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Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi - Ginsborg, Sintesi del corso di Storia

Riassunto integrale dell'esame di storia contemporanea integrato da appunti personali; il libro di riferimento utilizzato dal professore è "storia d'italia dal dopoguerra a oggi" di Paul Ginsborg

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

In vendita dal 22/03/2014

S.a.r.a92
S.a.r.a92 🇮🇹

4.2

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Scarica Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi - Ginsborg e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! STORIA D’ITALIA DAL DOPOGUERRA AD OGGI di Paul Ginsborg 1. POLITICA E GUERRA, 43­44 La decisione di Mussolini accanto a Hitler si dimostrò fatale x il fascismo italiano. È difficile immaginare se le  pressioni interne avrebbero portato alla caduta del regime nel caso in cui egli fosse rimasto estraneo alla guerra.  Il duce, comunque, era troppo compromesso dalla “brutale amicizia” con Hitler e troppo bramoso del bottino di  guerra x opporsi all’intervento. Un esercito male armato, illuso dalla promessa di una guerra breve e vittoriosa, si  ritrovò a combattere una battaglia che, secondo Mussolini, era la lotta delle nazioni povere e popolose contro  quelle che detenevano il monopolio di tutte le ricchezze e la terra. I disastri si susseguirono. Le truppe italiane furono umiliate in Grecia e in Africa e le sorti della guerra volsero  lentamente in favore degli Alleati, soprattutto dopo la resa tedesca a Stalingrado e la vittoria degli inglesi a El  Alamein. In patria il consenso al regime, già in declino, si sgretolò in seguito ai bombardamenti Alleati, alla mancanza di  cibo, all’impennata dei prezzi. I primi a manifestare il loro malcontento furono gli operai. Il consenso al fascismo diminuiva di giorno in giorno, anche se nessuna classe sociale manifestò il suo  scontento in maniera così chiara e massiccia (rispetto agli scioperi operai). Il 10 luglio 43 gli Alleati sbarcarono in  Sicilia ma Mussolini non si ritirò dalla guerra. Fu a questo punto che il re decise che la monarchia e lo stato italiano potevano essere salvati solo recidendo  ogni legame col fascismo. Egli sapeva di dover agire x impedire che la dinastia fosse esautorata dagli Alleati e  spazzata via dalle pressioni popolari. Fu così che complottò x ottenere le dimissioni del duce, dopo che il Gran  Consiglio del Fascismo approvò una mozione critica nei suoi confronti: il 25 luglio, quando Mussolini si recò  all’udienza settimanale col re, il sovrano gli chiese le dimissioni e gli disse che aveva già fatto dei passi x  sostituirlo con Badoglio. Non appena uscì, Mussolini fu arrestato: 21 anni dopo la marcia su Roma veniva  cacciato dallo stesso re che inizialmente lo aveva chiamato al potere. Il periodo confuso e drammatico che seguì la caduta di Mussolini, dal 25 luglio all’8 settembre, è ricordato come  “i 45 giorni”. Fu allora che il comportamento del re divenne chiaro: il fascismo veniva distrutto da un colpo di  stato dall’alto che preservava il predominio e la libertà di azione dei tradizionali gruppi dirigenti della società  italiana. I 45 giorni ebbero inizio con una serie di grandiose manifestazioni popolari che festeggiavano la fine del regime:  gli stemmi fascisti furono divelti e le scritte cancellate da muri ed edifici, mentre le sedi fasciste vennero prese  d’assalto e bruciate. A queste manifestazioni rispose una repressione brutale. Il re e Badoglio erano determinati a mantenere una  dittatura militare, ma al di là di questo non sapevano che fare: da una parte volevano la pace x ovviare ogni  possibilità di insurrezione, dall’altra temevano la Germania; il loro intento fu allora quello di temporeggiare. Il difficile intermezzo dei 45 giorni finì il 3 settembre 43 con la firma dell’armistizio segreto tra Italia e Alleati. Le  clausole erano molto dure: l’Italia doveva arrendersi senza condizioni, non veniva accolta tra gli Alleati e le  veniva riconosciuto solo l’ambiguo status di cobelligerante. Mentre il re esitava sul da farsi però le truppe tedesche si erano riversate in Italia durante tutto il mese di agosto. Nonostante la richiesta di più tempo da parte del re e del governo, l’8 settembre Badoglio fu costretto ad  annunciare dagli alleati, in un comunicato alla radio la firma dell’armistizio. Ordinò alle forze armate italiane di  cessare l’ostilità contro gli Alleati, ma non impartì ordini precisi. La famiglia reale e Badoglio abbandonarono la  capitale e si rifugiarono a Brindisi. Anche se è arduo considerare la fuga a Brindisi come un atto onorevole, essa  tuttavia assolse allo scopo di mantenere intatta l’integrità e l’autorità della figura reale, aprendo la strada alla  creazione del Regno del Sud. Mentre il re fuggiva l’esercito di dissolveva. I soldati abbandonarono le caserme cercando di raggiungere le  proprie case prima che i tedeschi li bloccassero. Malgrado ciò più di mezzo milione furono fatti prigionieri e  deportati. Nelle principali città non si ebbe una lotta organizzata contro l’occupazione tedesca, ma un certo numero di  individui isolati cominciò a prepararsi alla lunga battaglia ritenuta ormai imminente: con l’arrivo dei nazisti e col  rifiuto di sottomettersi agli occupanti aveva inizio la prima fase della guerra partigiana. A metà settembre l’Italia era tagliata in 2: a sud di Napoli vi erano gli Alleati e il re (che il 30 ottobre si decise a  dichiarare guerra alla Germania), a nord vi erano i tedeschi (i quali erano riusciti a liberare Mussolini, che posero  alla guida di una repubblica fantoccio con capitale Salò, dove il duce aveva più possibilità di sopravvivere che  non nelle grandi città operaie. Erano i tedeschi a dare gli ordini, e tri i prime decreti vi fu quello x l’arresto e la  deportazione dei campi di concentramento degli ebrei italiani.  Lo storico Quazza ha ripartito l’antifascismo in 3 categorie: ­ l’antifascismo nazionale di coloro che si erano sempre opposti a Mussolini (dominato dai comunisti).  I comunisti erano il Partito politico che più aveva sofferto sotto il fascismo e che aveva resisteito di più.  Molti dei suoi dirigenti (Gramsci, Terracini, Pajetta) erano stati condannati a lunghe pene detentive dal  Tribunale speciale fascista. Nei primi giorni della Resistenza le formazioni comuniste, le brigate Garibaldi,  comprendevano oltre il 70% dei partigiani. Seconde x forza numerica erano le brigate “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione. Questa  organizzazione, fondata nel 42, riuniva gruppi d’antifascisti radicali e democratici, compreso quel  “Giustizia e Libertà” fondato nel 29. Il PdA era composto inizialmente da personalità dei ceti professionali,  molti dei quali, come La Malfa e Parri, sarebbero divenute figure di primo piano nel dopoguerra. I socialisti (Psiup), sotto la direzione di Nenni, era caratterizzati da un elevato livello di dibattito teorico  ma di una stentata partecipazione attiva ai primi passi della Resistenza. Gli altri 2 principali partiti antifascisti (Partito liberale e DC) diedero un contributo quasi irrilevante nei  primi mesi della Resistenza. Questi partiti, il 9 settembre, formarono a Roma il Comitato di liberazione nazionale (Cln) e durante  l’autunno vennero creati comitati clandestini in tutte le regioni occupate dai tedeschi. Nel 44 il Cln di  Roma attibuì al comitato di Milano poteri straordinari di governo x il nord: da questo momento il comitato  milanese, che divenne l’organo supremo della Resistenza, assunse il nome di Comitato di liberazione  nazionale Alta Italia (Clnai). ­ la base di massa che derivava la sua forza dalla spontanea reazione di molti giovani (la Resistenza  spontanea). Alcuni partigiani furono consapevoli dell’importanza storica della loro scelta; altri,  giovanissimi, volevano sfuggire alla chiamata alle armi della repubblica di Salò. Molti inoltre erano  prigioni di guerra fuggiti e anche operai. ­ l’antifascismo trasformista degli ex fascisti La società italiana nei primi anni 40 La penisola era diventata teatro di guerra, sia tra le truppe d’invasione che tra gli stessi italiani. Mentre l’autorità  di stato di dissolveva, 2 eserciti di occupazione e 3 governi italiani (la repubblica di Mussolini, il Clnai, il Regno  del Sud) chiedevano agli italiani obbedienza e fedeltà. In questa situazione tutti i cittadini erano portati ad  affrontare delle scelte sul piano morale e politico, dai cui poteva dipendere la loro vita e quella dei propri familiari. Capitale e lavoro nel Nord, 43­44 In paese in cui il 40% della popolazione attiva era impegnata nel settore agricolo, il cuore dell’Italia industriale  era circoscritto al triangolo Torino­Milano­Genova. Si parla del caso torinese. Il peso della classe operaia a Torino era evidente, così come lo era il peso economico della Fiat. terra di proprietari assenteisti, e i primi mafiosi furono coloro che offrirono protezione armata contro qualsiasi  minaccia al potere dei gabellotti. La mafia era anche uno strumento di mobilità sociale, prosperò nelle aree agricole caratterizzate da un’operosa  classe media: diventare mafioso era un modo di acquisire status, potere e ricchezza. Nell’assenza di una  effettiva autorità di stato era necessario x tutte le classi della società avere una qualche protezione. Durante il ventennio fascista le masse rurali del Mezzogiorno, allo stesso modo di quelle del resto d’Italia,  pativano x una tassazione eccessiva, x la caduta dei prezzi agricoli, x il sistema degli ammassi e x la “battaglia  del grano”. La loro maggiore preoccupazione era comunque rappresentata dalla progressiva restrizione delle  opportunità di espatrio, compromessa dalle leggi americane sull’immigrazione e dalla crisi economica mondiale. Nei primi anni del regime, Mussolini, intollerante di qualsiasi altra forma di autorità eccetto la propria, cercò di  annientare la mafia in Sicilia. Il prefetto di Palermo organizzò una serie di retate ma le strutture profonde della  società siciliana rimasero immodificate. Nel sud la dichiarazione di guerra del 40 allentò temporaneamente la pressione della popolazione sulla terra.  Circa un milione di uomini fu richiamato. Con il 43 però la situazione delle campagne meridionali era divenuta  critica x altre ragioni. La quantità di grano lasciata ai contadini x consumo personale era diminuita, la carenza di  manodopera aveva comportato un aumento dei salari che però veniva eroso dall’inflazione e dalla diffusione del  mercato nero, parecchi beni di prima necessità non si trovavano, le proteste diventavano più frequenti. Inoltre, in Sicilia, gli Alleati mostrarono di avere amici alquanto sinistri: membri influenti della mafia italo­ americana usarono l’Amgot come mezzo x ritornare nelle loro antiche zone d’influenza, consacrando  semplicemente la realtà sociale esistente basata sul più crudo sfruttamento della miseria contadina. Napoli  Napoli era la più grande città del meridione, dove esisteva un largo strato di famiglie immiserite, una rilevante  quantità di impiegati e piccoli funzionari statali e un’imponente massa di disoccupati o di poveri sottoccupati. Non  c’era quasi l’industria e i pochi posti di lavoro disponibili si concentravano nel settore dei servizi. Nel settembre 43 , dopo l’armistizio, i tedeschi occuparono x breve tempo la città, ordinando immediatamente a  tutti gli uomini tra i 18 e i 33 di presentarsi al servizio di lavoro obbligatorio, iniziativa che però dovette scontrarsi  con un più che esiguo seguito. L’occupazione alleata durò dal settembre 43 al dicembre 44 e fu un disastro assoluto. Violenti bombardamenti  avevano creato morti e senzatetto, oltre che al collasso della rete idrica e fognaria che lasciò la città quasi senza  acqua. La maggior parte delle donne più povere fu costretta alla prostituzione, mentre gravi epidemie di tifo e  malattie veneree si propagarono tra civili e militari. 2. RESISTENZA E LIBERAZIONE Le drammatiche vicende della guerra sul suolo italiano avrebbero mostrato che 3 forze si sarebbero contese il  dominio del paese (Alleati, comunisti, DC ) e che le rispettive strategie avrebbero determinato in larga misura il  futuro assetto politico della penisola. Gli Alleati Dall’estate 43 gli Alleati, e gli inglesi in particolare, rivendicarono x se l’Italia. Il controllo del Mediterraneo era un  obbiettivo strategico tradizionale dell’Inghilterra e gli americani accondiscesero al desiderio britannico di avere un  ruolo preponderante in quell’area. I russi furono rapidamente esclusi da ogni controllo diretti sui destini della  penisola. Quando Churchill e Stalin si incontrarono al Cremlino nell’ottobre 44 si divisero l’Europa tra loro: gli Alleati in  occidente, i russi in oriente. Churchill era stato in passato u ammiratore di Mussolini e aveva elogiato, pesino dopo il 45, il modo in cui questi  aveva salvato il popolo italiano dal bolscevismo a cui si stava abbandonando nel 19; si era inoltre rammaricato  che il duce avesse scelto l’alleato sbagliato. La principale preoccupazione di Churchill era di difendere ciò che  chiamava i tradizionali rapporti di proprietà dalla minaccia del comunismo. Egli voleva che il re rimanesse al suo  posto, o che vi restasse perlomeno il figlio Uberto; dava poca importanza all’antifascismo, non era interessato  allo sradicamento del fascismo dall’apparato statale italiano: il re e Badoglio costituivano la migliore garanzia di  continuità dell’ordinamento tradizionale ed anche i più compiacenti interlocutori che gli inglesi potessero trovare. I limiti della politica britannica furono chiaramente evidenziati dal diverso atteggiamento americano. Sui principali  problemi la loro posizione era di gran lunga meno prevenuta di quella inglese. Essi rifiutarono di considerare il re  e Badoglio come i soli rappresentanti all’interno del popolo italiano e trattarono  gli antifascisti del Cln con una  certa considerazione, ma soprattutto compresero che la rapida crescita dei comunisti italiani, che irritava tanto  Churchill, non andava del tutto separata dalle disperate condizioni di vita che prevalevano nella nazione. Dopo che Churchill e Roosevelt si incontrarono nel settembre 44, l’amministrazione americana prese una serie  di iniziative unilaterali: aprì una linea di credito con l’Italia x coprire le spese delle truppe americane, cercò di  migliorare l’approvvigionamento alimentare della penisola. Mentre gli Alleati avanzavano lentamente verso il nord, un problema cominciò a preoccuparli: quello della  Resistenza. All’inizio essi avevano prestato scarsa attenzione al fenomeno, invitando i partigiani a limitarsi ad atti  di sabotaggio. Ma quando il numero delle brigate partigiane aumentò e divenne chiaro il ruolo sempre più  importante svolto dai comunisti, gli Alleati, soprattutto inglesi, si impensierirono: essa rappresentava infatti  un’esplicita minaccia all’egemonia conservatrice che i britannici intendevano esercitare. I contemporanei avvenimenti in Jugoslavia e Grecia apparivano altrettanto poco rassicuranti. La strategia alleata  nei confronti della Resistenza era dunque quella di minimizzarne il ruolo politico e di non consentirle in alcun  modo iniziative non controllabili. I comunisti Nel marzo 44 Togliatti, capo del Partito comunista, ritornò in Italia da Mosca (si era rifugiato in Russia dopo la  vittoria del fascismo). Appena giunto a Salerno Togliatti delineo la strategia da adottare x il Partito: i comunisti  dovevano sospendere la loro ostilità più volte manifestata verso la corona. Essi dovevano convincere tutte le  forze antifaciste ad entrare immediatamente nel governo monarchico che controllava l’Italia a sud di Salerno.  Entrare nel governo era il primo gradino verso la realizzazione dell’unità nazionale contro nazisti e fascisti. Lo  scopo dei comunisti non doveva essere una rivoluzione socialista, ma la liberazione d’Italia. Non doveva però  permettere una semplice restaurazione del regime parlamentare  sul modello prefascista, ma doveva lottare x  una “democrazia progressiva” (forma di stato che consentiva alle masse popolari di partecipare alla vita e alla  gestione politica del paese in modo più attivo e diretto di quanto succedesse nelle democrazie parlamentari). La classe operaia sarebbe divenuta la figura politica trainante del paese e avrebbe condotto a termine una serie  di fondamentali riforme. X raggiungere la democrazia progressiva era necessaria una vasta coalizione di forze  sociali e politiche , e Togliatti insistette affinché l’unità degli anni di guerra venisse protratta anche durante il  periodo della ricostruzione. La “svolta di Salerno2 era in realtà largamente allineata con le tesi adottate dal settimo congresso del Comintern  del 35: esso aveva proposto la creazione di governi di fronte popolare , basati sull’alleanza di tutti i partiti  democratici x combattere la minaccia fascista. La strategia del Pci era inoltre commisurata alle necessità belliche russe: essi avevano bisogno che gli Alleati  aprissero un nuovo fronte in Francia, alleggerendo così la pressione tedesca sull’Europa occidentale. Essi  volevano quindi evitare un inasprimento dei rapporti tra le grandi potenze, volontà ribadita anche con il  riconoscimento del governo Badoglio e con l’attribuzione dell’Italia alla sfera d’influenza britannica. Inoltre la dirigenza comunista riteneva innanzitutto che la possibilità di una rivoluzione sociale fosse da escludere  con fermezza con la presenza in Italia dell’esercito alleato. Al posto di una rivoluzione impossibile Togliatti enfatizzò la necessità di trasformare il Pci da un piccolo gruppo di  avanguardia in un Partito di massa radicato nella società civile. Il Pci evitò quindi qualsiasi tentazione  estremistica e rifiutò di guidare la classe operaia verso un’impossibile rivoluzione  che avrebbe lacerato il paese  e sarebbe stata brutalmente repressa dalle truppe alleate, oltre al fatto che avrebbe notevolmente ritardato la  riconquista dell’indipendenza nazionale. L’insistenza comunista sull’unità nazionale si dimostrò inoltre di fondamentale aiuto x la lotta partigiana. Nel  breve periodo, la decisione di Togliatti di entrare nel governo Badoglio pose fine all’isolamento politico e  all’impotenza delle forze antifasciste del Cln. La sua strategia assicurò al Pci la legalità, creò le condizioni in cui  poté essere costituito il Partito di massa, permise ai comunisti di occupare durante gli anni di guerra alcuni  ministeri­chiave come quello dell’Agricoltura. Questi risultati tuttavia furono ottenuti a un prezzo abbastanza alto, tale da suscitare qualche dubbio sulla  validità della strategia. La politica dei 2 tempi (prima liberazione, poi democrazia progressiva) era fatalmente  senza sbocco: nel momento in cui il movimento partigiano e operaio raggiungevano il loro apice, i comunisti  accettavano di posporre alla fine della guerra la soluzione delle principali questioni di natura sociale e politica.  Mentre i comunisti rimandavano lo scontro politico in nome dell’unità nazionale, però gli oppositori agivano e  vincevano su tutta la linea.  La democrazia cristiana Confrontato con quello degli Alleati o dei comunisti, il ruolo della DC nel periodo 43­45 fu certamente secondario  (ebbe una piccola parte nella Resistenza e spessa la sua presenza nel Cln era puramente simbolica). Molti dei  fondamenti della sua successiva supremazia, comunque, vanno ricercati in questo periodo: l’appoggio del  Vaticano, l’apparizione di un dirigente di rilievo come De Gasperi, un crescente consenso presso tutti gli strati  della società italiana. Essa vene fondata nel 42. Il precedente Partito cattolico di massa, il Partito popolare, aveva cessato di esistere  nel 26, ucciso dai dissensi interni, dalla repressione fascista e dalla decisione papale di aprire il dialogo con  Mussolini. I primi programmi della DC si basavano su un richiamo a quei valori cristiani che potevano riconciliare  l’antagonismo umano, ma i primi pronunciamenti politici rifletteranno anche la crescente partecipazione  dell’attivismo delle classi subalterne. Dal 43 De Gasperi  divenne rapidamente l’indiscusso leader della DC. Fu sempre dal 43 che il papato (Pio XII)  fu costretto a riflettere sulle future relazioni tra Chiesa e stato: innanzitutto occorreva salvaguardare i Patti  Lateranensi, e man mano che crebbe il potere della Resistenza e dei partiti democratici, il Vaticano, si mosse  con cautela verso la DC di De Gasperi. L’appoggio della Chiesa trasformò la cd in un Partito di massa: in un  paese in cui gran parte della cultura e del costume popolare era legata alla chiesa cattolica, l’aperta adozione  della causa democristiana contribuì al suo successo politico. Un altro grosso contributo venne dalle varie organizzazioni fiancheggiatrici create allo scopo di radicare il nuovo  Partito nella società: la Coldiretti (associazione cattolica dei coltivatori di Bonomi) e l’Acli ( associazione dei  lavoratori cattolici). Nello stesso periodo in cui la DC iniziava a radicarsi tra contadini e operai, alcuni settori del capitalismo  cominciavano a guardarla come il Partito del futuro, grazie anche alle figure di primo piano che vi avevano  aderito (ex Volpi). proprietà) e il collocamento (venivano compilate delle liste ufficiali di disoccupati e le assegnazioni venivano  decise secondo un sistema di priorità basato sul bisogno e sull’anzianità). Le forze tradizionali del sud combatterono questa rinascita dell’azione collettiva con tutti i mezzi a loro  disposizione. Ex l’incidente di Villalba (Sicilia centrale) il 20 settembre 44: il paese era dominato dal boss  mafioso Don Calò, il quale permise al dirigente comunista Li Causi e a un socialista del luogo di tenere un  comizio purché non si parlasse di terra e di mafia e soprattutto che non vi fossero contadini ad ascoltarli. Tali  condizioni non vennero rispettate, e i mafiosi spararono sulla folla. L’insurrezione nazionale al Nord, aprile 45 Le condizioni di vita nelle grandi città settentrionali continuarono a peggiorare x tutto il rigido inverno 44­45. Il  mercato nero prosperava, ma i suoi prezzi erano proibitivi x la maggior parte della popolazione. Nelle fabbriche  si lavorava con la costante paura che uomini e macchine potessero venire spediti in Germania. Le città del triangolo industriale furono colpite nell’inverno da una massiccia disoccupazione, in parte x  mancanza di materie prime e in parte perché, a causa di un diffuso sabotaggio, la produzione e l’occupazione  era drasticamente cadute nei primi mesi del 45. Come giunse la primavera fu chiaro che il movimento partigiano era sopravvissuto, decimato ma intatto. Il  numero dei partigiani crebbe adesso con estrema rapidità. Mentre il terzo Reich veniva circondato a oriente dai  russi e a occidente dagli angloamericani, la prossima liberazione dell’Italia settentrionale divenne finalmente  realtà. Il carattere di questa liberazione fu oggetto di profondo disaccordo tra Alleati e Resistenza. Parri riferì che gli  Alleati pretendevano x se il diritto di accettare la resa dei tedeschi ed esortavano i partigiani a non intraprendere  azioni indipendenti ma a concentrarsi piuttosto nel salvataggio del maggior numero di istallazioni elettriche e  industriali dalla politica tedesca di “terra bruciata”. I progetti degli Alleati x la fine della guerra erano: l’assistenza ai partigiani, la consegna di eventuali attestati e  premi in denaro, il ritiro delle armi e il rinvio dei partigiani a casa loro. I partigiani invece avevano idee alquanto  differenti: essi rifiutavano di accettare un ruolo secondario nella liberazione del nord. I comunisti e il PdA  premettero perché si preparassero piani di insurrezione x le principali città x dimostrare il potere effettivo della  Resistenza e porre fine all’occupazione tedesca in un modo che sarebbe stato difficile dimenticare. Il 1 aprile 45 gli eserciti Alleati lanciarono l’ultima offensiva contro le linee tedesche. Tra il 24 e il 26, mentre gli  Alleati erano ancora in Emilia, Genova, Torino e Milano insorsero contro i nazifascisti. L’obbiettivo principale delle forze naziste era quello di ritirarsi dal nord industriale il più velocemente possibile,  lasciandosi però dietro una scia di sabotaggio e distruzione. All’inizio dell’insurrezione di Milano, Mussolini era ancora in città. Il 25 aprile aveva ottenuto un incontro con i  dirigenti del Cln, il quale si pronunciò chiaramente x la resa incondizionata. Mussolini lasciò così Milano x la  frontiera svizzera , ormai poco più di un prigioniero nelle mani delle SS che lo scortavano. Camuffato da soldato  tedesco, il 27 mattina venne riconosciuto e catturato a Dongo dalla 52° Brigata Garibaldi. I capi della  Resistenza, ignorando l’esplicita richiesta dei comandanti Alleati, ordinarono immediatamente la fucilazione di  Mussolini. Entro il 1 maggio l’intera Italia settentrionale era stata liberata. Il carattere popolare e insurrezionale della  liberazione, fu accolta quasi ovunque con entusiasmo, ma talvolta provocò timori. La paura di un imminente  rivoluzione sociale continuò ad essere molto tenace negli ambienti capitalistici. Anche gli Alleati erano  preoccupati: il loro successo militare era stato facilitato dalle insurrezioni, ma non gradirono il livello di  indipendenza con cui avevano agito gli italiani.  Gli ufficiali Alleati organizzarono il più rapidamente possibile il disarmo delle brigate. Da quel momento tribunali  militari Alleati inflissero pesanti condanne a chiunque venisse trovato illegalmente in possesso di armi. Gli alleati non sostituirono i prefetti designati dalla Resistenza, ma fecero pesare con chiarezza la propria  autorità. Essi non intendevano tollerare alcuna iniziativa che mirasse a fare dei Cln gli strumenti di un potere  alternativo. Nello stesso tempo gli Alleati cercarono di garantire  che le condizioni economiche non spingessero  la classe operaia settentrionale a scendere nelle strade x protestare. Dal POV della sofferenza umana il costo era stato enorme. Il rifiuto dell’attendismo, o di limitarsi agli atti di  sabotaggio, aveva comportato lo scontro frontale con la repressione e la rappresaglia tedesca. Il sacrificio della Resistenza non fu vano. I partigiani fecero parecchio x ripulire l’offuscata immagine dell’Italia e x  dare agli italiani nuova fiducia in se stessi, riuscendo a costruire una duratura tradizione antifascista. Parecchio  di quello x cui avevano lottato rimase tuttavia irrealizzato. L’aspirazione della Resistenza a una forma di democrazia più diretta e socialmente giusta, un’aspirazione  condivisa dalla maggior parte dei comunisti, dei socialisti, degli azionisti, non sarebbe stata realizzata. Malgrado  il loro eroismo, le forze che negli anni 43­45 lottarono x il cambiamento non riuscirono a creare una così  profonda rottura col passato. 3. L’ASSETTO POSTBELLICO, 45­48 Nel giugno 45, dopo 8 settimane di contrattazione tra i partiti, Parri divenne presidente del Consiglio. Sembrò  che la Resistenza fosse giunta al potere, ma i 3 anni successivi (prima presidente Parri, poi De Gasperi) furono  lungi dall’assistere al trionfo degli ideali della Resistenza: si vide invece un graduale sviluppo di 2 schieramenti  contrapposti,  tanto all’interno che su scala internazionale, la DC e USA (si raccoglievano intorno al mondo  padronale), e comunisti e URSS(facevano capo alla classe operaia). Questo conflitto di interessi e ideologie, che  in Italia fu mascherato dalla prolungata cooperazione tra i partiti antifascisti raggiunse il suo drammatico culmine  con le elezioni del 48. Il fronte capitalista La classe imprenditoriale uscì dalla guerra con un po’ di apprensione, soprattutto al Nord, x la rivoluzione sociale  (infondata a causa del moderatismo comunista). Alcuni erano più compromessi di altri, ma molti avevano  praticato il “doppio gioco” svolto durante la guerra: mantenere contatti coi tedeschi e allo stesso tempo dare  informazioni agli Alleati e soldi ai partigiani. Essi riuscirono inoltre a trarre vantaggio dalle operazioni di salvaguardia delle strutture industriali e delle fonti  energetiche svolte negli ultimi mesi di guerra. 3 erano all’epoca i settori dominanti dell’industria italiana: idroelettrico (grande intensità di capitale e di recente  formazione), tessile e alimentare (entrambi alta intensità di lavoro e basso livello tecnologico). I settori che  avrebbero avuto poi la massima importanza (acciaio, automobili, chimica) erano ancora in secondo piano. Negli anni del dopoguerra emerse nell’industria una divisione tra: ­ maggioranza conservatrice, rappresentata soprattutto dall’industria elettrica e dai produttori di cemento e  zucchero, stava al sicuro in una posizione di monopolio e privilegiava le speculazione finanziaria rispetto  a investimenti o alla produttività. ­ minoranza progressista, concentrata nel settore metallurgico (Fiat, Riv, Olivetti) in quello della gomma  (Pirelli) e in quello statale dell’acciaio, sapeva che la propria sopravvivenza nel mercato concorrenziale  dipendeva da un ampio programma di riconversione e razionalizzazione. Divergenze di questo genere comunque passavano in secondo piano e si ricomponevano in un’unità di obbiettivi  quando si arrivava al confronto col metodo del lavoro o con lo stato. Attraverso la Confindustria (presidente Angelo Costa) gli imprenditori rivendicavano: ­ che l’imprenditore potesse riprendere la completa libertà di controllo sul luogo di lavoro  o diritto di licenziare a proprio piacimento o no tolleranza x progetti di partecipazione/controllo operaio o limitare il potere del sindacato a livello di fabbrica ­ la classe capitalistica non dovesse venir condizionata da una pianificazione statale introdotta dai partiti di  sx. Il padronato trattava tradizionalmente lo stato con ostilità, considerandolo una istituzione non sufficientemente ed  esplicitamente rappresentativa dei propri interessi e verso cui non si sentiva dunque responsabile. Dopo la  fortuna fatta sotto il controllo dello stato fascista (limitazione forzata alle richieste operaie), gli imprenditori  miravano a riconquistare quella libertà di azione che era stata compromessa dalla ritrovata autonomia del  movimento operaio: lo strumento politico a cui guardavano x realizzare i propri obbiettivi fu la DC (sostituì il  Partito liberale, che non riuscì ad adattarsi alle mutate condizioni dell’Italia postbellica, rimanendo un Partito di  élite). L’essenza dell’agire politico della DC era l’interclassismo che è prerequisito di ogni moderno Partito  conservatore. Attraverso l’appoggio della chiesa e dell’Azione cattolica, i democristiani speravano di conquistare  i credenti di ogni ceto. Attraverso la Coldiretti e l’Acli, tramite le quali offrivano assicurazione, assistenza sociale  e consulenza legale, essi crearono una base di massa tra contadini proprietari e lavoratori. La loro propaganda  si rivolse soprattutto alla classe media, in passato spina dorsale del consenso di Mussolini, che era rimasta  disorientata dall’improvvisa distruzione dei valori fascisti di nazione e Partito, e che era stata duramente colpita  dall’inflazione degli anni di guerra. La DC riaffermava la morale cattolica di salvaguardare la proprietà, di assicurare rispetto e protezione di ogni  iniziativa individuale nel campo della produzione e del lavoro, di limitare il potere dei grandi monopoli e di  proteggere sia i consumatori che i produttori. La chiesa e la DC posero inoltre un grande impegno nell’assistere  le famiglie provate dai traumi della guerra. La DC era grandemente aiutata, sul piano internazionale, dal rapido declino dell’egemonia inglese nel  Mediterraneo (Inghilterra era sull’orlo della bancarotta), dalla sostituzione dei britannici con gli americani e  dall’inizio della GF. Il presidente Truman, nutriva da tempo il desiderio di porre un freno alla smodata ambizione espansionistica  dell’URSS, x il quale abbozzò un programma di contenimento (dottrina Truman) e un programma di sovvenzioni  x l’Europa (piano Marshall). Era essenziale, infatti, x gli USA aiutare l’Europa nella ricostruzione e crear in tal  modo un mercato in cui l’economia americana potesse prosperare, uno sbocco x evitare una nuova Grande  Depressione. Tutto questo era estremamente importante x l’Italia:  la classe capitalistica venne rafforzata nella  sua battaglia sul fronte interno. Durante la guerra, al tempo dell’invasione alleata, l’Italia aveva avuto il suo primo impatto con l’American way of  life. Nel 45­48 il mito dell’America conquistò nuovi colori: solo gli USA potevano e volevano offrire all’Italia il  necessario aiuto x risollevarsi dalle devastazioni della guerra. Il movimento operaio Nel corso della guerra le condizioni di vita della classe operaia erano peggiorate drasticamente, sia in città  (bombardamenti, scarsità generi di prima necessità, inflazione) che in campagna(sovrappopolazione x esodo  dalle città). La condizione dei disoccupati era ancora peggiore ed un aspro conflitto di interessi sorse tra le masse di  disoccupati e le migliaia di donne che avevano lavorato durante la guerra e volevano mantenere il proprio posto  di lavoro. Al nord queste dure condizioni era mitigate dalla sensazione di potere e dalla posizione di forza che gli operai  avevano conquistato durante la Resistenza (ex commissioni interne e Cln di fabbrica). Sarebbe comunque un  errore parlare di coscienza rivoluzionaria diffusa a livello nazionale tra gli operai. In questo periodo è impossibile  trovare qualsiasi spontaneo tentativo di creare organi alternativi di potere politico come i soviet e i consigli  La Repubblica e la fine della grande coalizione, giugno 46 – maggio 47 Le prime elezioni e la Costituzione Il 2 giugno 46 gli italiani andarono alle urne dopo oltre 20 anni. Gli elettori dovevano scegliere con un referendum  tra monarchia e repubblica e dovevano eleggere i loro rappresentanti all’Assemblea Costituente. Le donne  poterono votare x la prima volta nella storia italiana. Vittorio Emanuele III in vista del referendum aveva abdicato in favore del figlio Umberto. La prospettiva di un  nuovo re non su tuttavia sufficiente: con il 54,2% contro il 45,8%, l’Italia divenne una repubblica (Di Nicola venne  eletto capo provvisorio dello stato).  Il referendum rivelò quanto drammatica fosse la spaccatura tra nord e sud: mentre il centro e il nord votarono  compatti x la repubblica, il sud fu altrettanto solido nell’appoggio alla monarchia.  L’altro aspetto del voto del 2 giugno fu che dette un’indicazione precisa della forza relativa dei 3 principali partiti:  la DC risultava la più forte, seguita da socialisti e poi comunisti. Il più pericoloso tra i nuovi partiti era il Fronte  dell’Uomo Qualunque, che ottenne molti voti al sud. Fondato da Giannini, il quale ingaggiava battaglia contro  ogni cosa che minacciasse “l’italiano qualunque”: il governo di coalizione antifascista, gli Alleati, l’epurazione,… Nei 18 mesi successivi l’Assemblea Costituente si dedicò a delineare il nuovo sistema elettorale e alla stesura  della Costituzione. Il nuovo regime parlamentare venne organizzato secondo il principio bicamerale. Ogni 7 anni  le 2 camere dovevano eleggere il presidente della repubblica.  X quanto riguarda la Costituzione, i principi fondamentali sono piuttosto avanzati. L’importanza di questi articoli,  tuttavia, fu quasi interamente vanificata nel 48 da una decisione della Corte di Cassazione: stabilì la distinzione  tra le parti che erano di immediata attuazione e quelle da realizzarsi in un futuro indeterminato. In tal modo gli  articoli innovatori rimanevano lettera morta e venivano attuati con grandi ritardi, ma molte leggi fasciste non  vennero mai abrogate. Il lavoro dell’Assemblea fu contraddistinto da 2 battaglie cruciali x le libertà civili: ­ La prima riguardava i rapporti tra chiesa e stato. Il Vaticano era inflessibile nel volere che il Concordato  del 29 firmato con Mussolini venisse incluso senza ritocchi nella Costituzione. I comunisti e tutti i partiti  laici si opposero fermamente a tale pretesa, ma Togliatti sostenne la necessità di rafforzare la pace  religiosa e mantenere un dialogo con i cattolici, quindi bisognava difendere il Concordato (art.7). ­ La seconda fu scatenata dal deputato socialdemocratico Grilli, determinato a non fare inserire alcun  accenno all’indissolubilità del matrimonio nel testo dell’art 29 che si occupava della famiglia. I comunisti  lo appoggiarono e l’emendamento passò. La politica e i partiti Il 12 luglio 46 De Gasperi formò il suo secondo governo: azionisti e liberali vennero esclusi, comunisti e socialisti  ottennero un numero inferiore di ministeri, i repubblicani ebbero un ruolo minimo. Fu allora, comunque, che i democristiani entrarono in un periodo di crisi. La causa prima fu l’inflazione: la  reazione di una parte importante dell’elettorato fu quella di incolpare la DC; le classi medie, non protette dalla  scala mobile, accusarono De Gasperi di eccessiva indulgenza verso i partiti di sinistra. Furono fatte grosse  pressioni su De Gasperi perché rompesse la coalizione, ma egli si riservava il diritto di scegliere il momento x  terminarla. Anche x il Pci non si trattava di un momento facile e doveva fare i conti con la questione di Trieste. Dopo la 1GM  una minoranza slovena era stata costretta a vivere sotto il dominio italiano. Nel 45 gli jugoslavi, cercando  qualcosa di più di una compensazione x l’ingiustizia, vollero annettersi tutto il territorio oltre l’Isonzo: essi  occuparono gran parte della Venezia Giulia ma furono costretti a ritirarsi dagli Alleati. Il Pci si trovò in difficoltà x  parecchie ragioni: ­ Gli jugoslavi erano comunisti e lo stesso Stalin appoggiava le loro richieste. Cercarono quindi di celare la  natura dell’invasione arrivando a chiamare gli jugoslavi “esercito della liberazione” ­ L’appoggio a Tito significava l’esposizione ai partiti conservatori, che lo accusarono di essere una pedina  nelle mani di Mosca e non un Partito nazionale e indipendente. Ancora più in difficoltà erano i socialisti, incapaci di ritrovare l’armonia interna e incapaci si approfittare del  consenso che avevano nel paese. Divenne chiaro che Saragat preparava la scissione e la creazione di un  proprio Partito socialdemocratico, mentre Basso voleva a tutti i costi espellerlo. Si venne a creare quindi, dopo la  scissione di Palazzo Barberini (47), il Psdi (Partito socialdemocratico italiano). La scissione rappresentò una  tragedia x il socialismo italiano, assicurò la subordinazione del Psiup al Pci e condannò la minoranza  socialdemocratica a un futuro all’ombra della DC. Lotte sociali I conflitti sociali aumentarono nell’estate e nell’autunno 46. Un’ondata di agitazioni contro la disoccupazione e  l’inflazione colpì il nord mentre nel sud si lottava affinché si attuassero i decreti Gullo. Malgrado la mobilitazione straordinaria nel sud, il movimento si concluse complessivamente con una sconfitta:  alcuni punti radicali del programma di Gullo non vennero mai attuati (ex abolizione mediatori) a causa  principalmente dell’opposizione di liberali e democristiani (imposero una serie di modificazioni e in più il Pci non  voleva mettere a repentaglio l’alleanza con la DC). Nell’Italia centrale i mezzadri ingaggiarono una battaglia senza precedenti x modificare i rapporti proprietari­ contadini. Nel 47 nelle campagne dell’Italia centrale tornò una parvenza di pace con la firma d’un accordo del  nuovo ministro democristiano dell’Agricoltura Segni, in cui i mezzadri avrebbero ottenuto il 53% della produzione  mentre i proprietari avrebbero accantonato il 4% del reddito annuale x le migliorie. La lotta lascò un’eredità  rilevante: si era imposta una tradizione di azione e cooperazione collettiva, e i comunisti, che avevano guidato i  mezzadri nel corso della lotta, rafforzarono il rapporto elettorale col Centro Italia. La cacciata delle sinistre Il clima di agitazione del 46 accentuò la difficoltà delle scelte di De Gasperi. Egli voleva le sinistre fuori dal  governo ma era preoccupato sulla governabilità del paese  senza di loro. D’altro canto il Trattato di pace era  stato firmato a febbraio e i patti Lateranensi erano stati approvati: era giunto il momento della rottura. All’inizio di maggio egli fu incoraggiato ad agire da 2 avvenimenti internazionali: la crisi analoga in Francia (dove i  comunisti vennero cacciati dal governo) e la rapida evoluzione della politica estera americana (la dottrina  Truman era stata resa nota e gli americani manifestavano il loro anticomunismo riguardo alla situazione italiana:  il segretario di stato espresse la necessità che De Gasperi governasse senza i comunisti). Mentre si attendeva la mossa del presidente, l’attenzione del paese fu richiamata dal mondo contadino siciliano.  Il 1 maggio 47 i contadini di 2 paesi della provincia di Palermo si riunirono a Portella della Ginestra x celebrare la  festa del Lavoro e l’avanzata del Blocco del Popolo nelle elezioni regionali. Improvvisamente una mitragliatrice  aprì fuoco sulla folla x ricordare ai contadini che la mafia era l’unica che detenesse davvero il potere nella  provincia. Il 13 maggio De Gasperi si dimise. De Nicola dette l’incarico di formare il nuovo governo a un altro antifascista,  Nitti, che fu però impossibilitato a creare una maggioranza parlamentare attorno alla sua candidatura. L’incarico  tornò a De Gasperi, il quale annunciò che avrebbe formato un governo di centro fidando nell’appoggio  parlamentare di tutti i partiti di destra: era la fine della coalizione antifascista. Il confronto, giugno 47 ­ aprile 48 La politica economica di Luigi Einaudi Per prima cos De Gasperi rinvio le elezioni al 48. Il nuovo governo aveva 2 ministri chiave: Scelba agli Interni e il  liberale Einaudi (ex governatore Banca d’Italia), che era vice­presidente del Consiglio e ministro del Tesoro. Scelba era un conservatore inflessibile, sotto di lui polizia e carabinieri vennero epurati da tutti gli ex partigiani e  incoraggiati ad intervenire con forza contro tutte le manifestazioni operaie e contadine. Einaudi intervenne con decisione nell’economia x tenere l’inflazione sotto controllo, attuando una classica  politica deflazionista senza imporre una tassazione progressiva. Nel settembre 47 egli ridusse drasticamente la  quantità di moneta in circolazione: il tasso d’inflazione calò e la crisi dei cambi fu messa sotto controllo. La  restrizione del credito però colpì la piccola e media industria, provocando un complessivo declino degli  investimenti e quindi della produzione: ciò provocò un’ondata di licenziamenti.  Le classi medie urbane, con stipendi fissi, videro finalmente un tentativo di salvaguardare il loro livello di vita.  Con l’inizio del 48 la DC aveva bloccato l’emorragia elettorale che minacciava la sua stessa esistenza. Il Partito comunista Togliatti aveva reagito all’espulsione dal governo con la sua tipica moderazione e misura, sperando che De  Gasperi si rendesse conto del suo errore. Tuttavia alla riunione del Cominform (organismo che, dopo la  dissoluzione della terza internazionale /Comintern nel corso della guerra, provvide a coordinare le attività dei  partiti comunisti) il Partito italiano venne messo pesantemente sotto accusa x essere stati troppo concilianti con i  partiti borghesi e troppo desiderosi di rimanere al governo a costo di compromettere gli interessi della classe  operaia. Il periodo delle coalizioni antifasciste era finito, il mondo era diviso in blocchi ed era iniziato quello della  GF. Togliatti accolse con riluttanza queste istruzioni, ma rimase ostile a qualsiasi azione che facesse eccessivo  affidamento a pressioni di natura extraparlamentare x ottenere un cambiamento: fu x questo che la nuova  prospettiva del Pci divenne la preparazione alle elezioni primaverili. Nel dicembre 47 comunisti e socialisti si  accordarono x partecipare alle elezioni su una piattaforma unitaria e fondarono il Fronte Democratico Popolare. Le elezioni del 48 Nell’intera storia della Repubblica italiana, mai campagna elettorale fu combattuta più aspramente e mai gli  avvenimenti internazionali furono così influenti. Gli USA concessero nei primi 3 mesi del 48 aiuti all’Italia x 176 milioni di dollari. Dopo di allora entrò in funzione il  piano Marshall. L’ambasciatore americano a Roma, Dunn, si assicurò che questo massiccio intervento di aiuti  non passasse inosservato dall’opinione pubblica italiana: l’arrivo delle navi (ogni volta in un porto diverso) veniva  celebrato, il discorso di Dunn si faceva sempre più politico e George Marshall ammonì che nel caso di una  vittoria comunista tutti gli aiuti sarebbero stati sospesi. Se gli aiuti e la propaganda non fossero bastati sarebbe  sempre rimasta la possibilità di un intervento militare: nelle settimane prima delle elezioni gli americani  rafforzarono la loro flotta nel Mediterraneo. I Sovietici avevano poco da offrire come contropartita. Anzi, il colpo di stato comunista a Praga costituì un danno  enorme x la possibilità di vittoria elettorale delle sinistre. Alla fine di febbraio 48 i partiti cecoslovacchi non  comunisti cercarono di far cadere la coalizione di governo guidata dal comunista Gottwald. Il Partito comunista  rispose mobilitando la base e gli operai armati occuparono le fabbriche. Dopo giorni di tensione, il presidente  della repubblica Benes accettò che si costituisse un nuovo governo a maggioranza comunista, a cui seguirono  una serie di epurazioni e arresti e l’ex ministro degli Esteri fu trovato morto sotto le finestre di casa. X la stampa non comunista italiana, i fatti di Cecoslovacchia erano l’avvisaglia di quello che sarebbe potuto  succedere con la vittoria del Fronte, vittoria che sarebbe stata un preludio alla dittatura. Sul fronte interno la DC beneficiò grandemente dell’intervento della Chiesa: gli uomini di chiesa ammonirono che  era peccato mortale non votare o votare x il Fronte. ­ Gran parte delle terre, precedentemente garantita alle cooperative dai decreti Gullo, era adesso inclusa  nelle nuove aree della riforma: veniva confiscata e nuovamente distribuita. ­ Favorì l’aumento del prezzo della terra. I proprietari, temendo ulteriori espropri e l’attivismo dei contadini,  gettarono sul mercato una gran quantità di terra. I contadini esclusi dalla riforma pensarono che,  qualsiasi fosse il prezzo, non potevano farsi scappare questa opportunità. ­ Gli enti di riforma erano nicchie di potere democristiano, non comprendevano rappresentanti contadini e  spesso erano formati dagli uomini dei baroni meridionali. x quanto gli esiti delle riforme cariassero notevolmente nelle diverse aree interessate, è possibile evidenziare  alcune caratteristiche comuni a tutti questi processi: il tentativo di spostare i nuovi contadini proprietari in case  coloniche o piccole frazioni isolate (ma l’abitudine alla vita comunitaria, la scarsa fecondità degli appezzamenti e  la possibilità di lavoro saltuario durante l’inverno nelle città congiuravano contro tale tentativo); e negli enti di  riforma vi era una burocrazia eccessiva e troppo potente. Conclusioni  La riforma fu senza dubbio il primo serio tentativo nella storia dello stato unitario di modificare i rapporti di  proprietà in favore dei contadini poveri; lo stato aveva finalmente trovato il coraggio d’attaccare la grande  proprietà fondiaria assenteistica, attorno alla quale si erano sempre barricati il conservatorismo e l’immobilismo  meridionali. Allo stesso tempo però, dal POV delle aspirazioni contadine e da quello delle richieste formulate dopo Melissa,  fu un’amara delusione. Le leggi del 50 inoltre toccarono solo un aspetto della riforma agraria, quello della  distribuzione della terra: i problemi della riforma dei patti agrari, di un piano nazionale di bonifica, di migliori salari  e condizioni di lavoro x i braccianti non vennero affrontati. Il progetto di legge Segni sui patti agrari fu  accantonato in seguito alla mobilitazione in Parlamento dei proprietari. Tutti i risultati ottenuti sul terreno del  “collocamento di classe” furono capovolti nell’aprile 49, quando la Cgil raggiunse col governo un compromesso  infelice. L’approvazione, quello stesso mese, della legge Fanfani che concedeva alle organizzazioni dei  lavoratori poteri solamente consultivi nella questione dei meccanismi di assunzione, spostò nuovamente i  rapporti di forza a favore dei grandi proprietari. La riforma spezzò soprattutto i tentativi di aggregazione e cooperazione che erano stati motivi ispiratori delle  agitazioni del 44­45. I valori di solidarietà, sacrificio, egualitarismo, e i tentativi di sconfiggere familismo e sfiducia  portati avanti dai comunisti vennero definitivamente emarginati. La riforma agraria tuttavia costituì una parte importante della strategia generale che doveva assicurare alla DC il  potere nel Mezzogiorno agricolo. La DC doveva costruire nel sud agricolo un nuovo sistema di alleanze sociali ,  basato non tanto sul tradizionale dominio della terra quanto piuttosto sul controllo delle risorse dello stato. La  politica agraria fascista, con i suoi progetti assistenziali, offriva un modello che poteva essere sviluppato e  perfezionato. La legge del 48 sulla formazione della piccola proprietà contadina fu il primo passo in questa  direzione: l’istituzione di un fondo statale che facilitasse l’accensione di mutui x i contadini compratori fece sì che  molti ettari passassero in mani contadine. Per di più la Coldiretti assunse un ruolo sempre più centrale nell’amministrazione dei contributi statali nelle zone  agricole. Ottenuto il controllo sulla Federconsorzi(ente statale che distribuiva su scala nazionale macchine  agricole, fertilizzanti,…), nel 54 la Camera dei deputati approvò una legge che estendeva la pensione ai  coltivatori e l’anno dopo vennero costituite le Casse Mutue. In risposta al tentativo comunista di unificare i contadini attorno un programma di cooperazione e egualitarismo,  Bonomi creò un associazionismo cattolico che esaltava le famiglie contadine individualmente intese e le loro  proprietà, garantendo anche la protezione dello stato. Nel 50 infine il governo istituì anche la Cassa x il Mezzogiorno, che sarebbe divenuta in seguito l’elemento  decisivo x lo sviluppo economico del sud. La riforma può essere così vista come un elemento nella strategia del consenso della DC, basata sull’uso e  sull’abuso del potere statale. 5. LA DC, LO STATO, LA SOCIETÀ Le elezioni del 53 Nelle elezioni amministrative del 51­52 si registrò una diminuzione di consensi x la DC. Già all’inizio del 52 era venuto alla ribalta il problema dell’instabilità delle maggioranza di governo che avrebbe  condizionato la politica italiana. Da questo momento in poi la vita politica sarebbe stata caratterizzata dalla  ricerca continua della DC di Alleati politici, soprattutto al centro ma anche a destra e sinistra: si sarebbero  formate e poi sciolte instabili coalizioni, governi sarebbero andati e venuti, con la stampa, la radio e poi la tv  pronte ogni volta a inondare l’opinione pubblica di notizie e commenti sulle lotte tra i partiti e quelle intestine in  ognuno di essi. Negli ultimi anni, impulsi interni e esterni avevano spinto De Gasperi in una posizione maggiormente  conservatrice. Pressato dal Vaticano perché si alleasse con l’estrema destra, il suo anticomunismo si era venuto  accentuando con la tensione internazionale prodotta dalla guerra di Corea. La sinistra democristiana stava  vivendo nell’estate 51 un grosso momento di crisi: Dossetti, disilluso circa la realizzabilità  del riformismo  cattolico, decise di sciogliere la propria corrente. De Gasperi elaborò rapidamente il concetto di “democrazia  protetta”, grazie alla quale il giovane e vulnerabile stato democratico sarebbe stato difeso contro i suoi nemici: i  mezzi x raggiungere questo fine consistevano in una serie di leggi eccezionali che miravano a restringere le  libertà civili, a rafforzare la legge e l’ordine, a limitare i diritti degli “estremisti”. La legge elettorale fu l’elemento  più importante di questa strategia. De Gasperi cercò di evitare a tutti i costi tale prospettiva, e x assicurarsi la  continuità al potere propose una nuova legge elettorale secondo cui ogni coalizione che ottenesse il 50% dei voti  più uno nelle elezioni politiche avrebbe guadagnato i 2/3 dei seggi nella Camera dei deputati. L’opposizione socialcomunista contro la “legge truffa” (che ricordava la legge Acerbo del 23 di Mussolini) fu  vana. Tutto dipendeva ormai dalle elezioni del 7 giugno 53. I 4 partiti di centro – DC , Pli, Psdi, Pri – formarono un’alleanza che poteva contare, stando alle precedenti  elezioni, del 63% dei voti: la vittoria e i 2/3 dei seggi sembravano assicurati. Un piccolo gruppo di dissidenti,  guidato da Parri e Calamandrei, formò l’Unità popolare. La principale vincitrice fu l’estrema destra (monarchici e i neofascisti del Msi, movimento sociale italiano). La  sinistra migliorò rispetto al 48, l’Unità popolare andò bene, ma la DC e i partiti del centro persero consensi. La  legge truffa venne abrogata l’anno dopo. Le elezioni del 53 furono importanti x 2 ragioni: segnarono la fine della carriera politica di De Gasperi e  l’emergere dei neofascisti come una forza stabile nel panorama politico italiano (i monarchici si divisero e  scomparvero). Il tentativo di formare un nuovo governo di centro da parte di De Gasperi fallì ed egli fu costretto a passare il  testimone a un altro democristiano, Pella. Il suo antifascismo repubblicano rappresentava una netta rottura con  l’immagine imposta dell’Italia nel ventennio fascista, ma il successo di De Gasperi appare però assai limitato  quando si valuti la sua azione alla luce di quei valori di progresso civile, di riforma sociale e di giustizia a cui  sempre si appellò durante la sua milizia politica. Sotto la sua guida la DC divenne il Partito del centrismo  stagnante e di un anticomunismo viscerale. Il cattolico e il combattente della guerra fredda prevalsero così, in De  Gasperi, sul riformatore. Forse solo la creazione della Cassa x il Mezzogiorno e il suo impegno europeo*  possono compensare in parte la sua mancanza di iniziativa in altri settori vitali. La legge truffa e la democrazia  protetta non rappresentarono una fine adeguata x una carriera politica così rilevante. Le perdite democristiane del 53 erano andate a vantaggio dell’estrema destra. I loro voti provenivano  principalmente dalle città meridionali, dai quartieri romani abitati da impiegati che dovevano al fascismo il posto  di lavoro. I dirigenti del Msi erano prevalentemente figure di secondo piano della repubblica di Salò. La DC e lo Stato Dopo il fallimento della legge truffa, la DC mantenne il potere x i 5 anni successivi grazie a governi che si  basavano, x sopravvivere, sui vori dei partitini di centro e di destra. L’iniziativa politica stagnava e la seconda  legislatura (53­58) venne poi chiamata la “legislatura dell’immobilismo”. Si trattava però di un’impressione  superficiale: gli anni 5 furono in realtà il periodo cruciale in cui la DC pose le basi del proprio sistema di potere  nello stato, conquistando con questo e altri mezzi un nuovo consenso. L’eredità pre­repubblicana Lo stato ereditato dalla DC possedeva tutta una serie di tratti distintivi che avrebbero profondamente influenzato  il modo di governare della nuova Repubblica: ­ Stato fortemente accentratore. Il desiderio di creare uno stato unitario con tradizioni e leggi uniformi portò  all’istaurazione di un apparato statale che si guadagnò presto un reputazione di eccessiva oppressività e  invadenza. Le autonomie locali e le differenze regionali vennero sacrificate alla burocrazia centrale. ­ Il   funzionamento   dell’amministrazione   si   basava   sul   principio   tedesco   del   Rechtstaat:   ogni   azione  condotta in nome dello stato doveva essere inserita nella cornice della legge amministrativa. Il risultato fu  quello di avere uno stato non solo centralizzato ma anche lento ed inefficiente. ­ La pubblica amministrazione divenne il terreno di coltura del clientelismo: in cambio della fedeltà politica  si elargivano posti di lavoro, favori, accelerazione delle pratiche burocratiche. Fino agli inizi di questo secolo l’amministrazione pubblica fu dominata dai settentrionali. Un numero sempre più  alto di giovani diplomati del nord e del centro però iniziò a cercare lavoro nel settore privato, dove gli stipendi  erano più alti, mentre i loro colleghi del sud cercarono nell’impiego statale una via di fuga alla prospettiva della  sotto­occupazione.   La   macchina   statale   ultracentralizzata,   clientelare   ed   inefficiente,   assunse   così  progressivamente anche un carattere meridionale. L’amministrazione, infine, era stata caratterizzata dal fenomeno delle “burocrazie parallele”. Dall’inizio del XX  secolo   si   sviluppò   la   pratica   di   creare   enti   pubblici   che   non   facevano   parte   della   tradizionale   burocrazia  ministeriale: al posto di una struttura unita x la gestione dei servizi pubblici crebbe così una serie di istituzioni  semi­indipendenti, ognuna con la propria burocrazia, ognuna gelosa dei propri poteri e della propria sfera di  influenza. Lo stato repubblicano Gli elementi cruciali dello stato erano: l’esercito, la polizia, la magistratura, la burocrazia ministeriale e gli enti  autonomi incluso il parastato (agenzie di servizi pubblici). In tutte queste aree era fallita l’epurazione ed esisteva  una forte continuità con lo stato pre­repubblicano.  Malgrado il suo ruolo nella caduta di Mussolini nel 43, l’esercito, durante la guerra, aveva perso gran parte del  suo prestigio e lo spirito democratico e innovatore dei partigiani non era riuscito a permeare le forza armate,  dove non ebbe luogo alcuna riforma effettiva. Per alcuni anni dopo la guerra l’esercito rimase una forza  simbolica senza alcun chiaro obbiettivo. Con l’evolversi della dottrina Truman e soprattutto con la guerra di  Corea, si creò un ruolo nuovo (ma subordinato) all’interno della strategia globale americana. L’Italia entrò nella  Nato nel 49 e nel 50­51 l’esercito venne riequipaggiato dagli USA. I timori di guerra pian piano svanirono ma  ormai il modello era stato importo: da questo momento in poi le forze armate italiane divennero un elemento del  teatro di guerra europeo. La polizia era stata divisa in 2 sezioni. I Carabinieri (che facevano in realtà parte dell’esercito) e la Pubblica  Sicurezza (PS), assieme essi costituivano la forza di polizia più numerosa d’Europa. Il reclutamento aveva  generalmente luogo tra le classi più povere del sud. privati dell’acciaio. Nel dicembre 51 si ebbe un ulteriore progresso verso l’unità europea con la creazione della  Comunità europea di difesa (Ced). La corsa verso una federazione politica europea si arrestò bruscamente a questo punto. In Francia gollisti (di  tendenze conservatrici e nazionaliste, avversari dell’europeismo, visto come obbiettivo subordinato alla politica  statunitense, in nome dell’autonomia dell’Europa e della supremazia francese al suo interno) e comunisti  riuscirono a creare una maggioranza parlamentare che rifiutò di ratificare il trattato di difesa. il successore di De  Gasperi, Pella, era tutt’altro che europeista. La cooperazione europea riprese a marciare, ma sempre più esclusivamente sul terreno economico, mentre il  contributo italiano continuò a essere significativo, ma meno dinamico e idealista che sotto De Gasperi. Nel  marzo 57 la Comunità economica europea (Cee) vide la luce col Trattato di Roma. Le innovazioni degli anni 50 Nel settore pubblico dell’economia vennero creati alcuni nuovi organismi con compiti particolari, tra cui  primeggiavano x importanza gli enti di riforma agraria, la Cassa x il Mezzogiorno e l’Eni. Con la Cassa, la DC non scelse di puntare su un’industrializzazione immediata ma piuttosto su un vasto  programma di opere pubbliche concentrate nelle aree agricole.  La politica della Cassa conobbe limiti notevoli:  nelle aree urbane non venne intrapreso alcun progetto, nelle aree rurali i progetti permisero di distribuire posti di  lavoro temporanei senza dare tuttavia prospettiva di occupazione permanente.  Con la creazione degli enti di riforma e della Cassa venne a galla nel sud una nuova classe dirigente politica: si  trattava dei capi locali della DC, burocrati, speculatori edili e avvocati che mediavano tra stato e comunità locali. L’altra grande innovazione nel campo degli organismi statali fu la creazione dell’Eni. Il suo creatore, Mattei,  divenne responsabile dell’Agip, la compagnia petrolifera di stato, e la salvò grazie alla scoperta di grossi  giacimenti di metano nella Val Padana. Egli lottò contro gli imprenditori privati x avere il diritto di sfruttare in  esclusiva le risorse energetiche della Val Padana e quando riuscì a vincere, il 10 febbraio 53 venne creato l’Eni. L’aspetto dell’Italia venne modificato dalle attività dell’Eni, ma rimase un feudo privato di Mattei, e la sua  direzione un esempio drammatico dell’uso e abuso del potere statale. Il denaro pubblico era usato, abilmente e  senza scrupoli, x corrompere clienti e funzionari. I deboli governi dell’epoca non provvedevano ad alcun controllo  sulle sue attività, mentre egli controllava sempre più loro: il suo attivismo gli procurò una popolarità  considerevole ma anche parecchi nemici; egli morì in un incidente aereo. La DC aumentò il proprio potere economico anche attraverso il ministero delle Partecipazioni statali, creato nel  56, con responsabilità di direzione e coordinamento della attività degli enti di gestione, soprattutto Eni e Iri. Vi fu anche il tentativo di fornire un piano globale x l’economia, presentato nel dicembre 54 dal ministro  democristiano delle Finanze, Vanoni. Il piano, che doveva coprire il decennio 55­64, aveva 3 obbiettivi principali:  la piena occupazione, la graduale riduzione dello squilibrio economico tra nord e sud, l’eliminazione del deficit  della bilancia dei pagamenti. Il piano Vanoni non venne mai realizzato. Conclusioni A livello internazionale, l’impegno profondo di De Gasperi verso l’America e l’Europa fece dell’Italia il paese  dell’Europa meridionale più integrato nelle strutture economiche, politiche e militari dell’Occidente. A livello del controllo sociale, la creazione di enti statali autonomi permise di rispondere alla minaccia costituita  dal movimento dei contadini poveri nel Meridione. I programmi di opere pubbliche contribuirono a spezzare il  movimento e a disinnescarne la carica eversiva. A livello di élite, infine, la DC spostò l’equilibrio di potere tra i  rappresentanti politici e i baroni dell’economia a favore dei primi: il settore pubblico dell’economia si sviluppò  brillantemente. Tuttavia non mancano, negli anni 50, imperfezioni e manchevolezze: ­  Il rapporto deformato tra cittadini e stato, fondato sull’inefficienza dell’amministrazione e sul potere  discrezionale ­ La struttura ad arcipelago dello stato contrastava con i principi democratici su cui si fondava la  repubblica: tale struttura tendeva a servire più i vari interessi di corrente o di coalizione che non le  direttive del governo in carica. Le istituzioni elettive della repubblica (Parlamento e consiglio comunali e  provinciali) furono così consapevolmente aggirate. ­ Il clientelismo divenne una prassi corrente nelle nomine dei pubblici funzionari e persino nel modo di  agire quotidiano dei principali centri di potere dello stato La DC e la società civile Fanfani e il nuovo Partito Quando nel 54 divenne segretario del Partito, Fanfani cominciò a rivitalizzare il Partito. Egli era convinto che la  sconfitta del 53 fosse dovuta a un insufficiente radicamento del Partito nella società civile, all’eccessiva  dipendenza dalla Chiesa cattolica, alla mancanza di un’efficiente organizzazione paragonabile a quella dei  comunisti. Lanciò così una serie di campagne di tesseramento.  Ben presto il numero degli iscritti nel meridione superò quello del Nord; tale aumento servì soprattutto ad  aumentare la rappresentanza a livello nazionale di alcune correnti di Partito. Nel 55 infatti Fanfani aveva  dichiarato guerra alle cricche e ai notabili del Meridione. La Chiesa cattolica e la società italiana  Per tutti gli anni 50 la DC continuò a fare molto affidamento sulla profonda penetrazione della Chiesa nella  società italiana e sul suo esplicito appoggio politico all’epoca delle elezioni. A fianco delle parrocchie, e strettamente collegate a esse, stavano le organizzazioni dell’Azione cattolica, che  pianificavano una serie di attività religiose e sociali. Oltre all’Azione cattolica e ai Comitati civici ad essa collegati, esisteva una robusta rete di cooperative cattoliche,  organizzate nella Confederazione delle cooperative italiane (Cci).  Anche l’educazione religiosa obbligatoria, stabilita dai Patti Lateranensi, offriva alla Chiesa uno strumento  d’incomparabile efficacia x entrare in contatto con la popolazione. Inoltre la Chiesa aveva costruito un’imponente rete di ospedali, case di cura e di riposo x anziani, gestite da  diversi ordini religiosi. Le organizzazioni collaterali della DC  La più potente e riuscita di queste organizzazioni era la Coldiretti, che Bonomi aveva fondato nel 44 x difendere  gli interessi dei contadini poveri. Le ragioni del suo successo erano 2: i servizi che essa poteva offrire ai  contadini e i privilegi che otteneva x loro grazie alla propria influenza sull’apparato statale e in particolare al  ministro dell’Agricoltura. Cruciale risultò la conquista della Federconsorzi (organizzazione che comprava  all’ingrosso e vendeva attrezzi, fertilizzanti, sementi,… offriva crediti e aiutava gli agricoltori)da parte di Bonomi.  Il controllo che riuscì ad averne gli permise de presentarsi come l’elemento di collegamento tra industria  settentrionale e i piccoli agricoltori, e di essere arbitro della distribuzione degli aiuti Marshall nelle aree agricole. Se la Coldiretti veniva incontro agli agricoltori, le Acli e la Cisl erano organizzazioni cattoliche x gli operai. Le Acli erano state fondate nel 44 con lo scopo di mantenere ai lavoratori un’area autonoma di organizzazione e  attività, ma il loro ruolo dovette essere riconsiderato dopo la scissione della Cgil nel 48. Dopo la vittoria di De  Gasperi alle elezioni e lo sciopero di protesta x il tentato assassinio di Togliatti, non vi era più nulla che poteva  tenere unita la Cgil: la minoranza cattolica annunciò la propria decisione di scindersi, presto seguita da  repubblicani e socialdemocratici. Due anni dopo il sindacalismo assunse il carattere triplice che mantiene ancora  oggi: la Cgil rappresentava i lavoratori socialisti e comunisti, la Cisl cattolici e democristiani, la Uil i  socialdemocratici e i repubblicani. Col tempo le Acli tesero a dedicarsi di più ad attività sociali e all’educazione morale e religiosa dei lavoratori. La famiglia cristiana Per quanto riguarda i rapporti famiglia­stato, l’enfasi maggiore era posta sul bisogno di proteggere la famiglia da  un controllo esterno. Le organizzazioni cattoliche erano la più importante difesa della famiglia, la quale deteneva  il primato sopra la società; il compito principale dei cattolici era di curare i valori spirituali e l’armonia della  famiglia. Una tale ideologia si prestava alla critica. Poteva infatti essere accusata di andare incontro al familismo, di  isolare la famiglia dalla società, di sottolineare le virtù private più che quelle pubbliche. Tuttavia l’insegnamento sociale cattolico aveva cercato di correggere l’equilibrio tra famiglia e società ponendo  la famiglia in un più ampio contesto sociale. A questo nuovo impulso sociale si sarebbe accompagnata poi una  visione “integralista” del ruolo cattolico nella società: il bisogno di conformare tutte le istituzioni della società  civile ai valori cattolici. La famiglia cattolica doveva essere difesa contro la minaccia comunista e le intimidazioni della società moderna.  Solo facendola uscire dall’isolamento si sarebbe potuto conseguire tale obbiettivo. La DC nel nord e nel sud Nel nord la storica robustezza dell’associazionismo cattolico attirava le famiglie in una realtà totalizzante dove  ogni attività sociale ruotava intorno alla parrocchia e alle associazioni ad essa collegate. Nel sud, al contrario,  dove tale genere di associazionismo era molto più debole. La DC seppe costruirsi una base di massa attraverso  l’uso clientelare delle risorse pubbliche, ovvero attraverso la creazione di legami di tipo materiale e non  ideologici. Nel sud il clientelismo era più importante dell’ideologia, il Partito più dei vescovi e il governo locale più  dell’associazionismo cattolico. Il Partito non era lo stesso in tutte le località, ma i livelli principali della gerarchia sono generalmente riconoscibili: ­ i capi­corrente (ex Moro, Leone, Fanfani, Andreotti, Colombo) ­ segretari cittadini e notabili di partito (senatori, deputati, ministri, sottosegretari, direttori di enti speciali) ­ grandi elettori(influenti personaggi locali capaci di raggiungere più di un gruppo sociale; ex medici, preti,  proprietari,…) ­ capi elettori (sergenti e caporali dell’esercito democristiano, attivisti capaci di raggiungere un unico  settore) ­ gente comune che era divenuta cliente del Partito. Nel nord cattolico un’ideologia integralista cercava di legare la famiglia alle organizzazioni clericali e alla crociata  x una società cattolica. Nel sud il rapporto famiglia­chiesa­società era diverso: la famiglia lottava x la propria  sopravvivenza, la chiesa prendeva la forma del santo protettore e la società quella del protettore politico  benefico. Il profitto che il Partito si aspettava dai favori dispensati era la “bustarella” a livello più alto, mentre ai livelli più  bassi era la fedeltà al momento del voto. L’Italia della DC Durante gli anni 50 la DC riuscì a costruirsi un consenso in molti settori significativi della società, fondato su basi  sia materiali che ideologiche.  Cattolicesimo, americanismo e fordismo: insieme essi crearono un’improbabile ma formidabile base x l’ideologia  dominante. Era anche vero però che l’iperattivismo politico del militante comunista maschio poneva seriamente a  repentaglio la propria vita famigliare. Un’altra zona, non di silenzio ma di vera e propria mistificazione, riguardava l’atteggiamento del Partito verso  l’URSS. Negli anni 50 il Pci era caratterizzato dallo stalinismo e da un’adulazione servile di Stalin. La tendenza a  rappresentare Stalin come una figura paterna di proporzioni sovraumane fu accompagnata dalla raffigurazione  dell’URSS come una società in cui i problemi della democrazia e della giustizia sociale erano stati risolti  definitivamente. Si diffuse l’abitudine di citare gli scritti dei dirigenti storici del Partito, Gramsci e Togliatti, come  se fossero dei testi biblici. Un altro aspetto, ancora più negativo, di questo atteggiamento era la diffusione della menzogna politica da parte  della dirigenza e la sua accettazione da parte della base. Strettamente legato a questo era l’atteggiamento del  Partito nell’educazione politica: la base veniva rassicurata con una versione distorta della realtà storica (il  capitalismo era condannato ed incapace di riprendersi, la rivoluzione avrebbe risolto ogni contraddizione, l’URSS  era il paradiso terrestre). L’ultimo aspetto che il Pci accolse dall’URSS fu l’organizzazione gerarchica e la mancanza di democrazia  interna. Si elogiavano a parole il controllo operaio, la democrazia diretta, l’ideale dei soviet, ma il potere reale era  concentrato nelle mani del segretario del Partito e le decisioni passavano dal vertice alla base invece che nel  modo inverso. Il Pci a livello locale: l’Emilia Romagna Dalla fine della guerra in poi i comunisti governarono incontrastati nell’Emilia Romagna. Non si trattava di una regione in cui dominava l’industria, con la relativa classe operaia, ma dove prevalevano  piccole aziende, artigiani, mezzadri e braccianti. Prima dell’unificazione aveva fatto parte dello stato pontificio, da cui derivava l’ardente anticlericalismo, e nelle  leghe bracciantili si era stabilita, all’epoca della 1GM, un’imponente tradizione socialista e cooperativistica. Dopo  che il fascismo ebbe distrutto le organizzazioni del movimento operaio, i comunisti presero il posto dei socialisti  sia x il loro ruolo preponderante nella Resistenza locale, sia x il loro merito nell’aver sviluppato la strategia delle  alleanze sociali. La ricerca di un’influenza sempre più larga nella regione spinse il Pci a cercare di coinvolgere nell’attività del  Partito un maggior numero di donne. Per ultimo, estese la propria strategia delle alleanze agli intellettuali e ai  ceti affaristici e commerciali delle città. Artigiani, commercianti e piccoli imprenditori furono rassicurati che  l’azione comunista non sarebbe stata diretta contro di loro e i loro interesse sarebbero stati salvaguardati. Il consiglio comunale di Bologna in questi 10 anni non si espose mai al deficit, mentre la sua efficienza e onestà  contrastavano favorevolmente con il caos e la corruzione di molte altre parti d’Italia. Il 1956 Fu l’anno dei cambiamenti radicali x la sinistra. Il punto di partenza di tutto fu il XX Congresso del Pcus(Partito  comunista dell’unione sovietica) in febbraio, dove Kruscev (membro della direzione collegiale del Partito  insediata dopo la morte di Stalin) sostenne la possibilità che diversi paesi arrivassero al socialismo con mezzi  diversi. Nel rapporto segreto del Congresso Kruscev denunciò inoltre Stalin x le purghe, x aver distrutto la  democrazia nel Partito e creato un culto della personalità. Quando tale rapporto giunse alla stampa occidentale,  costituì una miniera d’oro x le accuse della destra al movimento comunista. Togliatti reagì (in un intervista)criticando i dirigenti sovietici non per aver fatto le rivelazioni ma x non essere  andati abbastanza avanti: egli chiedeva il come e il perché, in una società socialista, a Stalin fosse stato  possibile fare tutto quello che era stato denunciato. Egli utilizzò l’intervista anche x introdurre il concetto di  policentrismo: il movimento socialista non doveva più ruotare solamente attorno all’URSS, ma andava  progressivamente articolato e doveva avere un carattere policentrico. Togliatti inoltre rimproverò i dirigenti sovietici x l’acritica adulazione di Stalin a cui ci avevano abituato, ma evitò di  riconoscere le proprie responsabilità e fine di non essere stato al corrente dei crimini commessi (ma negli anni  30 Togliatti era vice­segretario del Comintern). In autunno la rivoluzione ungherese portò a ulteriori dissensi all’interno del movimento comunista internazionale:  sull’onda della repressione armata sovietica alla rivolta, molti attivisti abbandonarono i partiti comunisti  occidentali. I dirigenti del Pci si pronunciarono in favore dell’invasione sovietica (negando il dato dell’adesione  delle classi lavoratrici alla rivolta e denunciando gli obbiettivi reazionari dei partecipanti), ma all’interno del Partito  si scatenò il dibattito su cause e responsabilità della tragedia ungherese. Il momento culminante del 56 giunse in dicembre con l’ottavo congressi del Partito. Molti delegati raccontarono  di un crescente sconcerto tra le fila della base. Il momento più drammatico del congresso si ebbe con gli  interventi di quei comunisti che dissentivano apertamente dalla linea del Partito. In testa vi era Antonio Giolitti  (nipote del presidente del Consiglio) che fece 3 richieste: che si stabilisse un’effettiva libertà di opinione e  discussione nel Partito; che la direzione riconoscesse l’importanza delle libertà democratiche e ammettesse i  propri errori nell’aver definito il regime ungherese precedente la rivoluzione come legittimo, democratico e  socialista; che il Pci raggiungesse una piena autonomia nei rapporti con gli altri partiti comunisti. I dissidenti non erano forti e fu abbastanza facile x la direzione ottenere il consenso della grande maggioranza  dei delegati. Giolitti, Diaz, Onofri e Reale furono espulsi o si dimisero. Il 56 aprì una nuova fase nei rapporti del Partito con il movimento comunista internazionale: gradualmente il Pci  rivendicò la propria autonomia, divenendo più eurocentrico. In secondo luogo si avviò un lento e graduale  spostamento nelle posizioni del Partito circa il rapporto tra democrazia borghese e democrazia socialista: si  accettò sempre di più il valore permanete delle libertà civili e politiche racchiuse nella democrazia parlamentare  e non più la loro semplice approvazione ai fini di un’utilità tattica. Come terzo effetto, l’atmosfera culturale e intellettuale del Partito conobbe una trasformazione notevole: la  pedanteria, il moralismo e la chiusura degli anni dello stalinismo diedero luogo a un atteggiamento più tollerante  e creativo. Di importanza ancora maggiore x il successivo decennio della politica italiana  fu la trasformazione che il 56 mise  in moto nel Psi. I socialisti condannarono l’invasione sovietica dell’Ungheria e l’atteggiamento del Pci a riguardo.  La strategica soggezione socialista al Pci era finita, il 56 fu il primo anno dopo la guerra in cui non venne  rinnovato il patto d’unità d’azione con i comunisti. Molti di coloro che lasciarono il Pci entrarono nel Psi. 7. IL MIRACOLO ECONOMICO, LA FUGA DALLE CAMPAGNE, LE TRASFORMAZIONI SOCIALI, 58­63 Il miracolo economico Le origini Gli anni dal 50 al 70 furono un periodo d’oro x il commercio internazionale. Il fordismo (produzione in serie  automatizzata di beni di consumo) e il consumismo divennero le divinità gemelle dell’epoca. In questo periodo di espansione l’Italia divenne uno dei protagonisti x molte ragioni: ­ La fine del tradizionale protezionismo dell’Italia le permise di essere in prima linea nell’espansione e  nell’integrazione economica dell’Europa (rivitalizzò il sistema produttivo, lo costrinse a rimodernarsi). Gli  industriali non videro di buon occhio l’aprirsi di una competizione europea, ma l’industria italiana aveva  raggiunto un sufficiente livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tale da renderla in  grado di reagire alla creazione del Mercato Comune. Ancora prima del “miracolo” alcune aree dell’industria si erano dilatate. Nel 53 Valletta aveva deciso  d’investire nella catena di montaggio x la Fiat 600 e il suo successo annunciò l’epoca della  motorizzazione di massa.  Il piano Marshall inoltre aprì nuovi orizzonti alle aziende italiane ­ La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell’industria dell’acciaio ruolo importante  dell’Eni e dell’Iri). La scoperta del metano e degli idrocarburi in Val Padana da parte dell’Eni e  l’importazione di combustibili liquidi a basso prezzo voluta da Mattei fornirono un’alternativa  all’importazione di carbone e permisero agli imprenditori di ridurre i loro costi. Importante furono anche i  nuovi sforzi x creare una moderno industria siderurgica sotto l’egida dall’Iri. La Finsider si rafforzò  sempre di più e riuscì a fornire alle aziende acciaio a prezzi minori. ­ Le opere di infrastruttura (ex autostrade) ­ La stabilità monetaria, la mancanza del controllo fiscale sul mondo degli affari, il mantenimento di un  tasso di sconto favorevole da parte della Banca d’Italia (elementi che permisero l’accumulazione del  capitale e investimenti nell’industria). ­ Il basso costo del lavoro. Oltre agli alti livelli di disoccupazione, il potere dei sindacati nel dopoguerra era  stato spezzato, e adesso era aperta la strada verso un aumento della produttività e dello sfruttamento.  L’idea­guida della liberalizzazione degli scambi con l’estero, patrocinata dal Mec (mercato europeo  comune), trovò la sua controparte nella libertà dell’imprenditore sui luoghi di lavoro. La crescita Negli anni 58­63 la media del tasso annuo di crescita raggiunse un livello mai ottenuto prima: il 6,3%. Gli  investimenti in macchinar e impianti industriali aumentarono, la produzione industriale raddoppiò (con alla testa  l’industria metalmeccanica e petrolchimica). Fu soprattutto l’esportazione a costruire il settore guida  dell’espansione, effetto del Mercato Comune. Esso mutò anche il tipo di beni esportati: i prodotti tessili e  alimentari cedettero il passo a quei beni di consumo che erano maggiormente richiesti nei vari paesi industriali  avanzati (ex frigoriferi, lavatrici automobili, tv, macchine da scrivere,…) e che rispecchiavano un reddito pro  capite più elevato di quello italiano. La straordinaria crescita dell’industria elettrodomestica italiana fu una delle espressioni più caratteristiche del  miracolo. Dietro questa crescita vi erano un gran numero di fattori: l’abilità imprenditoriale di autofinanziarsi nei  primi anni 50, l’utilizzo di nuove tecnologie e il rinnovamento degli impianti, lo sfruttamento del basso costo del  lavoro e l’elevata produttività, l’assenza fino ai tardi anni 60 di una significativa organizzazione sindacale. La distribuzione geografica della produzione industriale si allargò ben oltre i confini del triangolo industriale  (anche in Emilia Romagna). Nel 61, l’anno del censimento, gli occupati nell’industria avevano raggiunto il 40%, mentre l’occupazione  nell’agricoltura era scesa al 30%. Gli squilibri Uno degli aspetti più ragguardevoli del miracolo economico fu il suo carattere di processo spontaneo. I progetti di  superamento dei maggiori squilibri sociali e geografici grazie a uno sviluppo economico controllato teorizzato dal  piano Vanoni non videro mai la luce. Il boom seguì una logica sua, rispondendo al libero gioco delle forze di  mercato e dando così luogo a profondi scompensi strutturali: ­ La distorsione dei consumi. Una crescita orientata all’esportazione comportò un’enfasi sui beni di  consumo privati, spesso di lusso, senza uno sviluppo dei consumi pubblici (ex scuole, ospedali, case,  trasporti,..). Il miracolo servì ad accentuare il predominio degli interessi delle singole unità famigliari  dentro la società civile. ­ Aggravò il dualismo insito nell’economia italiana. Da una parte vi erano i settori dinamici con alta  produttività e tecnologia avanzata; dall’altra rimanevano i settori tradizionali dell’economia, con grande  intensità di lavoro e bassa produttività. ­ Accrebbe lo squilibrio tra nord e sud. Il miracolo fu un fenomeno essenzialmente settentrionale, e la parte  più attiva della popolazione meridionale non ci mise molto ad accorgersene. La terza Italia e il miracolo economico Nel centro e nel nord­est lo sviluppo sociale e economico fu radicalmente diverso rispetto a quello del triangolo  industriale o del sud. Le famiglie mezzadrili, divenute proprietarie di terreni negli anni 50, non ricavarono da essi una nuova prosperità:  erano appena autosufficienti e non disponevano dei capitali x compiere le migliorie indispensabili. Questo portò i  giovani a cercare fortuna nei capoluoghi o nelle grandi città, mentre la generazione anziana continuava ad  occuparsi della terra. L’industrializzazione della terza Italia fu caratterizzata dalla diffusione delle piccole fabbriche con meno di 50/20  adetti La crescita industriale non fu confinata alle principali città, ma si diffuse nelle piccole cittadine e nelle campagne  limitrofe: “industrializzazione diffusa” e “campagna urbanizzata” divennero termini largamente usati x descrivere  questo modello di crescita economica. Città e campagna moltiplicarono i loro legami reciproci, fino a formare dei  veri e propri distretti industriali, in genere specializzati in un solo ramo della produzione (ex ceramiche a  Sassuolo, il tessile a Prato). I giovani delle famiglie mezzadrili, dopo aver lasciato la terra ed esser diventati operai, decisero di mettersi in  proprio.  Per sopravvivere e ingrandirsi, questi giovani industriali dei primi anni 60 si affidarono alle risorse e  all’esperienza della propria famiglia: lavoro e famiglia erano così saldamente legati in un clima di dinamismo  economico, autosfruttamento e rapida mobilità sociale. A livello locale le amministrazioni democristiane e comuniste fecero del loro meglio x aiutare le nuove aziende. I  comunisti non vedevano con favore il declino dei mezzadri come forza politica, ne il sostegno ai nuovi  imprenditori era facilmente conciliabile con i valori del socialismo, ma si poteva fare ricorso alla strategia delle  alleanze x appianare questa contraddizione: la piccola industria era alleata contro lo strapotere dei monopoli. I mutamenti nella struttura di classe La classe imprenditoriale subì una trasformazione notevole. Il portavoce ufficiale di questo ceto continuava a  essere la Confindustria, sospettosa verso il Mec, risentita nei confronti dell’industria di Stato, ostile perfino a una  maggiore indipendenza della Cisl. I settori che avevano tratto vantaggio dal boom (speculatori edili,  petrolieri)condividevano l’ideologia della Confindustria; altri, tra cui la Fiat e le aziende esportatrici, erano più  europee nell’aspetto, più aperte a nuove idee, più sensibili alle influenze americane. Sia nell’industria privata che pubblica aumentò il numero dei manager, spesso formati in America, propagatori  delle idee di marketing e di organizzazione americane. A livello delle piccole fabbriche era nata un’intera nuova generazione di industriali: persone con cultura e  istruzione limitate, ma risolute, pronte a girare il mondo x cercare mercati ai propri prodotti.  Alcune categorie di professionisti (ingegneri, architetti, avvocati,…)aumentarono le loro fortune e prestigio, e allo  stesso tempo vennero alla ribalta nuove professioni (esperti/tecnici pubbliche relazioni/pubblicità/comunicazione  di massa). Nel settore statale, i posti di lavoro più professionalizzati rimanevano a livelli quantitativamente modesti. Il settore della forza­lavoro che conobbe l’espansione più rapida fu quello impiegatizio. Vi fu un marcato declino in alcuni mestieri tradizionali, che venne però compensato dalla rapida crescita di nuove  attività (ex elettricista o meccanico x auto). Misure protettive attuate dai diversi governi della DC avevano limitato la diffusione di supermercati e favoriti i  negozi a conduzione famigliare. La forza numerica della classe operaia crebbe costantemente e aumentarono anche i lavoratori edili e quelli dei  trasporti. Infondo alla scala sociale vi erano i lavoratori occasionali, i sottoccupati e i disoccupati. Il loro numero  complessivo diminuì nelle campagne, ma non il loro peso relativo. Spesso gran parte della forza­lavoro agricola  sottoutilizzata si era solo spostata nelle periferie delle grandi città (baraccopoli, borgate). Alcuni tiravano avanti  grazie all’edilizia, altri erano dediti a commerci di ogni sorta, altri ancora vivevano di piccola criminalità. Cultura e società nel miracolo economico Gli anni del miracolo furono il periodo­chiave di uno straordinario processo di trasformazione che toccò ogni  aspetto della vita quotidiana: la cultura, la famiglia, i divertimenti, i consumi, perfino il linguaggio e le abitudini  sessuali. Negli anni dal 50 al 70 il reddito pro capite in Italia crebbe più rapidamente che in ogni altro paese europeo salvo  la Germania Federale. Pressate dalla pubblicità, le famiglie italiana (soprattutto del nord e del centro) spesero le nuove ricchezze  nell’acquisto di beni di consumo durevoli mai posseduti in precedenza (ex tv, frigorifero). Le abitudini alimentari  cambiarono radicalmente, così come il modo di vestire (le donne del sud abbandonarono il nero x i vestiti fatti in  serie, tutti potevano comprare scarpe adeguate). Lo stato aveva svolto un ruolo importante nello stimolare il rapido sviluppo economico ma aveva fallito nel  gestirne le conseguenze sociali. In assenza di pianificazione, di educazione al senso civico, di servizi pubblici  essenziali, la singola famiglia (soprattutto nei ceti medi) cercò un’alternativa nella spesa e nei consumi privati. Il  miracolo si rivelò un fenomeno privato, riaffermando la tendenza storica di ogni famiglia a contare quasi  esclusivamente su se stessa x il miglioramento delle proprie condizioni di vita. La televisione Nessuna novità ebbe in questi anni un impatto più grande sulla vita di tutti i giorni della tv. Essa comparve nel 54  e, come ovunque in Europa, era un monopolio di stato: in Italia era controllata dalla DC (Guala presidente rai)e  pesantemente influenzata dalla Chiesa. Vi erano programmi regolari di educazione religiosa, mentre le notizie e i  servizi giornalistici contenevano pregiudizi anticomunisti. Musica leggera, varietà, quiz e avvenimenti sportivi  erano i programmi più diffusi. All’inizio, il guardare la tv costituiva una forma di intrattenimento collettivo (gli apparecchi privati erano un  privilegio), ma man mano che le famiglie si dotarono dell’apparecchio, si accentuò la tendenza a un uso passivo  e famigliare del tempo libero, a scapito, dei passatempi a carattere collettivo e socializzante. Tempo libero e mobilità Nonostante la crescita del pubblico televisivo, l’andare al cinema continuava e essere uno dei passatempi  favoriti dagli italiani.  Nel campo letterario, il pubblico dei lettori continuò a essere più ristretto rispetto a quello di  altri paesi, anche x la lenta alfabetizzazione della popolazione. Il settore della lettura popolare (nonostante il  boom delle vendite dei libri tascabili) continuò  a essere dominato dai rotocalchi. L’accresciuta mobilità costituì, insieme alla tv, la novità più rilevante nell’utilizzazione del tempo libero. La Fiat  600 venne seguita da una più piccola e economia 500 e la quantità di ferie pagate aumentò. Donne, famiglia, costumi sessuali La grandezza della famiglia declinava ovunque, mentre i tipi mutavano lentamente. Il carattere autoritario interno  alla famiglia divenne meno rigido e così pure il controllo del padre sulle finanze familiari. Fuori di casa i giovani  trovavano che le costrizioni della vita rurale stavano scomparendo: c’era maggiore libertà, nuovi passatempi e  spazio x nuove ambizioni. Gli anni 60 segnarono anche una svolta nel ruolo della donna all’interno della famiglia: toccava a loro  (soprattutto al nord)occuparsi dei figli che passavano più anni a studiare, dei mariti che lavoravano fino a 12­14  ore. Le riviste femminili e la pubblicità esaltavano questa figura di donna moderna, tutta casa e famiglia, vestita  con cura, i figli bene in ordine e una casa spendente piena di elettrodomestici. Le prime crepe nella morale ufficiale iniziarono ad apparire, ma occorreva almeno un altro decennio prima che le  abitudini sessuali conoscessero un mutamento rilevante a livello di massa. Il declino della religiosità Una delle conseguenze più significative dell’esodo dalle campagne e dell’urbanizzazione fu il declino  dell’influenza della Chiesa. Il numero delle vocazioni sacerdotali era caduto drasticamente, la frequenza alle  cerimonie religiose era bassa, la differenza tra il cattolicesimo settentrionale e quello meridionale veniva  sottolineata. Speculazione edilizia e distruzione del paesaggio L’aspetto peggiore del modello di sviluppo italiano fu l’incontrollata speculazione edilizia. Dal 50 all’80 si  verificarono mutamenti catastrofici nel paesaggio, molti centri storici furono trasformati irreversibilmente, l’Italia  urbana si ampliava disordinatamente senza controlli e piani regolatori. La situazione fu il frutto di precise scelte politiche. I governi degli anni 50/60 lasciarono massima libertà  all’iniziativa privata nel settore edilizia: non fu preso alcun provvedimento di pianificazione urbanistica x parchi e  parcheggi necessari, spesso i palazzi erano costruiti senza riguardo x le norme edilizie o le misure di sicurezza. Durante il grande boom edilizio del 53­63 vi fu spesso aperta collusione tra autorità municipali e speculatori. Il  “sacco di Roma” ne fu una testimonianza drammatica: ai più grandi proprietari immobiliari (ex Società generale  immobiliare, il cui principale azionista era il Vaticano) fu permesso di costruire su tutti gli spazi disponibili della  città, e di coprire successivamente la periferia con interi isolati costruiti al risparmio ed esteticamente brutti. Un nuovo modello di integrazione sociale? Il miracolo economico, intrecciando un accresciuto tenore di vita con un accentuata individualismo, sembrò  esaudire il sogno americano: si era introdotto in Italia un nuovo modello di integrazione sociale.  Tali sviluppi apparvero poco rassicuranti ai custodi dell’ortodossia cattolica e del dogma comunista. I cattolici  giudicavano l’inurbamento come l’anticamera della secolarizzazione: le loro tradizionali basi nella campagne  stavano x essere distrutte, la famiglia cattolica era sottoposta a un pesante attacco e stava x essere scalzata dal  modello americano di società consumistica. Per i comunisti, televisione e consumismo determinarono una  diminuzione della partecipazione alle organizzazioni del Partito. Dentro le famiglie si stavano rapidamente sgretolando i vecchi modelli autoritari, almeno tra i vecchi e i giovani, i  quali si ritrovavano una libertà mai conosciuta. Fu soprattutto nelle fabbriche che il modello italiano di modernizzazione rifiutò di seguire ogni facile profezia di  una rapida integrazione sociale. Sotto questo aspetto l’esperienza italiana si differenzia da quella tedesca.  L’epoca del miracolo in Germania fu contrassegnata dall’emergere di profonde divisioni all’interno della classe  lavoratrice tra la componente tedesca e gli immigrati. I meridionali che si spostavano al nord, al contrario,  appartenevano alla stessa nazione degli abitanti del settentrione e godevano degli stessi diritti. Sta di fatto che  l’ingresso di meridionali nelle fabbriche del nord non si tradusse in una minore conflittualità e pace sociale: quel  fenomeno segnò l’inizio di un ciclo quasi ventennale di lotte collettive. La ripresa dei conflitti sociali al nord La ripresa dell’iniziativa operaia è dovuta a diversi fattori, tra cui: ­ La situazione di quasi piena occupazione diede agli operai quella fiducia in se stessi persa nella seconda  metà degli anni 40. In particolare, gli immigrati scoprirono che con la protesta spesso miglioravano le loro  Per molti verso però era un convinto tradizionalista, portava con sé molti dei pregiudizi del mondo contadino in  cui era cresciuto e dei circoli ecclesiastici in cui aveva passato la maggior parte della vita. D’altra parte aveva  un’acuta consapevolezza di quanto il mondo stesse cambiando e di quanto fosse importante x la chiesa  comprendere tale cambiamento e adattarvisi. Egli fu favorevole all’apertura a sinistra e che la chiesa  abbandonasse la prassi di intervenire direttamente nella vita politica italiana. Cercò inoltre di instradare la chiesa  in una nuova direzione. In un enciclica egli respingeva il libero gioco delle forze di mercato, sottolineando la  necessità di una maggiore giustizia sociale e rivendicando l’integrazione sociale e politica degli emarginati. Nel 63 promulgò la sua ultima enciclica, Pacem in Terris, un invito alla conciliazione internazionale, basato sulla  neutralità della chiesa e sul suo rifiuto di accettare le barriere della guerra fredda. Lo spirito di questo messaggio  era l’esatto contrario degli appelli di Pio XII alla guerra santa contro l’Est ateo e comunista x la difesa  dell’Occidente. L’enciclica era indirizzata non solo ai cattolici e dimostrava come fosse necessaria una  cooperazione tra persone di diverso credo ideologico. Essa sottolineava ,inoltre, la necessità di un miglioramento  economico e di uno sviluppo sociale x le classi lavoratrici, auspicava l’ingresso delle donne nella vita pubblica e  mostrava comprensione x le lotte anticoloniale nel Terzo Mondo. Si aprì così lo spazio x il dialogo fra cattolici e marxisti, democristiani e socialisti poterono finalmente trattare. Il ceto imprenditoriale e il centro­sinistra Nei primi anni 60 alcuni settori del ceto imprenditoriale (Fiat, Pirelli, Olivetti)seguirono lo stesso percorso della  maggioranza della sinistra e si convertirono al centro­sinistra. Due aspetti del centro­sinistra li attraevano particolarmente: la programmazione economica nazionale (favoriva  la crescita di tali settori) e si riteneva che la presenza socialista al governo avrebbe aiutato a contenere le  tensioni nelle fabbriche. La Confindustria rimase nelle mani dei monopoli dell’elettricità, i quali sapevano di essere il principale obiettivo  delle nazionalizzazioni del centro­sinistra, e per questo si oppose fermamente all’apertura a sinistra. Ancora una  volta nella storia d’Italia, settori importanti della classe dominante voltavano fermamente le spalle a una politica  progressista e a una più equa cooperazione con le classi socialmente più deboli.   Riforme e riformismo Quale sarebbe stato il contenuto concreto del programma di riforma proposto dalla nuova coalizione? ­ Secondo i “riformisti” (tra cui La Malfa, Saraceno e Fanfani) lo sviluppo capitalistico era fuori discussione,  ma bisognava correggere le distorsioni e gli squilibri del caso italiano. Erano perciò necessaria una serie  di riforme correttive che avrebbe dovuto affrontare problemi storici (povertà sud e arretratezza  agricoltura). Queste riforme erano anche intese a trasformare i rapporti tra stato e cittadini e a corregge  lo squilibrio tra consumi privati e quelli sociali (attraverso una burocrazia più efficiente e non corrotta, le  organizzazioni regionali e enti locali riorganizzati x affrontare l’urbanizzazione). Il boom offriva x loro un’occasione unica x portare a termine l’integrazione economica e politica delle  classi inferiori entro lo stato nazionale ­ Per il Pci e il Psi (sia quelli a favore del c­sx sia quelli a sfavore) bisognava attuare una serie di riforme  strutturali, non correttive. Ogni riforma doveva costituire un passo avanti nella strada verso il socialismo.  Le riforme strutturali non dovevano aiutare il capitalismo ma metterlo in discussione. Secondo la corrente  autonomista nenniana  ,invece, esisteva una base oggettiva per un’alleanza tra il movimento operaio e il  capitale “progressista”. ­ I minimalisti (dorotei e Moro) sostenevano in linea di principio l’idea delle riforme correttive , ma le  consideravano un obbiettivo secondario, subordinato alle esigenze strategiche del Partito. Il c­sx non  doveva trasformare l’aspetto dell’Italia, ma piuttosto quello del Psi. Queste 3 concezioni delle riforme convissero nel lungo periodo di gestazione del c­sx, mentre gli anni 62­68  videro il loro scontro e il prevalere di una di esse. Il primo governo di centro­sinistra, 62­63 Nel marzo 62 Fanfani formò il primo governo di centro­sinistra, che comprendeva democristiani,  socialdemocratici e repubblicani. Il momento non era ancora matura x l’ingresso dei socialisti al governo. Il programma economico del governo venne definito in maggio in una “nota aggiuntiva” alla relazione generale  sulla situazione economica del paese nel 61. Il ministro repubblicano del Bilancio La Malfa  sottolineava la  necessità di una pianificazione economica concertata con  sindacati e industriali. Il recente sviluppo economico  doveva fornire la base x la realizzazione di servizi sociali efficienti. Il Piano avrebbe creato il necessario equilibrio  tra agricoltura e industria, tra le diverse classi sociali, tra consumi pubblici e privati. Fanfani nazionalizzò l’industria elettrica (riforma correttiva):  avrebbe permesso al governo di stabilire i prezzi, di  programmare su scala nazionale le risorse energetiche, di fare investimenti dove erano necessari (ex sud); si  sperava inoltre che avrebbe distrutto quell’agglomerato di potere conservatore nel cuore del capitalismo italiano. Il vero scontro si ebbe sulla forma di indennizzo che bisognava versare. Il governatore della Banca d’Italia, Carli,  voleva che si pagasse direttamente alle vecchie aziende, le quali avrebbero così continuato ad esistere come  società finanziarie. Lombardi (socialista) auspicava che i trust venissero aboliti completamente e che l’indennizzo  venisse corrisposto dopo anni ai vecchi azionisti. Dopo molte discussioni vinse la linea della continuità di Carli. La nuova società nazionale di elettricità che venne creata, l’Enel, cominciò un programma di investimenti  massicci, ma non riuscì’ a ridurre il costo dell’elettricità x i consumatori. Altre 2 riforme caratterizzarono questa prima fase del c­sx: l’approvazione della ritenuta sulle cedole azionarie (si  sperava di rendere pubblici i nomi degli azionisti e combattere l’evasione fiscale, aumentando al contempo le  entrate da reinvestire nelle riforme) ,e la creazione della scuola media unificata e l’elevamento dell’obbligo  scolastico a 14 anni. Nei primi anni della repubblica l’obbligo era fino a 11 anni, dopodiché chi voleva accedere alla scuola secondaria  veniva diviso tra chi voleva proseguire gli studi al liceo e chi sceglievano l’avviamento professionale.  Le spinte riformatrici del governo Fanfani trovarono a questo punto (fine 62) un’improvvisa interruzione. La  difficile situazione economica e politica della metà del 62 (scioperi, Piazza Statuto, eccesso domanda forza­ lavoro)aveva dato luogo ad un ondata di panico. Gli imprenditori scaricavano sui prezzi gli aumenti salariali concessi e la richiesta di alcuni beni di consumo  superava l’offerta, x la prima volta dopo gli anni 40 l’inflazione divenne un problema significativo. Come risposta  alla nuova tassa sui dividendi azionari si era accentuati il fenomeno della fuga dei capitali all’estero. La Borsa  crollò, la fiducia negli affari fu scossa. I dorotei convinsero Moro dei pericoli che avrebbe corso la DC se non si fosse posto un freno al dinamismo di  Fanfani (inflazione e panico finanziario minacciavano i piccoli e medi risparmiatori, sostenitori del Partito, così  come gli industriali). Nella primavera 63 si sarebbero dovute tenere le elezioni politiche. Moro decise di congelare subito 2 riforme: l’istituzione delle regioni (avrebbero dato più potere al Pci) e la  pianificazione urbanistica (x dare alle autorità pubbliche un controllo reale sui piani regolatori, x combattere la  speculazione, sollevò un vespaio a destra).  X quest’ultima Moro rilasciò un’intervista dicendo che la riforma era  una personale iniziativa del ministro dei Lavori pubblici Sullo e che la DC non ne era responsabile. Il 28 aprile 63 gli italiani andarono alle urne. La DC diminuì mentre liberali e comunisti aumentarono. Il primo governo Moro, 63­64 La DC era stata penalizzata x l’apertura a sinistra, ma Moro e i dorotei  decisero che l’esperimento doveva  continuare (in forma quanto più possibile moderata). Il presidente della repubblica Segni incaricò Moro di  formare il nuovo governo, e il leader doroteo Rumor divenne segretario del Partito. Moro condusse lunghi e delicati negoziati x una nuova coalizione di c­sx. solo nel dicembre 63 i socialisti  entrarono a fare parte del governo. Moro divenne presidente del Consiglio e Nenni vice presidente. L’ingresso nel governo Moro fu, x i socialisti, una tragedia. Negli ultimi 20 anni il Psi aveva conosciuto 2  scissioni: una a destra nel 47 con Saragat, e l’altra adesso, nel 64, a sinistra.38 deputati e senatori  abbandonarono il Partito e formarono il Psiup (Partito socialista di unità proletaria), mettendo così in luce le  scarse qualità di Nenni come dirigente del Partito. Il primo governo a partecipazione socialista fu un fiasco. La difficile situazione economica offriva a Moro il  pretesto per continuare a rinviare le riforme. Di fronte al persistere dell’inflazione e della fuga dei capitali, Carli e  Colombo introdussero decise misure deflazioniste (linea opposta alla “nota aggiuntiva”). Con la politica  deflazionistica crebbe la disoccupazione, le donne persero il posto di lavoro, parecchie fabbriche chiusero furono  assorbite, i consumi vennero compressi, il potere contrattuale dei lavoratori diminuì. Non potendo attuare le riforme in tale situazione, Moro propose in alternativa una politica dei 2 tempi: prima  bisognava ridare vigore all’economia, dopo si sarebbero riprese le riforme. Nenni si trovò in difficoltà in quanto  non poteva dimettersi x protesta e dimostrare quindi che gli scissionisti avevano ragione. I socialisti rimasero.  Nel 64, dopo il conflitto sull’educazione privata, Moro si dimise. L’affare De Lorenzo e il secondo governo Moro, 64­66 Nell’estate 64 vi fu, x la prima volta, un tentativo di sovvertire l’ordinamento democratico. Il presidente della  repubblica Segni aveva incaricato Moro di formare il nuovo governo. Era nota a tutti la contrarietà di Segni alla  formula di centro­sinistra e la sua avversione x i socialisti. Il 15 luglio 64, durante la consultazione x il nuovo  governo, Segni convocò al Quirinale il comandante dei carabinieri De Lorenzo. Nel 62 De Lorenzo era diventato comandante dei carabinieri e pochi mesi dalla sua nomina aveva creato una  moderna brigata meccanizzata (fornita di carri armati americani) , il suo piccolo “esercito personale”, superiore x  discipline ed efficienza al resto delle forze armate. All’inizio del 64 De Lorenzo preparò il piano “Solo”, che si presentava come un piano antinsurrezionale, ma era  esso stesso sovversivo. Si dovevano redigere liste di persone pericolose x la sicurezza pubblica e prepararne  l’arresto e la detenzione (tra loro vi erano tutti i leader comunisti, socialisti e sindacali). Nello stesso momento  sarebbero state occupate le prefetture, le stazioni radio­visive, le centrali telefoniche e le direzioni di alcuni  partiti. I carabinieri dovevano agire da soli, senza che le altre forze armate ne fossero a conoscenza . Una brigata meccanizzata non era certo sufficiente a portare a termine un colpo di Stato in un paese come  l’Italia, che aveva conosciuto recentemente un forte movimento di Resistenza popolare. Non si è mai appurato quanto conoscesse di questi preparativi il presidente della repubblica. Segni non era  certamente interessato a un colpo di stato, ma cercava seriamente di porre fine al c­sx, puntando a un governo  “non politico” di tecnici e forse a un accrescimento dei poteri presidenziali. Nenni e  i socialisti cercarono di evitare una grave crisi della repubblica ritirando subito ogni obiezione al loro  reingresso nel governo Moro, pur non essendo a conoscenza del piano di De Lorenzo ma nutrendo sospetti su  Segni. La minaccia delle crisi li aveva fatti entrare nel governo in circostanze non scelte da loro. Il programma del secondo governo Moro (fino al 66) risultava ancora più moderato del primo e realizzò  altrettanto poco. Per la prima volta la Confindustria dette un prudente benvenuto a un governo di c­sx. Moro continuò con la politica dei 2 tempi, appoggiato anche dai socialisti, i quali stavano progressivamente  cambiando le proprie priorità politiche puntando su una presenza stabile nel governo. Man mano che il Psi  cambiava, le differenze con il Psdi diventavano sempre meno evidenti. Nenni e Saragat cominciarono a parlare  di riunificazione x collocarsi alla pari tra comunisti e democristiani. La cooperazione tra i 2 partiti ricevette una  spinta dall’elezione di Saragat alla presidenza della repubblica, avvenuta nel 64, dopo che Segni si dimise x un  attacco di trombosi. Nel 60 il consiglio comunale divise la città in 15 quartieri, ciascuno con il proprio consiglio, nell’intento di  incoraggiare la gestione comunitaria della vita cittadina e di combattere isolamento e alienazione tipiche delle  aree di recente urbanizzazione. Per molti aspetti si può dire che gli obbiettivo del c­sx mai pienamente realizzati a livello nazionale, furono attuati  in contesto locale dai loro oppositori comunisti. 9. L’EPOCA DELL’AZIONE COLLETTIVA, 68­73 Tra il 62 e il 68 i governi di c­sx fallirono nel rispondere alle esigenze di un’Italia in rapido cambiamento. Tanto si  era parlato, ma non vi furono riforme effettive. Quello che seguì fu un periodo di straordinario fermento sociale,  la più grande stagione di azione collettiva nella storia della repubblica. Esso si diffuse dalle università e dalle  scuole nelle fabbriche e successivamente a tutta la società. La rivolta degli studenti, 67­68 Le origini del movimento studentesco L’introduzione nel 60 della scuola media dell’obbligo estesa fino ai 14 anni mostrava grandi lacune (curricula  tradizionale, carenze di aule e libri, mancanza di aggiornamento insegnanti) ma aprì nuovi orizzonti a migliaia di  ragazzi dei ceti medi e della classe operaia, e ,molti di loro decisero di continuare gli studi fino all’università. Questa nuova generazione di universitari entrò in un sistema che era già in avanzato stato di disfunzione.  L’ultima seria riforma universitaria risaliva al 23 e da allora si era fatto ben poco x rispondere ai bisogni di un  numero quasi duplicato di studenti. Vi erano pochi insegnati, o spesso disertavano le lezioni, mancava quasi del  tutto un contatto tra professori e studenti.  La condizione degli studenti­lavoratori era particolarmente intollerabile: lo stato no dava alcun sussidio se non  qualche borsa di studio ai più meritevoli, e spesso la riuscita degli esami era pregiudicata dall’impossibilità di  frequentare le lezioni e molti abbandonavano. L’università era sì aperta a tutti ma le probabilità che gli studenti  più poveri riuscissero ad ottenere la laure erano esigue. Anche con la laurea non c’era la sicurezza del posto di  lavoro. Queste erano le basi materiali della rivolta, ma ve ne erano altre di tipo ideologico. Molti studenti infatti  condividevano assai poco i valori dominanti dell’Italia del miracolo economico (individualismo, il potere  totalizzante della tecnologia, l’esaltazione della famiglia, la corsa ai consumi). Il senso di rifiuto trovò un fertile  terrene di crescita nelle minoranze che contestavano le 2 ortodossie dominanti in Italia, quella cattolica e quella  comunista. Il pontificato di Giovanni XXIII aveva prodotto nella chiesa un nuove fermento di idee e di iniziative. L’azione era  rivolta alla necessità di una maggiore giustizia sociale e alla formazione di comunità di base fondate su un forte  senso di collettività e solidarietà. Nello stesso periodo di andava manifestando una ripresa del pensiero marxista, soprattutto attraverso la rivista  “Quaderni rossi”: il numero di questi giovani intellettuali era limitato ma influenzarono molto il movimento  studentesco. Il 68 fu dunque molto più di una protesta contro la miseria della condizione studentesca; fu una rivolta etica, un  rilevante tentativo di rovesciare i valori dominanti dell’epoca. Questa rivolta etica ricevette ispirazione e identità  politica dalla drammatica e ineguagliabile congiura internazionale dei tardi anni 60. La guerra del Vietnam  cambiò il modo di guardare all’America: il mito americano fu infranto dai notiziari sui villaggi bombardati col  napalm e dall’esempio della Resistenza contadina alla guerra tecnologica americana.; x la gioventù italiana la  “vera” America divenne quella dei campus universitari in rivolta contro la guerra, della controcultura, del Black  Power. Contemporaneamente, un nuovo modello x la costruzione del socialismo sembrava sorgere dalla Rivoluzione  culturale in Cina del 66­67: il socialismo doveva essere reinventato, c’era bisogno di una “rivoluzione culturale”  contro i valori e le gerarchie costituite. Gli avvenimenti nell’America del Sud completarono le influenze sul movimento studentesco. La morte di Che  Guevara munì gli studenti del loro più grande eroe; inoltre ebbero grande risonanza gli insegnamenti dei preti  rivoluzionari sudamericani, che cercavano di riconciliare cattolicesimo con il marxismo. Il corso degli avvenimenti Il movimento esplose dall’autunno 67 (Trento x prima)alla primavera 68. Da dicembre 67 il movimento si diffuse  x tutto il paese, finché anche le università più addormentate delle province e del sud furono coinvolte nella lotta. L’occupazione dell’Università di Roma nel febbraio68 segnò x il  movimento un punto di svolta: vi fu l’intervento  della polizia e gli studenti reagirono. Rappresentò una svolta perché fino a quel momento il movimento era stato  pacifico. I valori del movimento Il fulcro del movimento era costituito da un irriverente anti­autoritarismo 8università, forze dell’ordine, famiglia). Anche il Pci era respinto dalla maggior parte in quanto “opposizione integrata”, incapace di combattere il  sistema. Il movimento non aveva un programma ben formulato, ma i principi ispiratori erano evidenti:  ­ Collettivismo: la democrazia diretta x controllare l’esercizio del potere (decisioni prese collettivamente); ­ Libertarismo:  ogni individuo doveva essere lasciato il più possibile libero di determinare le proprie scelte  e i propri comportamenti privati (liberazione anche sessuale) ­ Marxismo: si preoccuparono soprattutto di tradurre la coscienza in azione, organizzazione e lotta Il movimento all’inizio era abbastanza pacifico, e i suoi difensori fecero notare che fu la brutalità della polizia  dentro le università a provocare una risposta dello stesso tipo. Tuttavia la violenza fu accettata come inevitabile  e giustificata, ed entrò quasi incontestata tra i valori del movimento. La giusta violenza dei rivoluzionari (Mao,  Che, vietnamiti) veniva contrapposta a quella dei vietnamiti. Uno degli aspetti più significativi del movimento era dato dal fatto che x la prima volta una fetta consistente dei  ceti medi si spostava su posizioni di sinistra. Non erano però esenti da difetti: le assemblee spesso non erano un modello di democrazia diretta e gli studenti  non cercarono mai di incanalare la protesta x ottenere dei cambiamenti. La natura stessa della loro critica e della  loro organizzazione (radicale, anticentralista, utopistica) non favoriva un loro possibile trasformarsi in gruppo  efficace di pressione x le riforme: era il sistema a dover essere cambiato, non una sua parte. Tuttavia essi ebbero chiaro fin da subito che la loro aspirazione a un cambiamento radicale si sarebbe realizzato  solo avendo al proprio fianco una classe operaia convinta della necessità e della praticabilità di tale progetto: era  nelle fabbriche che si pensava si sarebbero combattute le battaglie decisive. Le lotte operaie, 68­73 Le origini dell’ “autunno caldo” del 69 Le condizioni che stavano alla base della fase di radicalismo del 62 non erano scomparse, c’erano stati  cambiamenti significativi, ma erano serviti ad aumentare piuttosto il conflitto di classe. All’interno delle fabbriche la grande ristrutturazione, seguita alla crisi del 64­65, aveva portato a una maggiore  meccanizzazione e a un crescente aumento dei ritmi di lavoro. La diffusione del cottimo aveva creato ulteriori  differenze tra gli operai. Si aprì anche un profondo divario tra le organizzazioni sindacali e la massa di operai  comuni (no rappresentanza adeguata). Le lotte operaie e i gruppi rivoluzionari, 68­69 Nel 68 si cercava di porre le basi x un nuovo Partito rivoluzionario, formato da operai e studenti, che potesse  strappare al Pci il consenso della classe operaia. Molti militanti italiani dell’estrema sinistra videro negli  avvenimenti francesi (sciopero generale e lotta universitari) l’inizio di una rivoluzione, fallita però x la mancanza  di un coordinamento e di una strategia politica diversa da quella ultra prudente del Partito comunista francese. I  rivoluzionari italiani non volevano compiere lo stesso errore, e sottolinearono la necessità di una maggiore  organizzazione, il bisogno di ideologia, disciplina e strategia rivoluzionarie. Nell’autunno 68 nacque così la Nuova Sinistra italiana.  Un impressionante numero di gruppi rivoluzionari vide la luce in quei mesi (ex Potere operaio, Movimento  studentesco, Servire il Popolo,…). Dal 68 al 76 mobilitarono migliaia di militanti in un attivismo frenetico, con  l’obbiettivo di creare una vasta coscienza anticapitalistica e rivoluzionaria. Questi gruppi però erano fatalmente  segnati fin dall’inizio: era spesso ferocemente settari e divennero in breve delle versioni in piccolo dei principali  partiti, con le loro gerarchie e presuntuosi “leaderini”; mantennero un atteggiamento ambiguo di fronte alla  violenza, adottando i modelli delle lotte di liberazione coloniali senza riflettere sulla loro applicabilità nella  situazione italiana; erano convinti dell’imminenza della rivoluzione in Occidente e della possibilità di  generalizzare all’Italia intera l’esperienza di alcune fabbriche del nord. Il modello delle agitazioni era quello della Pirelli. I sindacati dopo 3 giorni di sciopero avevano accettato aumenti  salariali modesti e avevano lasciato cadere la richiesta di migliori condizioni di lavoro. Il risultato fu che nel 69 un  gruppo di operai e impiegati organizzarono il Comitato unitario di base (Cub) x continuare la lotta a livello di  fabbrica. Dopo parecchi mesi di lottagli operai ottennero una significativa vittoria.  Dall’esperienza della Pirelli e di altre fabbriche emerse una serie di richieste operaie: riduzione delle differenze  salariali esistenti all’interno della stessa classe operaia; l’abolizione delle “gabbie” salariali (diverso trattamento  economico erogato x lo stesso lavoro a seconda delle zone del paese); la rottura del legame tra aumenti salariali  e aumento della produttività. Per raggiungere questi fini gli operi fecero ricorso a nuove forme di coordinamento e di lotta. Come x gli studenti,  l’assemblea divenne il momento più importante x prendere decisioni. Anche i criteri dell’organizzazione dello  sciopero cambiarono: il lavoro venne sospeso anche contro la volontà dei rappresentanti sindacali; provocavano  massimo disturbo ai padroni con il minimo costo x gli operai (ex sciopero a singhiozzo, a scacchiera); il  picchettaggio di massa fuori dai cancelli fu sostituito con manifestazioni dentro la fabbrica. La tensione a Torino era molto alta e sembrava che si stesse formando una vera alleanza tra giovani operai e  studenti. Nell’estate 69 i sindacati proclamarono uno sciopero contro il caro­affitti. Nel giorno in cui era stato  indetto lo sciopero si ebbe una manifestazione autonoma di parecchie migliaia di operai della Fiat, con richieste  più generali. Il corte fu presto attaccato dalla polizia, ridestando il ricordo di Piazza Statuto. I sindacati e l’ “autunno caldo”, 69­71 I gruppi rivoluzionari sopravvalutarono la profondità della crisi almeno su 2 punti: la coscienza anticapitalista non  era poi così diffusa e la tradizionale fedeltà della classe operaia ai sindacati e ai maggiori partiti della sinistra non  sarebbe venuta meno facilmente. I sindacati mostrarono una notevole capacità di adattarsi alle mutate condizioni, grazie anche al fatto che essi  riuscirono a conquistarsi una parziale autonomia rispetto ai partiti. La strategia dei sindacati fu abbastanza chiara. Le nuove richieste e forme di lotta che venivano dalla base non  dovevano essere rifiutate come estremiste, ma piuttosto essere incanalate in una strategia sindacale che  portasse verso una vittoria duratura del mondo del lavoro. I sindacati cercavano di aumentare le loro forze x  poter costringere la classe di governo a realizzare una volta x tutte quelle riforme essenziali tanto promesse. Il primo gradino di quest’offensiva si realizzò con la mobilitazione nazionale x il rinnovo del contratto dei  metalmeccanici. Nell’autunno 69 gli operai vennero chiamati allo sciopero: questo fu l’autunno caldo. I sindacati  La polizia e il ministro degli Interni annunciarono rapidamente che i responsabili erano da ricercare tra gli  anarchici (vengono accusati Valpreda e Pinelli). Lentamente, ma inesorabilmente, la versione della polizia sulla responsabilità degli anarchici cominciò a  disintegrarsi ed iniziò a farsi strada una spiegazione più allarmante. Le prove che la polizia aveva deciso di  ignorare non portavano agli anarchici, bensì a un gruppo neofascista del Veneto con a capo Freda e Ventura.  Ciò che destava più preoccupazione era lo stretto legame fra Ventura e Giannettini, agente del Sid (Servizio  informazioni della Difesa) e fervente sostenitore del Msi: cominciò a emergere un quadro inquietante sui rapporti  tra i membri del servizio segreto e gruppi di estrema destra. L’opinione pubblica divenne sempre più convinta che si stava tramando un complotto ai danni della democrazia:  una serie di attentati avrebbe propagato panico e incertezza, creando le precondizioni x un colpo di stato.  Questa era la strategia della tensione, usata con successo dai colonnelli in Grecia, e che adesso i neofascisti e  alcuni ambienti dei servizi segreti cercavano di riproporre in Italia. Molti settori della stampa e dell’opposizione politica chiesero al governo e al presidente Saragat di aprire  immediatamente un’inchiesta sull’attività dei servizi segreti. Le massime autorità dello stato, invece, sembravano  più interessate all’insabbiamento. Il processo x Piazza Fontana si trascinò interminabilmente. Nell’81 Giannettini,  Freda e Ventura furono condannati all’ergastolo, ma furono poi assolti dalla Corte d’Appello. Un anno dopo le bombe, un altro incidente servì a confermare il grado di esaltazione raggiunto dall’estrema  destra: nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 70 il principe Borghese, comandante della X Mas durante la Rsi, tentò  un colpo di stato. Le truppe di Borghese erano costituite da un battaglione di guardie forestali e da un gruppo di  ex paracadutisti, guidati dal futuro deputato del Msi Saccucci. Borghese riuscì ad occupare il ministero degli  Interni x qualche ora ma si ritirò subito dopo. Ancora una volta emersero prove sconcertanti sui legami tra  estrema destra e settori dell’eserciti e dei servizi segreti. Nel processo che ne seguì vennero tutti assolti. Il Mezzogiorno, 68­73 La società del Mezzogiorno era cambiata radicalmente sotto il duplice effetto dell’emigrazione e dello sviluppo  economico. Le piccole industrie, spesso legate all’agricoltura, offrivano scarse prospettive di impiego stabile. L’attività edilizia  prosperava, ma anche il sistema dei subappalti, con il risultato di far lavorare gli operai senza contratti regolari e  senza norme antinfortunistiche, x non parlare della rappresentanza sindacale. Ai margini del mercato del lavoro  rimase una massa di disoccupati e sottoccupati. Negli interstizi di questo sviluppo caotico aumentarono la loro  influenza e capacità di protezione le organizzazioni criminali. Fiorirono anche delle rivalità campanilistiche che  lasciavano poco spazio a quella solidarietà che era stata propria dell’autunno caldo. La classe politica  meridionale, corrotta e clientelare, sorvegliava soddisfatto questo sviluppo ineguale. La rivolta di Reggio Calabria Tra il 69 e il 73 il sud fu lacerato da una serie di proteste. La più seria interessò Reggio Calabria. Varie volte era  stato promesso di fare della città la sede del nuovo governo regionale, ma le scelta definitiva era ricaduta nel 70  su Catanzaro. L’ex sindaco di Reggio organizzò una serie di scioperi e presto la situazione degenerò: si  eressero barricate, la stazione ferroviaria fu occupata e tutti i treni x la Sicilia furono bloccati. Dietro la protesta c’era una situazione socio­economica di notevole gravità. Reggio, una delle città più povere  d’Italia (Catanzaro era leggermente meno misera)doveva diventare la sede del governo regionale: non vi era  offerta di lavoro e le possibilità offerte dal settore pubblico erano di vitale importanza. La rivolta continuò per oltre un anno, tra occupazioni, scioperi e attentati. Il Msi giunse dove la DC  non osava spingersi: il neofascista Ciccio Franco divenne presto il capopopolo dei  rivoltosi di Reggio e alle elezioni del 72 il candidato locale del Msi, Tripodi, ottenne molte preferenze. In molte  aree urbane del sudi neofascisti, in questi anni, venivano considerati i veri rappresentanti dei settori emarginati  della società. La risposta del governo alla rivolta fu quella di confermare Catanzaro come capoluogo, concedendo a Reggio la  sede dell’Assemblea regionale. Per sopperire alla crescente disoccupazione si annunciò la costruzione di un  grandioso stabilimento siderurgico.ma verso la metà degli anni 70 il mercato mondiale dell’acciaio crollò e di  conseguenza non si vide più il motivo perché la costruzione dello stabilimento dovesse proseguire. Conclusioni Sono 2 le questioni di rilievo che emergono dal bilancio dei turbolenti anni 68­73: ­ La prima riguarda le speranze e le ispirazioni degli studenti e dei giovani operai del 68­69. Il loro  obbiettivo era di compiere una trasformazione rivoluzionaria della società e della politica, ma si rivelò un  fallimento. Perché? Gli errori dei rivoluzionari, per rilevanti che siano, non costituirono da soli una risposta plausibile. I  rivoluzionari rimasero una piccola minoranza perfino al nord, molte zone e luoghi di lavoro non furono  nemmeno sfiorati dall’autunno caldo (ex piccole fabbriche, artigiani e commercianti, aree rurali,…). Parecchie sono le ragioni di questo insuccesso: o La tradizionale fedeltà ai partiti storici della sinistra e ai sindacati o La segmentazione del mercato del lavoro nazionale. Nella grande industria la carenza di un certo  tipo di manodopera si combinava con una concentrazione di forza lavoro meridionale, creando una  situazione che dava agli operai delle principali fabbriche settentrionali un fiducia e un’aggressività  particolari. Dove invece predominano le piccole aziende, spesso a conduzione famigliare, il conflitto tra  capitale e lavoro è meno netto, la manodopera impiegata è di origine locale, non immigrata. Al sud  esistevano le precondizioni x una protesta, ma la sua cultura politica clientelare e riminale e la  frammentazione della società resero più probabile uno sbocco di destra della protesta. o Il rivoluzionari cercarono di compiere una rivoluzione culturale sfidando i valori dominanti e le  istituzioni in cui vivevano. I loro ideali erano l’eguaglianza sociale e economica, un modello collettivo di  vita sociale e la democrazia diretta. Dal miracolo, la società italiana (urbana e laica) non si avvicinava  necessariamente ai valori espressi dal 68 e il movimento era in fin dei conti in diretto conflitto con il  percorso di modernizzazione italiana. o Le aziende più importanti decentrarono la produzione il più rapidamente possibile, frammentando  così la classe operaia e indebolendo i punti nevralgici dell’attivismo. o I salari reali aumentarono per tutti gli anni 60, la crescente prosperità permetteva di soddisfare i  bisogni e anche la situazione abitativa risultava assai migliorata rispetto alle prime ondate di  immigrazione.  ­ La seconda riguarda le riforme del 69­73: come mai le forze progressiste italiane non riuscirono ancora  una volta ad ottenere che limitate soddisfazioni alla loro richiesta di riforme correttive? I riformatori erano senza dubbio più forti dei loro predecessori del 63, ma dovevano fare a meno dell’energia  dei giovani che si ponevano obbiettivi più di carattere globale. Quanto al grande protagonista di questi anni, il sindacato, c’è molto da dire in suo favore (consigli di  fabbrica, diritti democratici, 150 ore,…). Anche la strategia sindacale però aveva dei punti deboli. Essa si  concentrò quasi esclusivamente sulla difesa della classe operai, e in termini organizzativi le confederazione  non riuscirono a muoversi dalle fabbriche alla società. Il loro modo rigido e rituale di mobilitare la gente x le  riforme indebolì considerevolmente la pressione che cercavano di esercitare sul governo. Infine essi non  riuscirono a stabilire una forte presenza nel Mezzogiorno. Dal 70 il deficit pubblico cominciò a salire rapidamente x: o L’indebitamento di un industria pubblica che stava acquistando un peso e un potere economico  sempre maggiore. Venne creata la Gepi (gestione esercizio partecipazioni industriali) x il salvataggio e il  rilevamento di un numero sempre maggiore di imprese private improduttive. o L’aumento della spesa sociale (soprattutto le pensioni) senza che vi fosse un corrispettivo  aumento degli introiti fiscali (a causa del fallimento della riforma fiscale). L’altro grosso problema irrisolto dello stato era la burocrazia. La mancata riforma della pubblica  amministrazione aveva fatto sì che essa acquistasse una relativa autonomia di azione e che troppo spesso  rimanesse sorda sia ai bisogni della società sia alle disposizioni del governo. Il fenomeno dei residui passivi  e della non attuazione delle nuove leggi continuò a caratterizzare l’attività amministrativa degli anni 70 (ex  mancata attuazione della riforma edilizia del 71). La riforma dello stato diventava il compito più difficile x via degli enormi interessi coinvolti; eppure, senza di  essa, ogni programma riformatore sembrava destinato ad annaspare. Nel gennaio 68 un terremoto distrusse alcuni villaggi della povera valle del Belice, in Sicilia. Saragat promise  che il governo avrebbe fatto tutto il possibile x aiutare la gente rimasta senza casa. Il Parlamento stanziò  fondi x la ricostruzione ma 9 anni dopo molte persone vivevano ancora nelle baracche prefabbricate erette  subito dopo il terremoto. Gli ingenti fondi stanziati dal governo non vennero spesi, o furono malamente  sprecati con costruzioni inutili, o finirono di nascosto nelle tasche di qualche privato. Per un breve periodo l’ondata di contestazione del 68 si è opposta a questo stato delle cose. Ben presto  però la sua sfida finì x arenarsi, lasciando sostanzialmente immutate le istituzioni, mentre funzionari e  dirigenti politici poterono continuare a deplorare a parole uno stato delle cose che accettavano di fatto. 10.CRISI, COMPROMESSO, “ANNI DI PIOMBO”, 73­80 La DC e il referendum sul divorzio Nel 74 il Partito fu scosso da 2 scandali di grosse proporzioni.  Il primo scoppiò in seguito alle rivelazioni di un magistrato genovese, secondo il quale alcune compagnie  petrolifere avevano versato soldi a personaggi politici, prevalentemente democristiani, in cambio di misure  governative a loro favorevoli. In seguito a ciò il Parlamento approvò frettolosamente la legge sul finanziamento  pubblico dei partiti (i partiti sarebbero stati finanziati direttamente dallo stato in proporzione alla loro presenza in  Parlamento). La misura non placò l’opinione pubblica, convinta che i finanziamenti occulti sarebbero continuati  comunque. Il secondo scandalo riguardava le attività dei servizi segreti. Da un inchiesta emerse l’esistenza di  un’organizzazioni neofascista, “Rosa dei Venti”, che coordinava azioni di terrorismo in previsione di un colpo di  stato; tra i suoi affiliati v’erano alti esponenti delle forze armate e dei servizi segreti. Questi 2 grossi scandali provocarono un’ondata di critiche sull’integrità morale e la capacità politica della DC.  Nella primavera 74 ,infine, tornò alla ribalta la spinosa questione del referendum sul divorzio. Dopo che il  Parlamento aveva varati la legge sul divorzio nel 70, numerose organizzazioni cattoliche militanti ne chiesero  l’abrogazione tramite referendum (stabilito x il 12 maggio). Fanfani, tornato a essere segretario del Partito, intravedeva nel referendum la possibilità di un rilancio della DC  (ritorno ai valori cattolici più tradizionali)  e, nello stesso tempo, suo personali (obbiettivo conquistare la  Presidenza). Il Pci , che per anni aveva cercato di rassicurare l’opinione pubblica che essi difendevano la famiglia con lo  stesso zelo della DC, e, non volendo evitare di allargare il fossato tra loro e la DC nel momento in cui Berlinguer  stava x lanciare la proposta del compromesso storico, affrontarono la campagna elettorale con qualche timore. I risultati del referendum mostrarono che sia Fanfani che il Pci avevano giudicato male l’elettorato: la legge sul  divorzio trionfò. Il processo di modernizzazione della società aveva trasformato anche le opinioni e i valori  correnti, mettendo così in discussione l’egemonia del cattolicesimo tradizionalista. Palermo non vide una simile mobilitazione ma anche lì la solida presa della DC e della mafia sembrò x un attimo  vacillare. Vennero occupate le case. Le nuove case costruite alla periferia della città servirono solo a rafforzare il  senso di disperazione degli abitanti. Questi quartieri costituiscono l’esempio estremo dell’atomizzazione,  dell’alienazione e dell’isolamento che hanno caratterizzato la costruzione di case popolari. Il femminismo L’ultimo dei movimenti collettivi che si svilupparono negli anni 70 fu il femminismo, e fu quello destinato a lasciare  maggiormente il segno nel lungo periodo. Due fenomeni contribuirono allo sviluppo del femminismo: ­ La brusca inversione della tendenza alla crescita del livello di vita , in conseguenza dell’inflazione e della  persistente stagnazione dell’economia. Le pressioni sul benessere famigliare produssero tensioni soggettive,  ma anche una presa di coscienza collettiva. Le donne furono coinvolte in quasi tutte le lotte sociali: x la casa,  x i servizi sociali,… ­ La crescita dei gruppi femministi a partire dal 70.  I gruppi italiani degli anni 70 analizzarono la propria  sessualità e l’oppressione maschile, giungendo infine a formulare richieste che miravano non tanto alla parità  con gli uomini ma alla definizione di una vera e propria sfera di diritti delle donne in quanto tali. Proposero anche una più generale idea politica. La liberazione non doveva essere rinviata a dopo la  rivoluzione, ma doveva iniziare subito nel privato, nei rapporti quotidiani; solo così sarebbe stato possibile  raggiungere in seguito una trasformazione completa. Questa politica era l’antitesi della pratica dei gruppi  rivoluzionare, dove le relazioni personali erano subordinate al più importante obbiettivo della rivoluzione  finale. Vi furono anche contrasti all’interno del movimento, ma vennero accantonati nel momento in cui si trattò di  combattere x la legge sull’aborto. Nel 70 l’aborto in Italia era illegale e punibile con 5 anni di carcere, e prospera  pertanto la piaga dell’aborto clandestino. solo le elezioni politiche indette x il giugno 76 impedirono il regolare  svolgimento del referendum. Partiti, riforme ed elezioni, 74­76 La crisi economica da una parte, e quella democristiana dall’altra, lasciarono poco spazio alla legislazione  sociale.  Nella primavera 75 venne finalmente riformato il diritto di famiglia. Con la nuova legge si stabilì il principio della  parità tra  i coniugi; che i genitori hanno il dovere non solo di mantenere, istruire ed educare i figli ma anche di  tener conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni degli stessi; si abolì quasi del tutto ogni  discriminazione giuridica verso i figli nati fuori dal matrimonio. La riforma del sistema scolastico ebbe meno successo. Nel 73­74 il ministro democristiano della Pubblica  istruzione, Malfatti, introdusse organi elettivi a ogni livello, dando una rappresentanza  a professori, genitori e  studenti. Ai nuovi Consigli venne però dato solo un potere consultivo. Le elezioni regionali del 75 aprirono prospettive drammatiche su scala nazionale. La sinistra, nel suo insieme,  aveva ottenuto il 47% dei voti, risultato mai raggiunto prima; al Pci sarebbe bastato solo il 2% in più x diventare  Partito di maggioranza. Il predominio della DC, mai messo in discussione dal 48, era adesso seriamente  minacciato.  La DC reagì dimissionando Fanfani da segretario e eleggendo al suo posto Zaccagnini (appoggiato da Moro)x  dar vita ad una nuova e più decente immagine del Partito e x aprire la strada a un dialogo costruttivo col Pci.  L’intenzione di Moro era di rispondere al momento giusto alla richiesta di alleanza di Berlinguer, ma in termini a  lui favorevoli. Nella primavera 76 i partiti, x evitare il referendum sull’aborto, cercarono di raggiungere un accordo x riformare la  legge esistente. La DC presentò una proposta di legge in cui l’aborto era ancora un crimine; questa riuscì a  passare alla Camera solo grazie all’appoggio del Msi. Il Psi ritirò immediatamente il proprio sostegno al governo  e le elezioni politiche divennero inevitabili. Lo sviluppo dell’eurocomunismo accrebbe i timori americani. Nel 75, l’ambasciatore americano a Roma Volpe,  dichiarò l’opposizione degli USA a un ingresso del Pci nel governo; una presenza comunista avrebbe creato una  contraddizione nel cuore della Nato. Berlinguer rispose dichiarando che se i comunisti avessero vinto le elezioni  non avrebbero spinto l’Italia fuori dalla Nato, anzi, egli contava anche sulla Nato x mantenere l’autonomia da  Mosca. I risultati del 20 giugno 76 sorpresero quasi tutti gli osservatori: il Pci migliorò(x compromesso storico, Nato,  mobilitazione dal 68), la DC rimase stabile confermando il ruolo di maggioranza relativa del Partito. Gli altri partiti  registrarono tutti delle perdite. I governi di solidarietà nazionale, 76­79 Fedele alla strategia che aveva formulato nel 73, Berlinguer era più che mai convinto che tutta l’energia e la  forza del Partito dovevano essere indirizzate a favore del compromesso con la DC, piuttosto che verso una  rischioso avventura delle sinistre, bisognava tener conto dell’ostilità degli USA, dell’instabilità economica, della  violenza: in una simile situazione occorreva difendere la democrazia con una coalizione di tutti i partiti  democratici. Gli oppositori argomentavano invece che il paese aveva bisogno di cambiamento e riforme, e questo non si  sarebbe realizzato con un’alleanza con la DC; x attuare ciò Berlinguer avrebbe dovuto utilizzare il movimento di  protesta della società civile e affrettare così la costruzione di un’alternativa alla politica democristiana. La strategia degli oppositori presentava più rischi: la situazione internazionale non era favorevole a un governo  riformatore di sinistra e un simile tentativo avrebbe rischiato il sabotaggio economico; inoltre ,c’era il pericolo che  un governo di sinistra spingesse parte dei ceti medi e degli imprenditori verso posizioni estremiste. D’altra parte  tale strategia appare come l’unica convincente strategia riformista. Dopo la sconfitta alle elezioni, il Psi elesse un nuovo segretario del Partito, Craxi. Egli decise che x sopravvivere  e prosperare il Partito doveva acquistare più autonomia ed essere più anticomunista. Così, proprio quando a  sinistra aveva ottenuto il massimo consenso elettorale della sua storia, la distanza fra i suoi 2 principali partiti  aumentava invece che diminuire. Nell’state 76 si presentò l’opportunità di costruire un’alternativa alla DC, ma  non fu colta, e una simile possibilità non si sarebbe più presentata. Il 2 agosto 76 un nuovo governo, guidato da Andreotti, ottenne la fiducia alla Camera. Comunisti e socialisti non  facevano parte del governo, ma erano d’accordo di non provocarne la caduta, e come contropartita chiesero di  essere consultati sulla stesura del programma. Il governo Andreotti resse fino al 78, quando egli si dimise x  formarne immediatamente un altro che sarebbe durato fino al 79: questi 2 governi passarono alla storia come i  “governi di solidarietà nazionale”. La strategia della DC in questi anni sembra piuttosto limpida. Andreotti era l’uomo ideale x un lento logoramento  dei comunisti. Dietro di lui c’era Moro, il quale confidava nel trasformismo del Pci una volta entrato nel governo,  inoltre, la paura di una soluzione autoritaria come era accaduto ai socialisti all’epoca di De Lorenzo, avrebbe  funzionato come deterrente contro qualsiasi richiesta troppo avanzata. Anni di piombo Terrorismo e disperazione Il governo di solidarietà nazionale dovette dedicare quasi tutta la sua attenzione alla lotta al terrorismo. Nella seconda metà del 75, 3 fattori contribuirono alla crescita del terrorismo: ­ La crisi dei gruppi rivoluzionari, in seguito ai risultati elettorali disastrosi e alla conseguente delusione dei  propri seguaci. ­ La frattura che si creò tra Pci e ceto giovanile urbano e universitario. Dal 76 il Partito divenne zelante  difensore delle tradizionali misure di legge e di ordine, anziché farsi campione delle campagne x i diritti  civili ­ La fiacchezza delle forze dell’ordine. Forse x presunzione o x permettere al terrorismo di condizionare in  modo ancora più pesante il clima politico e il Pci in particolare. Il movimento del 77 Le ragioni del baratro tra Pci e una parte della gioventù italiana non erano solo politiche ma anche sociali ed  economiche. Sempre più numerosi erano i giovani che frequentavano la scuola superiore e le università, le quali,  in assenza di riforme, divenivano sempre più affollate; e al termine del tunnel educativo si presentavano sempre  meno prospettive di lavoro. Nelle principali città si sviluppò un diverso genere di movimento giovanile. Distaccati  dalla politica tradizionale, spesso incapaci o riluttanti a trovare un’occupazione che non fosse solo marginale o  precaria, desiderosi soprattutto di stare insieme e di divertirsi, i giovani del movimento del 77 differivano  radicalmente dai loro idealisti e ideologizzati predecessori del 68. Il movimento era incline a creare strutture alternative piuttosto che sfidare quelle di potere, valorizzava la cultura  della violenza degli anni precedenti organizzava i nuovi soggetti sociali x una battaglia contro lo stato. Nel settembre 77 fu organizzato a Bologna un convegno sulla repressione nella società italiana, con un’enfasi  particolare sul ruolo svolto dal Pci. Il Pci bolognese rispose rendendo disponibili cibo, alloggi, spazi d’incontro. Il  convegno si rivelò un fiasco e la manifestazione finale si svolse senza incidenti. Da allora il movimento iniziò a  spegnersi. La maggioranza di questi giovani ingrossò le fila del “riflusso”: la ritirata verso la vita privata,  l’abbandono dell’azione collettiva, la resa dei conti con la sconfitta. Le Brigate Rosse e il rapimento di Moro, marzo 78 La BR speravano che col movimento del 77 il terrorismo sarebbe diventato un fenomeno di massa; anche se  non fu così fu reclutato un numero elevato di simpatizzanti da permettere di intensificare le loro azioni. Questa nuova fase dell’attività delle BR (77­78)fu soprannominata “strategia dell’annientamento”: azioni  indiscriminate, miranti a terrorizzare le classi dominanti, in modo da impedire il regolare funzionamento dello  stato. Molte furono le vittime e i feriti. Oltre a poliziotti e magistrati, un bersaglio privilegiato furono i giornalisti. Il 16 marzo 78 (giorno in cui Andreotti avrebbe dovuto presentare alla Camera il nuovo governo, con i comunisti  inseriti nell’ “area di governo”) venne rapito Moro, mentre la sua scorta e l’autista vennero uccisi. X 54 giorni le  BR, sotto la direzione di Moretti, tennero Moro prigioniero in un nascondiglio segreto. X tutto questo periodo il  mondo politico italiano e la stessa opinione pubblica furono tormentati da un terribile dilemma: era giusto che lo  stato trattasse con i rapitori x salvare la vita a Moro o bisognava scegliere la via della fermezza, rifiutando ogni  patteggiamento? I socialisti si dichiararono favorevoli a trattare con le BR (non avrebbe indebolito la democrazia). X i comunisti  invece ogni arrendevolezza verso i terroristi li avrebbe legittimati e incoraggiati ad ulteriori azioni dello stesso  genere. I democratici erano divisi, ma alla fine scelse la strada di non trattare. Moro fu ucciso i 9 maggio 78. I suoi assassini abbandonarono il cadavere in un bagagliaio a Roma, in una strada  a metà tra la direzione della DC e del Pci. La crisi del terrorismo italiano prese l’avvio dall’uccisione di Moro: tale  decisione creò dissensi al loro interno, mentre all’esterno si diffuse un profondo sentimento di ripulsa x quanto  avevano fatto. A posteriori sembra quindi corretto riconoscere che avevano ragione gli intransigenti: se Moro  fosse stato scambiato con i terroristi in prigione, le BR sarebbero apparse invulnerabili e propense al  compromesso, col risultato che il loro fascino sarebbe cresciuto. Fu nominato a coordinare l’offensiva anti­terroristica il generale dei carabinieri Dalla Chiesa, il quale si dedicò a  convincere i terroristi pentiti a cooperare. Venne approvata una legge che permetteva una notevole riduzione  correttive. Andreotti, insomma, riuscì a frenare l’iniziativa dei comunisti contenendola entro limiti giudicati  accettabili dai democristiani. Gli anni della solidarietà nazionale ebbero altre 3 conseguenze importanti: ­ Il movimento di protesta che aveva investito la società dal 68 fu distrutto tra il 76 e il 79, sia dal  terrorismo, il quale porta con sé la responsabilità x il trionfo del “riflusso”, sia dalla mancanza di mediazione  politica offerta dai partiti di sinistra e dai sindacati. ­ Nella sua ricerca di un’alleanza duratura con la DC , il Pci trascurò e sottovalutò i socialisti ­ Gli anni di piombo produssero un mutamento profondo nell’atteggiamento di un’intera generazione verso  la violenza. Alla fine del decennio i problemi più gravi della Repubblica non erano stati risolti, ma si era  abbandonata l’idea di risolverli con la forza. La fine di un’epoca All’inizio del 79 i comunisti ne avevano ormai abbastanza. Non erano vicini al governo più di quanto lo fossero  stati 2 anni prima; il nuovo presidente USA Carter, dapprima apparso disponibile alla possibilità di un loro  ingresso nel governo, aveva assunto una posizione di netta contrarietà; infine il compromesso con la DC stava  dando scarsi risultati e la base del Pci era sempre più irrequieta. Il 31 gennaio 79 il governo Andreotti diede le dimissioni e i comunisti dichiararono apertamente che sarebbero  passati all’opposizione.  Il risultato delle elezioni del 3 giugno 79 fu la severa perdita di voti del Pci, il Psi aumentò di poco, la DC calò  appena, i radicali ottennero il miglior risultato, Msi scese. In seguita alle elezioni Berlinguer cambiò linea di condotta: annunciò la fine del compromesso storico e la nuova  strategia di “alternativa democratica”, un’alleanza tra Pci e Psi mirante a togliere il potere alla DC. Nonostante  ciò la polemica fra i 2 partiti raggiunse toni molto aspri e la possibilità che l’alternativa democratica si realizzasse  svanì quasi del tutto. Nello stesso tempo gli imprenditori di prepararono a uno scontro decisivo col movimento operaio. Nell’80 la Fiat  annunciò che in seguito alla caduta della domanda di automobili sul mercato internazionale avrebbe posto in  cassa integrazione migliaia di operai (tra cui vi erano tutti quelli che avevano svolto un ruolo di primo piano nelle  lotte sindacali dal 69) x 15 mesi; trascorsi i quali, una metà sarebbe tornata in fabbrica, mentre l’altra metà  avrebbe dovuto trovare altrove un altro posto di lavoro. Poco dopo altri operai vennero licenziati  immediatamente. I sindacati reagirono con uno sciopero a oltranza e con il blocco totale delle fabbriche Fiat. Berlinguer sostenne  l’occupazione della Fiat. La Fiat annunciò la sospensione dei licenziamenti e solo 3 mesi di cassa integrazione. Fu una mossa accorta  che divise i lavoratori,  molti dei quali si concentrarono solo sulla revoca della minaccia del licenziamento  immediato. Dopo il 34esimo giorno di sciopero, una grandiosa e insolita manifestazione di dirigenti, capi­squadra, impiegati  e operai Fiat attraversò il centro di Torino rivendicando il diritto di tornare al lavoro. Il movimento operaio di  Torino di spaccò irrimediabilmente, costringendo i sindacati a firmare un accordo. Agnelli ottenne una  straordinaria vittoria. 11.GLI ANNI 80: MODERNITÀ, CORRUZIONE E CRIMINALITÀ L’agenda internazionale si trovò dominata da nuove, aggressive idee di destra. Fiducia nel mercato, scetticismo  sull’intervento statale, riaffermazione dell’individualismo a scapito della solidarietà sociale, sono tutti fattori che  contribuirono a ridefinire i valori della società e gli obiettivi della politica. La versione italiana di tale trasformazione ha tratti molto suggestivi: autenticamente innovativa in alcuni settori,  ma sostanzialmente di facciata in altri. Gli anni 80 sono il decennio in cui la cultura dell’impresa trionfa su quella  di classe, in cui i nuovi ceti medi (piccoli imprenditori, operatori nel settore dei servizi moderni, investitori)  diventavano di diritto una potente forza sociale, mentre la classe operaia organizzata si indebolisce sia x numero  sia x capacità di influenzare gli eventi. Sono anche anni, paradossalmente, di un nuovo associazionismo,  fortemente sostenuto dalla crescita della scolarizzazione, e della creazione di una vera società civile in molte  regioni del paese. In altri campi, tuttavia, la modernità nascondeva a stento la sostanziale continuità con le pratiche del passato, e  più che mai nel campo della politica. Clientelismo e corruzione, una criminalità rampante, un settore pubblico  ipertrofico e protetto sono i tratti distintivi della Repubblica negli anni 80. Dal POV politico fu un decennio di  stagnazione e malessere, la politica cambiò di poco, o semmai in peggio. La società italiana negli anni 80 L’economia Nella seconda metà del decennio l’economia italiana cominciò a registrare una netta risalita, sostenuta da quella  internazionale , a sua volta stimolata dalla reflazione (fase di crescita e di moderata inflazione che segue la  deflazione) dell’economia americana, dalla caduta dei prezzi del petrolio e dal conseguente risveglio del  commercio mondiale. In Italia l’inflazione diminuì, il Pil registrò un lento ma costante aumento.  Queste linee di tendenza generali avevano alle spalle alcune trasformazioni su vasta scala.  Gli anni 80 furono il  periodo in cui il settore dei servizi arrivò a rappresentare in Italia oltre il 50% del Pil dell’occupazione. I servizi si  dividono in 2 categorie: x la produzione (servizi finanziari, tecnici e professionali) e x il consumo finale (vendita al  dettaglio, tempo libero, sanità, istruzione,…). Il ramo dei servizi finanziari acquisì un’importanza primaria, sia  nell’ambito della produzione che x il consumatore. La crescita delle banche, della borsa, delle assicurazioni offrì  una serie di servizi finanziari a una massa di utenti molto più ampia che in passato. Una delle industre dei servizi più dinamica fu quella delle comunicazioni di massa e dello spettacolo. Berlusconi  riuscì a creare in pochi anni un enorme impero televisivo, approfittando della mancanza di regole nel settore  della televisione commerciale. Con l’acquisizione dei supermercati Standa e la costruzione di nuovi ipermercati,  Berlusconi aveva allargato il suo impero in altri settori chiave del terziario. X quanto riguarda l’industria, con il passaggio dell’Italia all’era post­fordisti, troviamo una profonda  trasformazione. Negli anni 80 non si puntava più su macchine rigide e altamente specializzate x ottenere prodotti  in serie, ma su macchine flessibili x creare un’ampia varietà di prodotti. La cura x il design e la qualità,  l’attenzione alle esigenze dei clienti intesi come singoli individui, divennero i primi punti all’ordine del giorno. Le  aziende più importanti decentrarono ulteriormente la produzione e introdussero livelli più avanzati di  automazione. Una parte significativa del successo economico era tuttavia dovuto alle piccole imprese. Negli anni 80 esse di  trovarono ad affrontare numerose difficoltà legate alla sottocapitalizzazione (mezzi insufficienti), al ricambio  generazionale e ai vincoli dimensionali di scala produttiva. Nonostante ciò continuarono ad essere un elemento  dinamico: sorsero nuovi distretti industriali e l’asportazione continuò a crescere. L’andamento dell’economia italiana presentava però anche dei lati oscuri: carenza di investimenti nella ricerca e  nelle tecnologie; assenza di grandi società internazionali; netto indebolimento della posizione internazionale  dell’Italia dopo il 79 nel settore­chiave dei prodotti a elevate economie di scala (=legate alla produzione in serie)  come l’elettronica di consumo, le macchine x ufficio, la chimica, la metallurgia. A tutto ciò va aggiunta l’ombra del debito pubblico. La preoccupazione internazionale aumentò di anno in anno di  fronte all’incapacità o alla mancanza di volontà dei successivi governi italiani di tamponare tale falla. Al centro  del problema vi erano la forte spesa x le pensioni, x la sanità e un livello molto basse di entrate tributarie da  parte del lavoro autonomo. Rimaneva infine irrisolto l’eterno problema del sud, che negli anni 80 non fu in grado di tenere il passo con  l’espansione delle altre 2 Italie. Il tipo di aiuto che lo stato continuò a offrire al sud (assistenzialismo piuttosto che  investimenti produttivi) non poteva certo favorire un autonomo decollo economico del sud, anzi, contribuì alla  persistenza di una mentalità passiva e parassitaria. Lo stati sosteneva il vivace settore privato con generosi sussidi, controlli fiscali quasi inesistenti e soprattutto una  politica complessiva di laissez­faire. Negli ultimi anni 80 questo portò anche notevoli vantaggi, ma non era certo  una strategia di ampio respiro, tale da mantenere l’Italia ai primi posti tra le economia più avanzate. La stratificazione sociale Nella società italiana, come in Europa, si registrarono 2 cambiamenti profondi: il passaggio sempre più deciso  verso un’economia terziarizzata, che produsse nuove opportunità, ma anche profonde lacerazioni; e, nello  stesso tempo, un indebolimento delle ideologie e delle istituzioni che avevano alimentato il senso di  appartenenza a una classe. In queste mutate condizioni, nuovi rischi e incertezze si affacciarono sulla scena: trovare un lavoro stabile si fece  più difficile; avere un titolo di studi e garantire flessibilità/mobilità geografica divennero requisiti indispensabili; il  senso di precarietà; il pericolo di un peggioramento delle proprie condizioni. Di conseguenza, mentre la società  nel suo insieme diventava più ricca, le diseguaglianze non mostravano alcun segno di diminuzione. Piuttosto,  andavano a ricollocarsi lungo nuove linee di demarcazione tra le varie regioni, tra le varie categorie del terziario,  tra i sessi. Il livello sempre più elevato di istruzione della popolazione femminile rappresentò x l’Italia una vera rivoluzione  che, unita alla crescita del terziario e alle nuove leggi contro la discriminazione sessuale nell’occupazione, si  tradusse in una nuova e significativa presenza di donne sul mercato del lavoro. L’occupazione femminile si situò  comunque in massima parte sui gradini più bassi del terziario; ciononostante ha significato non solo una nuova  autonomia, ma anche che molte famiglie potevano contare su più stipendi. Negli anni 80 le classi medie urbane sono diventate il settore dominante della struttura sociale, crescita stimolata  soprattutto dal settore pubblico (ex istruzione, sanità, trasporti)ma anche da quello privato (banche , uffici, grandi  magazzini). Ceti medi vecchi e nuovi, del pubblico e del privato, hanno trovato un punto di unione negli anni 80 nella comune  capacità di risparmiare e trarre forti guadagni dagli investimenti in titoli di stato, approfittando degli alti tassi di  interesse a cui il governo era costretto x finanziare il debito pubblico. Sul finire del decennio, quando l’ inflazione  era in calo, il commercio in rapida espansione e gli interessi esentasse sui titoli di stato si mantenevano alti,  centinaia di famiglie ebbero così il loro momento di grazia. Visto questo quadro finanziario, e il dinamismo di buona parte dell’industria privata italiana, non sorprende che le  statistiche registrino una rapida crescita numerica della “grande borghesia”. Uno dei sistemi più rapidi x  arricchirsi passava attraverso i nuovi canali del capitale finanziario italiano. Sul mercato azionario e nell’ampia  gamma di servizi a esso collegati si poteva infatti costruire cospicue fortune in pochi anni. Anche nel mondo delle  comunicazioni di massa, della pubblicità, dello sport e dalla politica di potevano fare ingenti guadagni. A fonti di guadagno più tradizionali davano invece accesso le libere professioni, a cui si affiancavano gli  imprenditori privati. L’impresa pubblica italiana, invece, continuava a essere subordinata alle nomine da parte dei  politici: altissimi stipendi e posizioni di potere spesso non erano accompagnati da pari livelli di competenza. Alle vette della scala sociale italiana, in termini di ricchezza e influenza, si trovavano i circoli ristretti dell’élite  imprenditoriale e finanziaria (ex Agnelli, Cuccia, Berlusconi). Un altro uomo nuovo era Gardini, il quale assunse il  controllo del gigante chimico Montedison e lanciò la fusione con l’Eni x arrivare a fondare una delle maggiori  Dopo tali avvenimenti e la decisione di Pertini, alla segreteria del Partito venne eletto De Mita, leader dell’ala  sinistra con ambiziose idee sulla trasformazione della DC. Egli si pronunciò a favore della fine delle correnti e per  un moderno sistema politico dell’alternanza tra DC e Pci. I suoi propositi mancavano però della forza e del  realismo necessari. Cercando di mettere a frutto la crisi della DC, nell’83 Craxi ritirò il proprio sostegno al governo e impose nuove  elezioni.  De Mita reagì con una vigorosa campagna elettorale improntata sulla necessità di modernizzare sia la  DC che l’intero sistema politico italiano, e x tutta risposta raccolse la peggior sconfitta nella storia del Partito. Egli  sopravvisse alla sconfitta, ma non il suo zelo riformatore. Il fallimento di De Mita fu il successo di Craxi, al quale si aprì la strada x la presidenza del Consiglio (83­87). Gli  anni di Craxi segnarono un netto divorzio tra moralità e politica. Secondo lui la politica doveva essere  personalizzata e semplificata, segnata da un forte elemento di spettacolarizzazione e convogliata soprattutto  dalla tv. Mentre a parole continuavano a caldeggiare i vecchi ideali del Partito (giustizia sociale, partecipazione e  democrazia) di fatto i socialisti non andarono mai oltre il puro esercizio del potere e un’interpretazione del nuovo  come sinonimo del yuppismo (=rapida carriera che assicuri una prestigiosa collocazione economico­sociale). Era  così venuta a stabilirsi un insidioso collegamento tra modernità e involuzione della democrazia.  In questi anni vi furono solo 2 tentativi seri, e aspramente contrastati, di affrontare alcune debolezze strutturali  del paese, in entrambi i case non x iniziativa dei ministri socialisti o democristiani, bensì repubblicani. Vennero  introdotte misure x far sì che i commercianti fossero finalmente costretti a pagare le tasse, e che ogni regione  stilasse un piano territoriale paesistico con l’obbiettivo di difendere la fascia costiera italiana e altri ambienti dal  degrado. Nel complesso, dunque, un bilancio piuttosto magro x quasi 4 anni di governo. Nulla era stato fatto x riformare la  pubblica amministrazione; il servizio sanitario era rimasto affidato alle Usl e al loro personale tecnicamente  incompetente e spesso corrotto; il settore radiotelevisivo era stato deliberatamente lasciato privo di qualsiasi  regolamentazione, a tutto vantaggio di Berlusconi, intimo amico di Craxi. I socialisti avrebbero voluto fare ulteriori passi avanti in questi anni, passando x esempio a una repubblica  presidenziale guidata da Craxi. Ma furono costantemente bloccati dagli altri partiti e dal loro proprio insufficiente  peso elettorale. L’87 fu anno di nuove elezioni politiche. Craxi fu costretto a lasciare la presidenza del Consiglio a Goria, pupillo  di De Mita. L’ultimo elemento di questo sistema politico bloccato era il Pci. Gli anni 80 furono un periodo difficile x il Partito, i  rapidi cambiamenti che stavano avvenendo nella società minavano il tradizionale elettorato della sinistra e  mettevano in discussione tante antiche certezze ideologiche. In seguito al colpo di stato in Polonia dell’81 (generale Jaruzelski di fronte alla radicalizzazione delle lotte del  sindacato indipendente Solidarnosc proclamò lo stato d’assedio x evitare l’intervento armato sovietico) e alla  repressione del Solidarnosc , Berlinguer dichiarò che l’era della storia mondiale aperta dalla rivoluzione del 17  era ormai conclusa e che il socialismo del blocco dei paesi orientali non poteva più servire da modello. Lo strappo dall’URSS avvenne comunque con troppo ritardo. Se i comunisti italiani avessero avuto il coraggio di  operare la rottura nel 69, al tempo dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, negli anni 70 si sarebbero  trovati in una posizione di maggiore forza x guidare il paese. D ‘altra parte, però, le posizioni del Pci sull’URSS  erano sempre state più critiche rispetto a qualsiasi altro Partito comunista dell’Europa occidentale. Se a De Mita mancava una reale comprensione sociologica della modernità e Craxi ne celebrava alcuni degli  aspetti peggiori, Berlinguer considerava il nuovo sostanzialmente in termini di decadenza. L’essenza della  società moderna però non era fatta solo di rischi ma anche di opportunità e, condannando senza appello il  nuovo consumismo, Berlinguer rischiava di dare al partiti una patente di arretratezza e di eccessiva austerità. Nell’84 un ictus colpì Berlinguer e morì. L’improvvisa scomparsa di Berlinguer privò i comunisti dell’unico vero  leader di statura internazionale capace di guidarli attraverso i difficili anni 80. A succedergli alla segreteria fu  chiamato Natta, ma durante la sua segreteria (84­88) il Pci non riuscì ad affrontare la difficile situazione e i voti  calarono. Il Partito si ripiegò su se stesso, perdendo quella sensibilità alle trasformazioni socioeconomiche che  era stata un tempo un suo punto di forza. Politica e corruzione Negli anni 80 il sistema politico italiano era non solo bloccato, ma segnato da un profondo degrado. Sempre più  scandali giungevano alle prime pagine dei giornali. I meccanismi dell’intero sistema di corruzione si svelarono a  pieno solo nel 92, quando a Milano esplose il grande scandalo di Tangentopoli. A scapito di un opinione molto diffusa, questo sistema non era semplicemente figlio degli anni 80, ma affondava  radici nella prassi politica dell’Italia repubblicana. Rimane vero però che in questo decennio si è manifestata una  rapacità di tipo nuovo; inoltre, lo spoils system (=lottizzazione) è uscito dalle sue roccaforti meridionali x  propagarsi nell’intera penisola. Sindaci, assessori, consiglieri e responsabile degli enti locali erano diventati sempre più dei “politici d’affari”,  interessati soprattutto a servirsi delle proprie cariche x accumulare spregiudicatamente capitali di ogni genere  (denaro, potere, clientele), che poi reinvestivano x promuovere ulteriormente le proprie carriere.  Il principale modus operandi dei politici d’affari consisteva nel riscuotere tangenti dagli imprenditori locali. Il  denaro delle tangenti prendeva varie vie: in certi casi affluiva nelle casse delle direzioni dei partiti; nelle tasche  dei leader delle potenti correnti interne o in quelle di singoli politici. Il politico corrotto spesso usava le tangenti x  rafforzare la propria base di potere, le posizioni di responsabilità e le risorse accumulate.  Negli anni 80 il sistema delle tangenti era talmente diffuso da essere considerato quasi una prassi normale; era il  “costo della politica”. Familismo e clientelismo,  inoltre, costituivano il sistema linfatico della corruzione. I socialisti erano i più arroganti e pivi di remore; i democristiani agivano con più discrezione, forse perché nel loro  inconscio collettivo permaneva un qualche senso di peccato originale; la questione più controversa era il  coinvolgimento dei comunisti. In mancanza di informazioni precise si sono scontrate 2 opposte interpretazioni: ­ Il Pci non era sostanzialmente diverso  dagli altri partiti. Esso dava fiato a un’opposizione tutta verbale,  mentre nella realtà accettava sostanzialmente il sistema e ne traeva vantaggio ­ Pur non negando alcuni episodi di corruzione, il Pci non faceva parte di un modello generalizzato, anzi, le  sue amministrazioni locali si distinguevano nettamente da quel che era la norma in Italia. La diffusione della corruzione fu gravida di conseguenze x lo stato italiano. L’intervento pubblico si trovò  pesantemente orientato verso quelle aree in cui era facile ottenere tangenti e aggirare la libera concorrenza. Tra  i partiti di governo le prassi occulte acquistarono un’importanza pari, se non superiore, a quanto avveniva alla  luce del sole. I collettori delle tangenti divennero figure molto più importanti dei funzionari eletti. Il nocciolo del problema era l’assenza di qualsiasi genere di controllo e di deterrente morale. La magistratura Mentre i partiti di governo si comportavano nei modi noti, un piccolo ma significativo manipolo di magistrati si  ritrovò più che mai determinato a denunciare queste pratiche. Da questo momento in poi il conflitto tra governo e  magistrati conquistò rapidamente il centro della scena politica italiana. Nei primi anni della repubblica la magistratura era un corpo prevalentemente conservatore che condivideva  valori e opinioni dell’élite al potere. Ma con l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura nel 58, si aprì  una nuova fase. Finalmente, come previsto dalla Costituzione, la piena autonomia dei giudice del pubblico  ministero dal controllo dell’esecutivo divenne realtà. Anche il controllo gerarchico esercitato dai magistrati più  anziani venne meno, lasciando così una relativa libertà d’azione ai magistrati più giovani. Sull’autonomia della magistratura influenzò grandemente la rivoluzione culturale del 68. In questo stesso periodo  la magistratura di divise in correnti, ciascuna caratterizzata da un proprio orientamento politico­ideologico. Ciò  implicava un pericolo legame tra magistrati e partiti politici. Negli anni 80 questo rischio però passò n secondo piano, di fronte all’impari battaglia tra partiti e un piccolo  gruppo di magistrati che cercava di smascherare le pratiche corrotte. Gran parte dei magistrati erano più che propensi a non indagare troppo a fondo nel sistema della corruzione, da  cui, come sarebbe emerso negli anni 90, alcuni di essi traevano concreti vantaggi. Ma c’era un’ostinata  minoranza che non si allineava, e questa doveva essere fermata prima che potesse causare troppi danni. La mafia e lo stato L’evoluzione della mafia Negli anni 80, in Sicilia, la mafia aprì una nuova pagina della sua storia muovendo un attacco diretto contro  quegli uomini delle istituzioni tanto coraggiosi da battersi perché la legge venisse applicata.  A nuova Palermo era sorta sulle fondamenta della più sfrenata speculazione edilizia, della protezione mafiosa e  della corruzione dei politici locali. Il potere della mafia aveva base territoriale e si fondava sul tacito controllo di  alcuni mercati, su una mescolanza di protezione ed estorsione, sull’omertà degli abitanti di quelle zone. X u lungo periodo dopo la fine della guerra la mafia evitò lo scontro frontale con i poteri di stato. Il suo punto di  forza era l’invisibilità, spinta a un limite tale da permettere a certi ambienti di dubitare della sua esistenza. Il lungo periodo di relativa stabilità e integrazione della mafia negli anni postbellici fu incrinato dapprima da una  guerra tra i clan nel 62­63, poi dall’istituzione della prima Commissione parlamentare antimafia (62). La mafia fu  costretta alla difensiva, ma negli anni 70 tornò più forte che mai x l’inefficienza della Commissione e x il boom  del traffico internazionale degli stupefacenti. Il traffico della droga procurò alla mafia enormi guadagni, ma ebbe anche effetti fortemente destabilizzanti  sull’organizzazione: la frenetica attività metteva seriamente in discussione le gerarchie e la suddivisione delle  competenza territoriali. Ciò porto tra il 78 e l’83 alla peggior guerra tra famiglie mai divampata. Da una parte  c’erano i Corleonesi (Totò Riina), sul fronte opposto le “famiglie” che avevano precedentemente dominato a  Palermo (Inzerillo e Bontade). Fu un massacro, e i Corleonesi vinsero. Nel corso degli anni 70 l’organizzazione mafiosa allargò rapidamente il proprio raggio  d’influenza raggiungendo  la costa orientale della Sicilia. Anche le altre 2 principali organizzazioni criminali italiane, la camorra campana e  la ‘ndrangheta calabrese, conobbero, nello stesso periodo, uno sviluppo mai registrato e stabilirono regolari  contatti con la mafia. Negli anni 80 si poté parlare di una diffusa classe criminale nel Mezzogiorno, con collegamenti nel Centro e nel  Nord.  La mafia e i politici La drammatica esplosioni di attività criminali non sarebbe stata possibile senza la collusione di importanti settori  della classe politica. La cultura del clientelismo che aveva dominavano la politica meridionale fornì la base x lo sviluppo delle  organizzazioni criminali. I boss della mafia non avevano certo motivo di opporsi a questa prassi. Essi puntarono  invece a volgere a proprio vantaggio tali pratiche: la strategia della mafia non era quella della guerra aperta  contro lo stato ma dell’avvicinamento ai singoli politici. La mafia poteva offrire il sostegno elettorale delle zone  che controllava, il politico poteva usare il suo potere x favorire e tutelare gli interessi mafiosi. Inoltre, la mafia ha  cercato di inserirsi nei circuiti di distribuzione del denaro pubblico (ex amministrazioni locali). All’interno di questo processo lo stato era nello stesso tempo presente e assente. Da una parte rendeva  disponibili vaste risorse, dall’altra si mostrava assai poco propenso a organizzare o controllarne la distribuzione, 
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