà così la nascita dello stato liberale di diritto, che si fonda sul codice ma su molte altre novità: il costituzionalismo, la tutela dei diritti e delle libertà, la nascita di una rivisitazione dello stato giuridico... Tutte le soluzioni della modernità sono sempre improntate alla semplicità, questa è una chiave di lettura che si deve tenere sempre presente: la proprietà si semplifica, le fonti si semplificano, l’amministrazione si semplifica. Dice Grossi che si tratta di una semplicità che molto spesso degenera in semplificazione. Gli individui si “semplificano”, non c’è più quell’attenzione collettiva, non ci sono più le formazioni: semplicità e individualità. Questo percorso storico che dalle soglie della modernità approda allo stato moderno dell’ ‘800, all’età della codificazione, è dovuto ad una serie di fattori di diversa natura: • Fattori politici sicuramente: L’assolutismo politico. Indubbiamente l’assolutismo, con le sue pretese di razionalizzazione, consolidazione, semplificazione del diritto, va verso il superamento del particolarismo. L’assolutismo, sia pure in linea tendenziale, in linea astratta, in linea teorica, in qualche modo fa sì che il sovrano rivendichi il monopolio della produzione giuridica. Questo poi non avviene storicamente, meno che mai nel diritto privato, però tendenzialmente per la prima volta un potere pubblico, lo stato, rivendica, se non la produzione giuridica, comunque il controllo e la organizzazione delle fonti del diritto. Questo ovviamente porta ad un superamento del particolarismo. Ma spiegare il superamento del particolarismo soltanto con componenti politiche non basta. Questo percorso si alimenta anche, e forse prima di tutto, di elementi filosofico-culturali. • Elementi filosofico-culturali: soprattutto durante due secoli (600-700) si hanno dei movimenti di pensiero, delle correnti filosofiche che vanno verso il superamento del particolarismo, e costituiscono il supporto, il fondamento filosofico-culturale per una semplificazione del diritto. A questi due fattori, politici e filosofici, si aggiungono i fattori tecnici. • Fattori tecnici: criteri tecnici di redazione delle norme, della legge e che consentono una semplificazione della legge. In particolar modo sono criteri di economicità: si cerca di semplificare le leggi nel senso di evitare una proliferazioni di leggi, e cercando di emanare leggi che siano poche, necessarie, semplici e chiare. Sono i criteri di redazione delle leggi che vengono in realtà elaborati e messi a punto proprio dai giusnaturalisti. Sono contributi non astratti ma pratici e servono per la redazione di norme. Tarello, storico del diritto, parlava di “ideologie della codificazione” per indicare queste idee di alcuni giusnaturalisti, sec il prof. sarebbe meglio parlare di ideologie di consolidazione, visto che tra 600 e 700 non può ancora parlarsi di codificazione e si ha la redazione di consolidazioni (il primo codice è quello napoleonico del 1804). 77 di Locke il comando del sovrano viene ancorato a dei contenuti sostanziali. Il sovrano deve sempre rispettare e tutelare i diritti, non importa che emani una legge, non interessa la forma. Lo stato di diritto continentale, il nostro, il Rechstat, giunge a conclusioni opposte: nel nostro ordinamento se l’organo legislativo rispetta le procedure formali per l’emanazione della legge, questa in qualche modo può avere qualunque contenuto. Tale ultima concezione entra in crisi con gli stati totalitari (basti pensare alle leggi razziali valide perché emanate secondo le procedure), crisi che si sanerà quando entrerà in vigore la Costituzione. 3. Il sovrano deve costruire, creare questo diritto che recepisca il più possibile il diritto naturale, e deve crearlo attraverso la legge. Si ha un altro elemento fondante dello stato moderno: l’esaltazione della legge come fonte del diritto e l’esaltazione del legislatore. Gli illuministi si faranno poi portatori di questa “religiosità della legge”. Si ha un’assoluta esaltazione della legge come fonte del diritto e un’assoluta mortificazione delle altre fonti, un’assoluta esaltazione della legge e un fortissimo ridimensionamento del ruolo interpretativo del giudice e del giurista. Praticamente si ha l’opposto di ciò che avviene in età medievale. Nell’età medievale il giurista per eccellenza è il doctor, nell’età moderna è il giudice (grandi tribunali). A questo punto entrano in gioco i fattori tecnici, infatti i giusnaturalisti cominciano ad elaborare dei criteri di redazione della legge, dei criteri di economicità, si cominciano ad interessare alla forma e ai contenuti che la legge deve assumere. Tali fattori insieme a quelli politici e culturali concorrono al superamento del particolarismo giuridico e approdano alla codificazione. Ci sono tre correnti, tre indirizzi del giusnaturalismo sotto questo profilo. C’è innanzitutto una prima corrente che è quella di Pufendorf: giurista tedesco, sassone, del ‘600. Per definire il suo indirizzo si è parlato volontarismo. Egli riteneva che esistesse un diritto universale e razionale, ossia un diritto supportato dalla ratio, e che ci fosse una separazione netta tra diritto e morale, tra diritto e teologia, finiva così col promuovere e legittimare l’idea di un diritto positivo arbitrario. Il diritto positivo avrebbe dovuto essere emanato in via esclusiva dal sovrano, dal legislatore attraverso la legge. Per Pufendorf la legge consiste in comandi, e in particolar modo in divieti: in ciò sta la economicità. Le leggi devono indicare solo ciò che non si deve fare. Per lui sono inutili tutte le leggi che prescrivono facoltà e diritti. Tutto ciò che non è proibito dalla legge è permesso. Il suo giusnaturalismo ha tre caratteristiche: a) il volontarismo – il diritto è volontà manifestata dal potere politico sovrano, e in quanto volontà può essere arbitraria ed avere qualsiasi contenuto. È una manifestazione di volontà, è il frutto di una scelta politica che non è ancorata alla realtà, non è come 80 la consuetudine medievale ancorata all’ordine, al corpo sociale. È un diritto che scaturisce dalla volontà sovrana. È un diritto che proviene dall’alto. b) Imperativismo – il diritto è fatto di comandi imperativi. Se è vietato ciò che è vietato dalla legge, io devo conoscere la legge. Da qui l’importanza della pubblicità della legge e della irretroattività della stessa. c) Psicologismo – questo punto rileva nella fase di interpretazione della legge. La legge va interpretata alla luce delle intenzioni del legislatore storico. Per cui si dovrebbe interpretare la legge in base a ciò che il legislatore storico voleva dire. L’interprete deve pedissequamente leggere cosa voleva il legislatore al momento in cui ha emanato la legge. Si ha quindi l’esaltazione della legge e del legislatore, e una posizione fortemente sminuita dell’interprete. La seconda corrente è quella di Leibniz: egli concepiva il diritto come un dato della realtà, quindi come tutti i dati della realtà doveva essere conosciuto attraverso criteri empirici e procedimenti logici. Ogni problema giuridico avrebbe dovuto risolversi in forza di una premessa certa. Un procedimento matematico, logico-deduttivo, da questa premessa io avrei potuto risolvere un problema giuridico. Nell’impianto di Leibniz il diritto è composto da proposizioni giuridiche che uniscono un ente e un predicato. Leibniz parla di “predicazioni giuridiche” e queste costituiscono un complesso coerente. L’ente è il soggetto di diritto. Il predicato poteva essere una condizione giuridica (uomo, donna, figlio, nobile, mercante – molteplicità dei soggetti di diritto), ma anche una situazione giuridica in cui si trovava il soggetto (venditore, locatore, mutuatario, socio), o anche un diritto, un’obbligazione, un dovere. L’economicità sta nel fatto che si ritengono necessarie solo poche proposizioni giuridiche, tutte le altre avrebbero potuto dedursi attraverso procedimenti logici, deduttivi, matematici. I caratteri della concezioni di Leibniz sono: a) descrittivismo; b) sistematicismo; c) concettualismo. Il descrittivismo è opposto al volontarismo: il diritto non va creato perché è un dato della realtà, va descritto. Un’asserzione giuridica è vera ed è prescrittiva non in quanto voluta, ma in quanto conforme alla realtà. Il sistematicismo è relativo al fatto che le disposizioni sono legate l’una all’altra secondo criteri di sistematicità, le disposizioni fanno parte di un unico sistema. Il concettualismo invece è legato alla convinzione per cui nel caso di dubbi tutto deve essere risolto attraverso il ragionamento sui concetti (ad esempio devo ragionare sul concetto di mutuo per capire se una determinata dazione di denaro può definirsi mutuo). Il terzo indirizzo è l’indirizzo sistematico francese: i due massimi esponenti sono Domat e Potier. Essi ritenevano che il diritto fosse un insieme di concetti chiari e semplici, derivati dal diritto romano. Domat muoveva dall’esigenza di raccogliere e sistemare tutto il diritto francese e di ridurlo a sistema. Il diritto francese era infatti formato non soltanto dal diritto romano, ma anche dal diritto canonico, dalle ordonnances, dalle coutumes (consuetudini). Tutto questo diritto doveva essere raccolto in un unico 81 sistema. Si auspicava una rilettura del diritto romano al fine di rinvenire principi, istituti, categorie utili per il diritto patrio, il diritto nazionale. Domat faceva una distinzione tra leggi immutabili, valide sempre e ovunque, e leggi arbitrarie o contingenti, che dipendevano da uno specifico contesto. Le prime erano leggi naturali, di queste si componeva quasi per intero il diritto privato e venivano rinvenute nel diritto giustinianeo. Il diritto giustinianeo era considerato la migliore riproduzione del diritto naturale razionale. C’era l’idea del diritto romano come ratio scritta, come deposito storico di rationes. Le seconde erano molto più numerose nel diritto pubblico, e ciò è abbastanza comprensibile visto che il diritto pubblico è costituito da una legislazione che dipende dall’assetto politico contingente. Questa distinzione tra questi due tipi di leggi è stata ricondotta alla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, e si è ritenuto che coincidesse del tutto con questa, anche se non è proprio coincidente visto che anche nel diritto privato ci sono norme arbitrarie e anche nel diritto pubblico ci sono leggi immutabili. Domat scrive “Le lois civil dans leur ordre naturel”, pubblicata tra il 1689 e il 1694. Domat rielabora il materiale romanistico, a cui deve essere data una nuova sistematica, perché è arrivato a noi pieno di lacune e antinomie, perché l’ordine seguito dal Digesto è diverso da quello seguito nel Codex (quindi non c’è un ordine coerente), perché molte regole generali sono contenute in titoli che affrontano argomenti particolari e molte regole particolari sono contenute in titoli che affrontano argomenti generali. L’opera di Domat verrà utilizzata a piene mani dai legislatori napoleonici, che redigeranno poi il codice del 1804. Sarà un’opera molto utilizzata dai sovrani per redigere varie codificazioni, ma anche consolidazioni. Domat inserisce nell’opera un libro preliminare che si articola in tre titoli: il primo riguarda le regole del diritto (quindi per la prima volta viene inserita una disciplina generale riguardante l’uso e l’applicazione e l’interpretazione del diritto), il secondo riguarda sempre regole generali ma stavolta sulle persone, il terzo riguarda regole generali sulle cose. Domat introduce perciò una nuova sistematica. (Nel codice napoleonico all’inizio ci sarà un vero e proprio manifesto dell’ordine nuovo, il “manifesto della modernità”). A seguire, dopo il libro preliminare, c’è una parte riguardante il diritto privato, in cui tratta solo obbligazioni e successioni, e infine una parte riguardante il diritto pubblico. COORDINATE GENERALI DELL’ILLUMINISMO. Si tratta di un argomento fondamentale perché, come si è detto anche per il giusnaturalismo, l’illuminismo è un’ulteriore supporto culturale, filosofico, politico per gli sviluppi che ci saranno sul piano giuridico, cioè, vengono poste le premesse politiche, filosofiche, culturali per l’avvento della codificazione e per l’avvento dello Stato moderno. 82 codice riduce il ruolo interpretativo del giudice. Un codice, che, per l’appunto, avrebbe preso il nome di codice carolino, avrebbe dovuto raccogliere tutte le decisioni sui casi controversi, proprio per evitare qualsiasi discrezionalità del magistrato. Muratori scrive nel 1742 un’altra opera famosa che non a caso si chiama “Dei difetti della giurisprudenza”, in cui denunciava il dispotismo giudiziale, cioè tutte le componenti di incertezza e di disuguaglianza che scaturivano dall’interpretazione dei giudici. Altrettanto fondamentale era un’altra opera di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” del 1764 nella quale oltre a fare propri tutti i principi dell’illuminismo giuridico in materia penale, cioè umanitarismo, utilitarismo, proporzionalismo, formulava anche la teoria della giurisprudenza meccanica. Siccome ogni crimine, ogni delitto era un attentato contro lo Stato, l’unico a poter reagire era lo Stato stesso che doveva intervenire attraverso la legge, prevedendo per legge le sanzioni e le avrebbe dovute prevedere nella maniera più specifica possibile. Il giudice avrebbe dovuto limitarsi ad un mero sillogismo, avrebbe dovuto limitarsi ad una mera applicazione meccanica del testo legislativo ed in particolar modo ad un sillogismo perfetto. Come si può notare, si cerca di imbavagliare l’interprete. Sillogismo perfetto nel quale la premessa maggiore era la legge, la regola generale; la premessa minore era l’azione concreta posta in essere dal supposto reo; la conclusione era la libertà o la pena. L’illuminismo giuridico ha tutta una serie di risvolti sul piano concreto dei principi costituzionali e sul piano delle libertà a seconda dei vari autori presi in considerazione. Voltaire era quello che avrebbe insistito molto sul piano della libertà di religione e sulla libertà economica. Libertà di religione significava in quel momento un forte ridimensionamento del diritto canonico, significava, ad es. sottrarre il matrimonio al diritto canonico, significava sostenere il divorzio, la abolizione della giurisdizione ecclesiastica, cioè il privilegio di foro. Montesquie, invece, si sofferma molto sul piano costituzionale e cerca di individuare le forme costituzionali utili per garantire la libertà e i diritti dei cittadini. Montesquie è il secondo, perché, in verità, già Locke l’aveva intuito, ma per primo fonda la teoria della separazione dei poteri, che, non a caso, si ritrova nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 in cui si afferma che in un ordinamento, in un’associazione, in una società, nei quali non è assicurata la separazione dei poteri, non hanno costituzione. Quindi, viene talmente fatto proprio questo principio della separazione dei poteri che la Dichiarazione del 1789 che diventa il caposaldo della modernità, all’art. 16 prevede il principio della separazione dei poteri come principio cardine di ogni costituzione, l’unico modo per evitare la concentrazione dei poteri nelle mani di un unico soggetto e, quindi, il rischio che le libertà e i diritti vengano travalicati. 85 ILLLUMINISMO GIURIDICO E ILLUMINISTI NEL ‘700. Parlare di illuminismo non è propriamente corretto, perché in realtà è certamente più sensato parlare di illuministi posto che le posizioni dei vari pensatori illuminista sono talvolta differenti. Di certo possiamo distinguere posizioni più estreme ed utopiche da un lato ed altre più moderate dall’altro. Ad avere posizioni più moderate sono ad esempio i sovrani c. d illuminati che affascinati dai pareri e dalle opinioni dei philosofes cercano di mediare le posizioni più estreme con i loro interessi. Certamente i sovrani per quanto illuminati non vogliono assolutamente sovvertire completamente l’ordine costituito; piuttosto preferiscono mettere in atto delle riforme al fine di scongiurare rivoluzioni interne al paese, allo stesso tempo razionalizzare i settori d’intervento. Proprio per tal motivo intrattengono relazioni e stabiliscono fitte corrispondenze con i filosofi al fine di intervenire su determinati aspetti della vita statale, primo fra tutti l’ambito fiscale. Con il termine assolutismo illuminato dunque si suole raggruppare diverse esperienze di riforma dello stato e degli aspetti pubblici attinenti, come abbiamo detto all’economia, ma anche in riferimento agli eserciti, ed ai rapporti tra stato e religione. Sono tutti questi ambiti di intervento in cui i sovrani si pronunciano comunque in maniera autoritativa nel coro del ‘700, da qui l’espressione assolutismo. In Europa sono diversi i sovrani che si lasciano influenzare dai pensieri degli intellettuali illuministi, in Prussia Federico I e poi Federico II, in Russia Pietro il Grande e Caterina II, in Francia vi sono diversi tentativi di riforme illuminate i cui progetti vengono affidati ai ministri, ed ancora in Austria abbiamo gli imperatori d’Asburgo a partire da Maria Teresa, e a seguire poi con i figli l’imperatore Giuseppe II e poi Pietro Leopoldo. In ambito di rapporti stato- chiesa ad esempio, i filosofi auspicano una secolarizzazione di questi tipi di relazioni ma soprattutto predicano una maggiore tolleranza nei confronti di tutte le altre fedi professate da parte degli stati; Voltaire scrive in proposito un trattato sulla tolleranza religiosa ed i sovrani dal canto loro cominciano a prendere le distanze non tanto dalla chiesa o dal papato ma iniziano a guardare in maniera diversa al ruolo che gli istituti religiosi avevano ricoperto fino ad allora in alcuni settori della vita pubblica, come ad esempio nel caso dell’istruzione. E per esempio proprio in Austria, infatti si chiede non solo una riforma della materia rapporti stato chiesa che preveda una maggiore tolleranza nei confronti di altre fedi e della loro professione, ma si insiste proprio sulla necessita di laicizzare l’istruzione pubblica; a tal fine l’imperatore Giuseppe II d’Austria figlio dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, nel 1781 accondiscende alle richieste ed emana un editto di tolleranza che riconosceva anche ai non cattolici libertà di culto e riconosceva agli ebrei diritti pubblici. Qualche anno prima, ossia nel 1764, la madre, l’imperatrice Maria Teresa aveva promosso riforme importanti in ambito fiscale, varando il catasto Teresiano, con il quale per la prima volta si faceva un censimento di tutte le proprietà terriere dell’impero attraverso sistemi scientifici e criteri matematici, al fine di razionalizzare e rendere più equo il sistema fiscale. La politica del ‘700 dunque entra prepotentemente a contatto con la riflessione filosofia- giuridica, ed è proprio in questo che si distingue l’atteggiamento dei filosofi illuministi rispetto a quello che era stato l’approccio degli intellettuali del ‘600 i quali pur scrivendo dal punto di vista speculativo di politica e occupandosi di materie giuridiche non avevano forti influenze pratiche sul potere politico, forse anche per mancanza di vera e propria forza politica. Probabilmente sull’accrescimento del peso politico delle speculazioni filosofiche degli illuministi del ‘700 avrà fortemente pesato ed inciso il fatto che la stampa permette la nascita e la diffusione di giornali che contribuirono alla formazione di un’opinione pubblica. Certamente idee di riforme razionalizzanti per un sistema pubblico abbastanza complesso ed antico si diffondono rapidamente tra la gente pensante del ‘700 creando forti aspettative nei gruppi d’elite che leggono i giornali nei caffé ed in salotti perbene. 86 Nonostante i tassi d’alfabetizzazione (intesa per altro in senso di una capacità di acquisire strumenti che permettono di pensare sulla realtà politica che si sta vivendo) sono comunque notevolmente bassi il pubblico che inizia a premere per essere informata e che inizia a crearsi delle proprie idee in materia di riforme illuminate, è un pubblico d’elite, come abbiamo detto, cioè un pubblico che incide sul governo del paese e che fa parte di quel gruppo di persone poste al timone dell’apparato statale. Di certo il peso dell’opinione pubblica formatasi secondo idee illuministe e l’intreccio tra politica e filosofi illuminati hanno fortemente pesato nel processo storico che ha condotto al decennio delle riforme e poi alla rivoluzione francese. Tuttavia da qui ad arrivare ad affermare che l’illuminismo è causa della rivoluzione francese, c’è tanta differenza. Sicuramente sulla rivoluzione del 1789 e sulle cause storiche che hanno condotto al suo scoppio si è detto e si è scritto tanto ma non è certamente corretto dire che l’illuminismo è un passaggio necessario alla rivoluzione, il legame tra le idee illuministe e i fattori che hanno praticamente provocato la rivoluzione sono molto fitti ma probabilmente la rivoluzione avrebbe avuto luogo a prescinde dalla diffusione dell’illuminismo e dell’illuminismo giuridico. -Quando parliamo di illuminismo giuridico bisogno precisare che in realtà, gli illuministi non si occupano di saperi a comparti stagni e dunque non vi sono illuministi giuristi o illuministi scientifici, piuttosto gli illuministi sono intellettuali che si occupano di diversi aspetti e tra questi di questioni giuridiche. Montesquieu Degli illuministi che hanno trattato anche di diritto Charles de Secondant, barone di Montesquieu, in particolare viene sottolineato come convenzionale iniziatore della nuova cultura illuministica. In genere si suole designare l’anno della prima edizione della sua opera l’Esprit des lois, quale momento iniziale della nuova cultura illuministica. Montesquieu pubblica la sua opera più importante e monumentale, Lo spirito delle leggi (L'esprit des lois), frutto di quattordici anni di lavoro, anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento. Questa stessa opera, verrà subito dopo attaccata da gesuiti e giansenisti e messa all'indice (Index Librorum Prohibitorum) nel 1751, dopo il giudizio negativo della Sorbona. Montesquie nasce nel 1689 e muore nel 1755, al momento della pubblicazione della sua opera era già conosciuto quale magistrato e presidente della corte sovrana di Bordeaux, ma soprattutto era già famoso quale autore di una breve opera pubblicata nel 1721 ossia le Lettres Persanes. La riflessione giusfilosofica di Montesquie a differenza di quella di altri importanti filosofi, non muove i passi da utopici ed ideali contesti apolitici quale potrebbe esser definito lo stato di natura di Hobbes per esempio, piuttosto egli prende spunto, per le sue riflessioni dal contesto in cui vive. Del resto lo stesso Montesquie è autore di un romanzo epistolare, “Le Lettere Persiane”, costituito da finte lettere inviate da un immaginario viaggiatore ottomano che descrive ai suoi connazionali la situazione ed i contesti europei, in questa opera Montesquie si pone da un punto di vista esterno e capace di critica nei confronti dell’Europa in generale. Questo stesso approccio critico e super partes lo utilizza in maniera più seria e concreta nella sua altra opera, ossia Lo spirito delle leggi nella quale la riflessione viene per l’appunto stimolata dalla evidente diversità dei sistemi giuridici europei. Lo scopo che si propone Montesquie è quello di dare una sorta di giustificazione razionale a tali diversità. 87 « Una costituzione può esser tale che nessuno sia costretto a fare le cose alle quali la legge non lo obbliga, e a non fare quello che la legge permette... » In ogni Stato vi sono 2 poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo. In età moderna, siamo all’incirca qualche anno prima del 1748, anno della pubblicazione appunto, il potere giudiziario che consiste nel potere di fare applicare le leggi, non viene visto come un potere a se stante esercitato da un corpo designato, piuttosto l’attuale potere giudiziale altro non è che la semplice bocca delle leggi che devono essere applicate a prescindere dall’esistenza di un corpo designato al controllo del rispetto della legge. Montesquie dunque pone in una situazione di centralità il potere legislativo ed in una condizione ancillare l’attuale potere giudiziario che per altro non definisce un potere. Del resto, l’attività principale dei giudici era stata dal medioevo sino a quel momento al centro dell’ordinamento ed aveva avuto una funzione importantissima e necessaria come attività d’interpretazione. Ovviamente ora, in età moderna, in un epoca in cui la legge ed il sovrano assumono un ruolo centrale, si ricorre ad un’ asservimento della funzione giudiziale al potere legislativo. In forza a quest’ultimo, il popolo, o la nobiltà, hanno il diritto di fare le leggi o far abrogare quelle fatte dalla controparte. In forza al potere esecutivo,il monarca, fa eseguire rapidamente il potere legislativo e amministra la giustizia. "Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente": partendo da questa considerazione Montesquieu traccia la teoria della separazione dei poteri, analizzando in particolare il modello costituzionale inglese, e sviluppando in modo nuovo le tesi di Locke. Tale teoria, divenne, grazie all'opera di Montesquieu, una delle pietre miliari di tutte le costituzioni degli stati sorti dopo il 1789. Montesquieu nei suoi scritti fa notare ai lettori i casi in cui si calpesta la libertà dei cittadini; il potere legislativo e quello esecutivo non possono mai essere accomunati sotto un’unica persona o corpo di magistratura, perché in tale caso potrebbe succedere che il monarca oppure il senato facciano leggi tiranniche e le eseguano di conseguenza tirannicamente. Neanche il potere giudiziario, anche se rifiuta l’idea di definirlo un potere, può essere unito agli altri due poteri: i magistrati non possono essere contemporaneamente legislatori e coloro che applicano – in qualità di magistrati – le leggi. Così, ovviamente i legislatori non possono essere contemporaneamente giudici: avrebbero un immenso potere che minaccerebbe la libertà dei cittadini. « Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati. » Montesquieu sostiene la validità del sistema giudiziario francese, affidato ai parlamenti. Un'unica classe sociale, la nobiltà di Toga, detiene questo potere attraverso la venalità delle cariche che ne garantisce l'autonomia. Montesquieu riflette inoltre sui rappresentanti del popolo. «Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da sé medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da sé». Conviene quindi che gli abitanti si scelgano un rappresentante, capace di discutere gli affari, che possa dare voce al popolo nell’ambito del potere legislativo. La nazione è quindi espressa dai suoi rappresentanti, cittadini più interessati alla cosa pubblica, che devono informare sui bisogni dello stato, sugli abusi che si riscontrano e sui possibili rimedi. Sicuramente sarebbe molto più democratico dare la parola ad ogni cittadino, ma si incapperebbe in lungaggini e tutta la forza della nazione rischierebbe di essere arrestata per il capriccio di un singolo. 90 Inoltre è necessario che i rappresentanti siano eletti periodicamente e che ogni cittadino nei vari distretti abbia il diritto di esprimere il suo voto per eleggere il deputato. Montesquieu però prefigura una limitazione del diritto di voto, nega tale diritto a chi non è proprietario o in una situazione assimilabile a quella di proprietario, dotato di averi, quindi si basa sua una marcata differenziazione di stratificazione sociale. Tutto questo sembra limitativo, ma in seguito lo sviluppo del reddito reso possibile dalla società industriale, dai commerci, dall'artigianato imprenditoriale, farà aumentare il numero di cittadini rappresentanti interessati alla stabilità dello stato, permettendo gradualmente l'estensione del voto sino al suffragio universale. Così Montesquieu spiega la divisione dei poteri e definisce le rispettive sfere di attribuzioni: « Il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie deliberazioni a parte, e vedute e interessi distinti. Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne restano che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte del corpo legislativo composta di nobili è adattissima a produrre questo effetto.» Dunque auspica ad un regime rappresentativo che affidasse il potere legislativo congiuntamente ad una camera elettiva, quella dei rappresentanti del popolo, e a una seconda Camera alta, espressione della nobiltà. Secondo Montesquieu quindi è necessario che il potere legislativo venga affidato ad un corpo rappresentativo e soprattutto ad un corpo che sia necessariamente collegiale in modo tale che le decisioni legislative siano il frutto di riflessioni, discussioni e dibattiti su questioni di interesse generale, così che tutti gli interessi di tutti i cittadini possano essere presi in considerazione e soppesati dalle camere deputate all’esercizio del potere legislativo. Certo l’iter formativo di una legge in tal modo diviene piuttosto lungo e complesso, ma una legge per altro non può essere il frutto di una breve e non ponderata decisione, di contro secondo il filosofo illuminista: « Il potere esecutivo deve essere nelle mani d'un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da parecchi anziché da uno solo. Infatti, se non vi fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe più libertà, perché i due poteri sarebbero uniti, le stesse persone avendo talvolta parte, e sempre potendola avere, nell'uno e nell'altro. Se il corpo legislativo rimanesse per un tempo considerevole senza riunirsi, non vi sarebbe più libertà. Infatti vi si verificherebbe l'una cosa o l'altra: o non vi sarebbero più risoluzioni legislative, e lo Stato cadrebbe nell'anarchia; o queste risoluzioni verrebbero prese dal potere esecutivo, il quale diventerebbe assoluto. » Dunque la necessità di una applicazione rapida ed istantanea permette rende possibile l’affidamento del potere esecutivo ad un sol uomo così che non si perda tempo in discussioni e dibattiti che per altro hanno avuto già luogo in sede di formazione della legge che ora va rapidamente applicata. Successivamente aggiunge a proposito del rapporto tra i due poteri fondamentali che: « Il potere esecutivo, come dicemmo, deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà d'impedire di spogliarsi delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto. Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna che vi partecipi con la sua facoltà d'impedire. La causa del cambiamento del governo a Roma fu che il senato, il quale aveva una parte del potere esecutivo, e i magistrati, i quali avevano l'altra, non avevano, come il popolo, la facoltà d'impedire. Ecco dunque la costituzione fondamentale del governo di cui stiamo parlando. Il corpo legislativo essendo composto di due parti, l'una terrà legata l'altra con la mutua facoltà d'impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo. Questi tre poteri 91 dovrebbero rimanere in stato di riposo, o di inazione. Ma siccome, per il necessario movimento delle cose, sono costretti ad andare avanti, saranno costretti ad andare avanti di concerto. » Possiamo dire, in definitiva che lo studio che il giurista lascia delle istituzioni di popoli diversi e lontani nel tempo e nello spazio ha come intento fondamentale quello di identificare i fini in base ai quali gli uomini si organizzano in forme politiche e sociali originali. Esiste per l’autore un senso per ogni istituzione. Montesquieu vede lo stato come un organismo che tende alla propria autoconservazione, nel quale le leggi riescono a mediare tra le diverse tendenze individuali in vista del perseguimento di un obiettivo comune. L'arte di creare una società e di organizzarla compiutamente è per Montesquieu l’arte più alta e necessaria, in quanto da essa dipende il benessere necessario allo sviluppo di tutte le altre arti. Cesare Beccaria. Cesare Bonesana, marchese di Beccaria (Milano, 15 marzo 1738 – Milano, 28 novembre 1794) è stato un giurista, filosofo, economista, letterato italiano, figura di spicco dell'Illuminismo, legato agli ambienti intellettuali milanesi. Di nobile e ricca famiglia nacque a Milano figlio di Giovanni Saverio di Francesco, e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738, studiò a Parma, poi a Pavia dove si laureò nel 1758. Beccaria viaggiò in Europa, venendo accolto con entusiasmo soprattutto a Parigi Il suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu. Fece parte del cenacolo dei fratelli Pietro ed Alessandro Verri, collaborò alla rivista Il Caffè e contribuì a creare l'Accademia dei Pugni nel 1762, fondata secondo un suo concetto della educazione dei giovani mirante a rispettare i suoi concetti di legalità. Beccaria subì inoltre gli influssi delle letture di Locke, Helvetius e, come gran parte degli illuministi milanesi, del sensismo di Condillac. Partendo dalla teoria contrattualistica, derivata da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale teso a salvaguardare i diritti degli individui, garantendo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque violerebbe un diritto individuale). Beccaria rispetto a Montesquieu vive in un contesto spazio temporale differente, egli vive a Milano (anche se si sposta frequentemente) e fa parte di una generazione successiva a quella di cui fa parte Montesquieu, questa considerazione deve farci riflettere sulla circostanza secondo cui i due intellettuali come del resto tutti gli altri illuministi affrontano le loro trattazioni basandosi su contesti generazionali diversi, tuttavia Beccaria è un grande conoscitore delle opere del barone e nelle sue trattazioni lo fa capire e lo dice talvolta esplicitamente. L’opera più importante di Beccaria, Dei delitti e delle pene, viene considerata tra le più importanti e innovative nella storia della modernità giuridico. Pubblicata nel 1764, quindi circa 15 anni dopo la pubblicazione dello Spirito delle leggi di Montesquie, L'opera venne messa all'Indice dei libri proibiti nel 1767. Cesare Beccaria ma come del resto tutti gli intellettuali del ‘700 si trovano d’accordo a proposito delle esigenze di legalità, nel predicare la necessità di riformare il sistema della giustizia ed in generale il sistema delle fonti eccessivamente ampio complesso e a dir poco in conoscibile. Già Pietro Verri suo amico e figlio del grande giurista e senatore Gabriele Verri, aveva maturato un’aspra avversione per quel sistema, per la intramontabile fortuna della codificazione giustinianeae per al altitudine eccessiva del potere discrezionale dei giuristi che egli definisce una casta potente. 92 Circa 20 anni dopo, nel 1776 nel gran ducato di Toscana Pietro Leopoldo vara un corpo di norme che prendendo spunto dagli scritti del milanese Beccaria, introducono una serie di innovazioni in campo penale fra cui l’abolizione della pena di morte. Gli enciclopedisti e Rosseau. Una fase significativa della cultura illuministica fu segnata dalla grande impresa dell’Enciclopedia. Diretta da due intellettuali di diversa formazione Denis Diderot e D’Alembert, fu pubblicata nell’arco di un quindicennio a partire dal 1750. All’Enciclopedia aveva anche collaborato un autore di origine ginevrina, Jean Jacques Rousseau. Jean-Jacques Rousseau (Ginevra, 28 giugno 1712 – Ermenonville, 2 luglio 1778) è stato uno scrittore, filosofo e musicista svizzero. Le idee socio-politiche di Rousseau influenzarono la Rivoluzione Francese, lo sviluppo delle teorie socialiste, e la crescita del nazionalismo. La sua eredità di pensatore radicale e rivoluzionario è probabilmente espressa al meglio nella sua più celebre frase, contenuta nel Contratto sociale: "L'uomo è nato libero, ma ovunque è in catene". Le sue teorie ebbero anche notevole influenza sul successivo Romanticismo. L'opera più importante di Rousseau, probabilmente, è il Contratto sociale, in cui vengono proposte le basi per un ordine politico legittimo. Divenne uno dei titoli più influenti nella successiva teoria politica europea. Nei contenuti, proseguiva alcune idee già citate in un lavoro precedente, l'articolo sull'"economia politica" con cui Rousseau aveva contribuito all'Enciclopedia di Diderot. Rousseau affermava che lo stato di natura, degenerato in una condizione ferina priva di legge o morale, costringeva l'umanità ad adottare delle istituzioni o a perire. Nella fase degenerata dello stato di natura, l'uomo è soggetto a una competizione incessante coi suoi simili e, al contempo, a diventarne progressivamente dipendente. Una duplice tensione che minaccia da un lato la sua sopravvivenza ma dall’altro la sua libertà. Secondo Rousseau, unendosi grazie al contratto sociale e abbandonando la loro pretesa di diritti naturali, gli individui possono conservare se stessi e al contempo restare liberi. Questo perché, sottomettendosi all'autorità della volontà generale del popolo in quanto entità unitaria, gli individui evitano di diventare subordinati alla volontà di altri individui; inoltre, in questo modo, ci si assicura che obbediranno alle leggi di cui saranno, essi stessi, autori collettivi. Rousseau sostiene dunque che la sovranità deve essere esclusivamente nelle mani del popolo, ma distingue nettamente tra sovranità e governo, tra potere legislativo e potere esecutivo. Solo quest’ultimo deve essere affidato al governo che è incaricato di eseguire e far rispettare la volontà generale, ed è comunque composto da un piccolo gruppo di cittadini, definiti "commissari del popolo". Rousseau si opponeva fortemente all'idea che il popolo potesse esercitare la propria sovranità tramite un'assemblea rappresentativa. Piuttosto, gli stessi cittadini dovevano essere i diretti autori delle leggi, egli è dunque un forte sostenitore di una concezione del potere basato sul principio della democrazia diretta e sul suffraggio universale, dunque una sovranità popolare nel suo significato più pieno e rigoroso. Tuttavia egli afferma che le decisioni popolari vanno prese secondo il principio di maggioranza, graduandone il livello sulla base dell’importanza della materia ma senza mai esigere la regola dell’unanimità. C'è chi ha dedotto che, di conseguenza, lo Stato ideale di Rousseau non possa essere realizzato in società di grandi dimensioni, ma anzi il modello politico proposto era adottabile al più a stati di una sola città. La maggior parte delle dispute successive sull'opera di Rousseau riguardano il disaccordo sulla sua affermazione che i cittadini siano liberi in quanto costretti a obbedire alla volontà generale. Voltaire. François-Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire (Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30 maggio 1778), è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo e poeta francese. Il nome di Voltaire è indissolubilmente legato al movimento culturale dell'Illuminismo, di cui fu uno degli animatori e 95 degli esponenti principali. Voltaire pose al centro della sua attività di scrittore la denuncia delle ingiustizie e delle storture generate dall’ordinamento legale del tempo. Fece uso delle armi appuntite della storia della filosofia e della satira per criticare aspramente, la pretesa di imporre una fede religiosa a tutti i sudditi e di farla rispettare anche con gli strumenti cogenti dello stato. Si batté contro le terribili sanzioni penali prescritte nei confronti degli eretici, critico aspramente i procedimenti dell’inquisizione e la disciplina esclusivamente canonistica del matrimonio da cui deriva il tanto contestato divieto di divorzio. Fu un accanito oppositore del regime privilegiato di cui godevano esponenti del clero e della nobiltà feudale, altrettanto dura fu la condanna delle violazioni della libertà di pensiero e di espressione che l’istituto della censura dei libri metteva in atto limitando fortemente la libertà di stampa. In generale Voltaire criticò la pluralità delle consuetudini e l’arbitrarietà delle troppe regole in vigore, critico pure la pluralità dei regimi giuridici diversi per le varie classi sociali e differenti di paese in paese, auspicava nell’abrogazione di tutte le norme obsolete e contraddittorie affinché venissero sostituite con altre. Si fece promotore di istanze ideologiche che facevano leva sul principio della libertà originaria dell’uomo e che conducevano all’esaltazione della libertà economica e dell’iniziativa personale. Tuttavia non fu mai sostenitore di forme di governo rappresentative, piuttosto mostrò in vari modi la sua posizione pro- assolutistica, auspicava in riforme legittimate dalle leggi del sovrano assoluto. Illuministi napoletani e Filangieri. Accanto a Milano il centro in cui fiorirono idee e istanze illuministiche fu Napoli, dove si distinsero diversi pensatori illuminati, quali Genovesi, Galiani e Pagano il quale ebbe un ruolo centrale nella rivoluzione partenopea del 1799. Ma ancor più fama ebbe Gaetano Filangieri il quale tra il 1780 ed il 1788 pubblico la Scienza della legislazione, un opera composta da otto volumi. Ed anche se il progetto rimase incompleto, Filangieri nella sua opera delinea un vasto programma di riforme delle leggi civili e penali, tra le quali annoveriamo l’abolizione del fedecommesso, la proporzionalità dei tributi, l’istituzione della giuria penale e la riduzione della manomorta ecclesiastica. Filangieri resta comunque coerente con l’impostazione assolutistica, anche se contesta i privilegi nobiliari e sembra auspicare una carta costituzionale. Bentham. Jeremy Bentham, (1748- 1832) è l’esponente più significativo dell’illuminismo giuridico inglese. Esponente e promotore dell’utilitarismo in tema di giustizia viene ricordato per la celebre frase secondo cui la misura del diritto e del torto deve essere la felicità massima per il massimo numero di persone. Bentham critica l’intera impalcatura del Common Law: condanna il diritto fatto dai giudici, l’assenza dei codici sistematici, il meccanismo delle finzioni legali, il sistema penale e la stessa giuria, difende invece con grande convinzione l’idea della codificazione, disegnando sinteticamente l’intero sistema legale che dovrebbe sostituire le regole esistenti. Kant. Ad Immanuel Kant (1724- 1806) si deve una più compita articolazione della distinzione tra diritto e morale, già per altro esplicitata da Thomasius. Kant ritiene che il dovere morale è tale per se stesso e a differenza del dovere giuridico non ha necessita di altri elementi di costrizione perché divenga valido e cogente. Unico diritto innato che Kant individua è quello che rende possibile la libertà di ogni uomo senza 96 del resto che l’esercizio di questa limiti la libertà di ogni altro uomo. Aggiunge poi che compito primario dello stato è proprio quello di garantire a ciascuno la sua libertà mediante la legge, piuttosto che la massima felicità auspicata dagli utilitaristi fra i quali Bentham. Inoltre Kant si avvicina a Locke nel ritenere che la transizione dallo stato di natura a quello civile sia il mezzo per realizzare i principi del diritto naturale, ma si distacca da esso allorquando Locke definisce tale transizione come il frutto di un mero calcolo di utilità, piuttosto il filosofo tedesco è convinto che associarsi in comunità statali sia per l’uomo un dovere. Infine Kant può definirsi come uno tra i primi sostenitori e promotori del cosmopolitismo, egli credeva che si potesse sostituire il diritto alla forza nei rapporti internazionali, ed inoltre arriva a configurare un ordinamento sopranazionale e sovrastatale che abbracci l’intera umanità, garantendo la possibilità della pace perpetua. Illuministi Francesi. Altri esponenti dell’illuminismo auspicarono riforme dirette a modificare il sistema di Ancien Regime. -Fra loro ricordiamo Helvetius il quale sostenne il principio utilitaristico della massima felicità per il maggior numero di uomini, obbiettivo che a dire dell’illuminista poteva raggiungersi solo attraverso lo strumento di una legislazione che obblighi gli individui a comportarsi in modo virtuoso. -Spicca inoltre Morelly che denunciò aspramente la proprietà privata intesa come causa dell’abbandono del felice stato di natura originario degli uomini; e proponeva un utopia rinnovatrice, che si sarebbe realizzata abolendo la proprietà privata individuale e imponendo una rigida disciplina di eguaglianza. –Altrettanto critico nei confronti della proprietà privata è l’abate Mably, ma questo a differenza del Morelly non crede possibile una restaurazione dello status originario, piuttosto auspica nella predisposizione di rimedi che limitino i danni provocati dalla proprietà privata. Il ‘700: L’Età DELLE RIFORME IN EUROPA. Come abbiamo visto alcune delle dottrine giusnaturalistiche furono successivamente recepite ed elaborate dagli intellettuali illuministi, la cui influenza sul potere politico e sui sovrani c. d illuminati fu abbondantemente evidente soprattutto verso la seconda metà del ‘700. Nonostante appaia inconcepibile come le medesime istanze illuministe influenzarono le riforme politiche in senso assolutistico un po’ in tutti gli stati Europei del ‘700 e contestualmente condurranno alla rivoluzione della fine dello stesso secolo, bisogna osservare come sia l’assolutismo che la rivoluzione abbiano in comune l’esigenza di attuare una razionalizzazione del sistema politico e giuridico attraverso gli strumenti del diritto. Il ‘700 in generale è il secolo delle riforme ma solo nella seconda metà del ‘700 la legislazione assunse il ruolo di strumento privilegiato per una trasformazione in profondità del diritto e soprattutto delle istituzioni, sulla base ovviamente delle istanze giusnaturalistiche e illuministiche. 97
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved