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RIASSUNTO L'ARTE DI SCOMPIGLIAR LE CARTE - Silvana Cirillo, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto capitolo per capitolo completo del libro L'arte di scompigliar le carte di Silvana Cirillo

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

In vendita dal 02/11/2015

laura2810
laura2810 🇮🇹

4

(90)

15 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica RIASSUNTO L'ARTE DI SCOMPIGLIAR LE CARTE - Silvana Cirillo e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Il suo ventre è il ventre del mondo La donna meridionale nella narrativa breve di Corrado Alvaro Con tutta la duttilità e la brillantezza della scrittura, talvolta vicina alla miglior prosa d'arte, ma più spesso improntata a un espressionismo, la pagina di Alvaro risulta alla fine di una discrezione e di una delicatezza sorprendenti nei confronti di luoghi, abitudini, costumi e persone. Non è lo sguardo del giornalista o dell'intellettuale a predominare ma quello semplice dell'uomo. Un uomo, che dà ascolto a tutti i segnali che gli vengono dall'intorno e per ognuno trova le parole capaci di restituirne l'immediatezza e di disegnarli come concreti e tangibili, pur calandoli in processi frequenti di simbolizzazione o in atmosfere allusive e mitiche. Fra le caratteristiche della scrittura di Alvaro balza un accentuato nominalismo che per contrappasso produce aloni magici talvolta surreali riversandosi in corpose e pittoriche immagini, tra cui prepotenti si stagliano metafore e sinestesie. Tanta ricchezza linguistica suona come partorita dalle cose stesse. Mallarmè diceva: un artista moderno deve raccontare non le cose, ma gli effetti che esse producono. Qui ci sono le cose e gli effetti. Tutto sulla pagina di Alvaro si fa spettacolo. Tutto si equivale sotto il suo sguardo e suscita medesimo interesse e passione come se anche lui ri-vedesse ogni cosa per la prima volta, in un intreccio di percorsi diacronici e sincronici, in cui lo scrittore ricostruisce la vita attraverso la geografia e i luoghi e completa, tassello per tassello, l'immagine viva e sofferta del meridione e ognuno di quei segnali diventa per Alvaro occasione per una riflessione o un richiamo al Sud in generale. Il sentimento civile e l'attenzione antropologica, mai pedanti bensì spesso lirici, controbilanciano l'estetismo di luoghi e paesaggi e gusto artistico e piglio morale si sintonizzano. I luoghi invece sono penetrati da Alvaro osmoticamente, restituiti attraverso forti sensazioni, soprattutto attraverso una sorta di sinestesia globale molto sensuale che investe anche il paesaggio, la città, l'arte, i luoghi, la flora e la fauna. E al centro c'è l'uomo, anzi più precisamente la donna. E la donna alvariana, come quella meridionale in genere, anch'essa parla col corpo. E in questa sua corporeità essa è quanto di più vicino ci sia alla natura e all'infanzia e nello stesso tempo proprio a lei è affidata sul palcoscenico del Sud la parte più drammatica, perchè la donna nella poetica alvariana diventa la rappresentanza silenziosa ma eloquente degli oppressi, degli offesi. Ci sono le giovani spensierate e sensuali, quelle più spregiudicate, le donne semplici di provincia, le bambine ancora ignare del loro futuro, ma con già negli occhi un'avvisaglia di sofferenza e di pazienza infinita, ci sono soprattutto le donne con anni e secoli di complessi e di pazienti silenzi sulle spalle. E poi c'è la madre. Esser vivi: che cosa può significare per una donna meridionale, ma soprattutto perchè spetta agli occhi trasmettere questo messaggio? La prosa breve di Corrado Alvaro è ricca di ritratti femminili, di storie in cui le donne, ed in particolar modo quelle meridionali, sono le protagoniste. Fra tutti questi spicca, per la forte vena realistica impressa all'immagine, la descrizione degli abitanti del rione Terra a Napoli, qui Alvaro racconta quanto la dignità di una donna possa non essere intaccata da alcuna sofferenza o degradazione sociale perchè la miseria non intacca i suoi sentimenti ed il suo pudore. E' così che lo scrittore calabrese interpreta la donna dei ceti sociali più bassi: un universo chiuso in sè, che non si apre a nessun contatto con l'esterno e che vive anzi tenta di sopravvivere proprio perchè non contaminato da cambiamenti. Vengono educate con un senso di inferiorità naturale per il fatto di essere prive del membro virile, vivono la loro femminilità come una menomazione. La menopausa e la vecchiaia rappresentano per queste donne una liberazione da tutti, sgombre dagli incubi della gelosia, dalle tentazioni, dalle sollecitudini, starei per dire dal pudore. Alvaro dunque tocca tematiche profonde, coglie negli occhi di bambine, donne, anziane di tutti i paesi del Sud "dolori sofferti da molte generazioni" e nei loro volti e nelle loro storie scopre la faccia del suo paese. E' così che il cerchio si chiude e ritorniamo di nuovo all'immagine dell'occhio che esprime la vita, unico elemento in queste donne capace di trasmettere amore, sofferenza, odio, rassegnazione, desiderio, passione. Ecco esaltata l'enorme importana dello sguardo soprattutto in una realtà di soprusi e sottomissioni in cui la donna vive anche fisicamente oltre che mentalmente e moralmente la costante umiliazione di sentirsi inferiore a causa della sua stessa natura, di sentirsi una straniera e una zingara a vita. Negli occhi di queste donne si coagula tutta la loro femminilità, tutta la loro passione, tutta la loro gioia di vivere, ma anche tutta l'amarezza di una condizione opprimente. La vittoria non è realizzarsi quanto piuttosto sopravvivere. Spesso ad Alvaro non servono le parole per cogliere il dramma della loro vita, bastano i loro visi segnati da rughe che ne registrano la fatica, la sofferenza perchè la gente di un certo tempo e di certi luoghi non ha scuse. Sconta fino in fondo il male, e perfino i difetti della natura di cui non è responsabile. Non ha scuse e in fondo i suoi drammi sono meno miserabili dei nostri di uomini civilizzati. Quali sono le spie di questa regressione? Ancora una volta: gli occhi e la bocca. Dove anche la bocca rimanda come lo sguardo metaforicamente all'eros. La diversa posizione delle labbra segna un passaggio di età che denota anche il venir meno della donna come oggetto di desiderio da parte dell'uomo: è come se ritornasse, invecchiando, ad uno stato verginale, come la fanciulla non è "lacerata", il movimento labiale è serrato, a simboleggiare la chiusura, l'esclusione vecchiaia, qualsiasi sia la loro scelta di vita. Il rattrappimento che connota l'atteggiamento del corpo nella quotidianità e nello stress dei gesti abituali, si distende e si scioglie in un abbandono che sa di rapimento. La madre meridionale dunque introduce il figlio a quel rapporto genuino e fecondo con il mondo, che è la radice più creativa della vita dell'uomo: la fantasia, per l'appunto. Nella poetica alvariana essa rinvia sempre a qualcosa di sano, genuino, fecondo, nutriente, prolifico ed anche le metafore con cui il suo corpo è illuminato vogliono comunicare l'idea di fecondità e abbondanza. E di contro, ci viene in mente in un flas l'Antonia, de "L'età breve" che era la prostituta che andava a servizio alle grandi feste. E' la donna spigolosa, arida, sterile. La madre e la prostituta: due realtà profondamente diverse, forse gli antipodi, ma che appartengono alla stessa donna, quella meridionale, riconoscibile sempre e ovunque, a prescindere dal ruolo sociale o dal mestiere, per quell'atteggiamento che un uomo della stessa contrada indovina sul filo di una memoria fisica. La franerie di Antonio Delfini Alla ricerca della donna irraggiungibile Protetto da una solida posizione economica e libero da obblighi scolastici, il modenese Delfini potè dedicarsi interamente alla contemplazione. Delfini finì per raccontare prevalentemente fatti, personaggi, incontri, stazioni e strade della città senza mete nè obbiettivi, vicino al vagabondare del flaneur di baudelairiana memoria, tipico atteggiamento comportamentale e psicologico dello scrittore disadattato e irregolare del primo 900. L'emotivismo sarà il filtro percettivo attraverso cui passeranno, per giungere a lui, il senso della vita e i colori della vita: la vita non sarà mai, in effetti dallo scrittore direttamente vissuta. Delfini nato a Modena, orfano di padre, visse in compagnia della madre e della sorella un'infanzia e un'adolescenza solitarie. A 12 anni si aggregò addirittura agli squadristi e si iscrisse al fascio. Ma la goliardata durò poco. Autodidatta, scrittore infaticabile di diari e notazioni, intelligenza acuta e curiosa immersa nella cutura vivace e anticonformista della Modena dei Guanda e dei Formiggini, ambedue editori laici e coraggiosi, trovò anche nel loro esempio uno sprone nell'intraprendere iniziative letterarie audaci. Assieme a Guandalini fonda "L'ariete", censurato dopo il primo numero. Ma l'eco della poetica rivoluzionaria surrealista e il suo primo manifesto avevano già colpito. Nel Diario del 4 febbraio 1931 lo scrittore affermava perentorio la necessità del surrealismo. Dopo il noto viaggio a Parigi dice "Se in italiano si avesse una parola che significasse quello che in francese si direbbe flaneur, quella parola appunto sarebbe stato il titolo sospirato" e si riferisce al titolo dello "Spettatore italiano" da lui fondato a Bologna. Il flaneur per antonomasia della letteratura italiana, accanito, istancabile, ozioso battitore distrade cittadine e itinerari onirici, strenuo difensore di percorsi alternativi e antiaccademico. Il flaneur ancora è vagabondo inquieto e irriquieto, incontentabile nel suo ricercare senza mete e senza risposte, "diabolico" nel suo scompigliare stracce e confini di spazi definiti e circoscritti, nel sottrargli figure e fatti per crearvi le scenografie immaginarie di un teatro mentale, misto di sequenze reali e immaginarie. La città di provincia è lo spazio topografico prescelto da Delfini. Le scelte di campo, le inquadrature invece nascono da una visione dettata dalla disponibilità percettiva diversa dello scrittore. Così le stazioni piene di folle e chiasso, i portici, le finestre sono parole-chiave ricorrenti nella città-sogno delfiniana, diventano i luoghi simbolici delle sue illusioni infantili, del suo contemporaneo esserci e non esserci, del suo guardare all'esterno per vedersi nel profondo e per attendere che qualcosa di reale susciti il sogno. La città allora sfuma nella campagna come il presente nel passato e la maturità nell'infanzia: in "Ritorno in città" la manipolazione delfiniana del tempo è evidente. Il presente, come tempo della concretezza, del reale e del vissuto da ora in poi sarà sempre eluso. L'io profondo non subisce più la meccanica razionale e critica delle repressioni. Quando accade che la memoria inizia a fantasticare e sognare e la reverie a ricordare allora la scintilla nasce dalla saldatura della memoria e dell'immaginazione ed è l'immaginazione che ravviva la memoria, ed è l'infanzia che colora la vita adulta. All'infanzia, simbolo della libertà assoluta di fantasticare sciolta da vincoli di storia e di tempo, intitolò la sua bandiera ideale la rivoluzione surrealista. Nei racconti dell'infanzia il vero calendario è quello delle stagioni della memoria. Ma c'è anche un Delfini giocosamente dadaista: nel "Dialogo di questi giorni" ha per argomento nientemeno che i bisogni primari di un lui e di una lei inun incontro occasionale o le scoperte erotiche e piccanti del duca bambino in "Storia di un duca" o "28 dicembre 1944". Tornando alla reverie, è stato osservato dalla psicanalisi e filosofi che essa, a differenza del sogno, non si racconta. Per comunicarla bisogna scriverla. Questo vale anzitutto per l'amore. E' lo stesso perverso gioco mentale e psicologico di dilazioni e spostamenti che pratica Delfini. Il sogno d'amore intanto si è trasformato in ipotesi di vita e la donna un inappagato oggetto di desiderio: nella perversa dinamica del racconto la parola diventa l'unica realtà tangibile e all'autore non resta che dire: Desiderio ergo sum. Rispunta all'orizzonte la matrice gozzaniana: non è la vita che impronta la letteratura, bensì il contrario ma Delfini, novello inetto di sveviana memoria, alla maniera surrealista fa davvero della donna la sola capace di riconciliare l'uomo con l'idea della vita. Nei volumi "Ricordo della basca" e della "Rosina perduta" protagonista è sempre un'idea di donna, mai presa e mai perduta, con nome e cognome ma egualmente astratta e irraggiungibile da collocarsi in un cielo di un tempo passato o di un tempo avvenire. Come avviene solo se si immagina la Madonna. Donna amata nel passao del ricordo o nel futuro del sogno: mai donna amante. Troppo facile individuare nella madre (terra, natura) l'ostacolo psicologico alla realizzazione di una vita d'amore completa. Dal mondo nebuloso e un pò crepuscolare della reverie passa a quello più convulso dell'onirismo e del dettato automatico nel famoso "Fanalino della battimonda" ritenuto dai più la sua vera opera surrealista. In effetti essa rispecchia le suggestioni riportate dal viaggio a Parigi che cadono in un momento particolarmente allegro e creativo. Il protagonista del racconto "Il contrabbandiere" sotto il nome di conte Ludovis Maltinor, "mercante ebreo rinnegato" torna qui affiancato da un personaggio dandy e sognatore, Al, il saggio che ha capito che la fuga più saggia è nel sogno, è inserito in una sorta di teatro macabro, con inquadrature, flashes di strane figure che ricordano i quadri con cui si apre l'hermaphrodito di Savino. Ludovis, ovvero etimologicamente "la forza del gioco" rispetta l'origine del nome e gioca con e contro tutti: medici, giornalisti, burocratici, organizzatori. Si fa narratore, spettatore/esecutore, il linguaggio lo attraversa, cresce su se stesso, fuori dalle regole tra anacoluti, inversioni, spostamenti metonimici, francesismo rivoluzionari, unico rimedio alla noia corrosiva, al vuoto e alla ripetitività della vita e della lingua canonica. Il trinomio erotico sogno-realtà-desiderio si sposa col binomio ozio-piacere e ne nasce un'insurrezione novecentista, buffonesca, piena di frottole, di immaginazione e di spirito tendenzioso. Il poeta non crede più in niente perchè non ne vale la pena, ma nello stesso tempo vorrebbe che tutto risorgesse ed è perciò che scrive un anticanzoniere, l'anticanzoniere di questi ultimi giorni della vita del mondo. Ultimi giorni che stiamo vivendo o che ci illudiamo di vivere. Optò per il titolo attuale, forse ricordo di un brano dell'amatissimo Baudelaire, "La fine del mondo". In realtà le "Poesie della fine del mondo", che lo scrittore dichiarò nascevano per colpa di una donna, con la loro polemica si spingevano ben oltre l'orgoglio ferito dall'amante abbandonato e coinvolgevano un'intera città, un'intera classe, la ricca borghesia del Nord, una fase della vita italiana, quella del boom della fine degli anni 50. Il tutto senza risparmiare colpi e senza mezze misure, con una fantasiosità di immagini e invettive, un libertinaggio nelle scelte lessicali, un'audacia nel giocare con le parole, nel mischiare stili, nell'accoppiare rime e assonanze e nello scompigliare le regole del genere. Infatti la sua fame di surrealismo non si era quietata ma a distanza di 30 anni il surrealismo di base si era perfezionato in direzione di un grottesco espressionismo allegerito da toni goliardici di un dadaismo rivisitato. Delfini divise le poesie in due gruppi: il primo con le poesie scritte a Modena fra il 58 e il 59 il secondo come quelle composte a Roma e a Livorno tra il 59 e il 60 riconoscibili per un più graffiante pregio civile. Il gruppo modenese si caratterizza per i toni apparentemente più pacati e per la sottigliezza di audaci artefici tecnici spinti fino al nonsense della scrittura automatica e al caos del collage di frasi fatte, slogan, titoli di giornale. Nel secondo gruppo invece, l'effetto comico nasce da un preciso taglio tendenzioso, l'inventiva grossolana e oscena esplode in un linguaggio crasso e corposo, contrastato qua e là e smorzato dal cantilenare delle rime baciate. Il poeta, "l'acchiappanuvole", il capriccioso, il curioso, l'ipocrita, il maldestro come Delfini si definisce, il poeta è in sostanza il vero protagonista delle poesie: metaletterariamente esibito e offerto al pubblico. L'acchiappanuvole, l'eterno flaneur, sempre in fuga e sempre altrove, per una volta nella sua vita aveva deciso di scendere in terra e fermarcisi. Aveva smesso di guardare la donna come una Madonna e pensato di possederla e accasarsi. Ma ha sbagliato bersaglio e ha sbagliato donna, la donna dei suoi sogni letterari ed esistenziali una volta raggiunta si è rivelata ai suoi occhi una strega. Ma non basta la Luisa B. che l'ha ingannato, altro non è che lo specchio della società borghese, vuota, annoiata, avida, opportunista che abita la provincia da sempre. Al poeta non resta allora che dissacrarla, questa fetta di società, buttandola in scena con violenza implacabile e inquadrandola dal basso. Il poeta "ultimo contemplatore dell'universo" si fa sì, antitodo della storia e alla corruzione ma non ricorrendo alla contemplazione anzi esibendo sadismo, ferocia cannibalica, aggressività oscena, falcoltà e libertà di immaginazione, improvvisandosi voyeur, collegando l'aggressività surrealista al materialismo duro delle neoavanguardie. Il poeta si diverte a sconcertare il lettore. Si diverte dunque. Delfini novello Jarry scettico e rivoluzionario gioca a scandalizzare il lettore e l'accademia per accentuare il suo programmatico non allineamento, fonda pure un'antiaccademia, l'Accademia degli informi. L'espressionismo tragicomico di Gallian Le prostitute censurate in "La scoperta della terra" e "Bassofondo" Marcello Gallian, scrittore e drammaturgo nato a Roma, cresciuto a Firenze, nonostante sia stato un fautore del fascismo della prima ora, abbia seguito a soli 17 anni 'Annunzio a Fiume, fu in realtà un intellettuale La commedia della vita Nascita e morte della massaia di Paola Masino "Nascita e morte della massaia" letto da taluni come un polemico sfogo di una donna e perciò femminista, il testo invece è sociologico e di costume, in difesa di un concetto elevato e finisce per investire problematiche e interrogativi più ampi e profondi e per portar fuori sofferenze, crisi. Spunto può essere un lungo soggiorno della Masino a Venezia in una casa sul Canal Grande. Disse che scrisse il romanzo ed era come psicanalizzarsi. La Masino, scrittrice appartata e difficile, di lettori ne aveva pochi e ciò non bastò al regime che tacciandola di disfattismo, bloccò la sua pubblicazione. La Masino si era conquistata la fama di scrittrice antifascista. Finalmente nel 46 arriva senza emendamenti "Nascita e morte" che susciterà un notevole interesse e certo scalpore, visto il clima di rivendicazioni femministe che era molto caldo in quel periodo. La scrittura personalissima della Masino se da un lato costruisce paesaggi e architetture barocche, dall'altro plasma situazioni sospese in uno spazio intriso di vuoto e di morte. La pulsione di morte è il filo conduttore sempre presente. L'interrogazione sulla morte, la paura della morte, la rassegnazione della morte diventano alla fine desiderio concreto di morte: una morte vissuta fin dalla nascita come conspevolezza dell'inutilità di una vita destinata a finire e che perciò diventa la protagonista subdola e sottintesa di ogni mossa o pensiero. La massaia in questione in realtà non vive e il suo sarà un vero e proprio suicidio psicologico. La narrativa di Masino è proiettata apocalitticamente sulla fine e sul suo significato che condiziona il racconto già dall'inizio, dal titolo. E il senso che ti resta in bocca a fine lettura è quello di un vuoto opprimente, un interrogativo aspro sul "cosa siamo e dove andiamo", un'impressione di indifferenza generale, di universo senza scopi. Privo di un vero e proprio pilota poche sono le coordinate del racconto: l'infanzia, il matrimonio, la guerra e la morte. Manca il presente come vita vissuta esso è solo un raccordo tra passato, fatto di ricordi e sogni ad occhi aperti, e il futuro, la morte. Il filo conduttore è uno stato di perenne trance dove le categorie di spazio e di tempo che la massaia si ritaglierà sono astratte e mentali, lontane dal vivere normale del comune mortale. La bambina, ovvero la futura massaia, vivrà in questa condizione "polverosa e sonnolenta" molto paradossale ma in realtà assai attenta e riflessiva, fino all'età di 18 anni. Quello trascorso nel baule è un tempo felice anzi l'unico felice che la vita le ha riservato. Quando ancora fuori dalle grinfie di una madre borghese e conformista potrà godersi il suo piccolo regno selvaggio, pieno di oggetti inutili e imparare a ragionare da sola. E a chiedersi la ragione di ogni cosa che la circonda. Proprio quello che la Masino dice di aver fatto fin da bambina divorata dal "cancro dell'intelligenza" che proliferava inesausto. Un pò quanto per tutto il resto del libro diverrà il rimpianto della massaia. Il baule è uno spazio teatrale ove la bambina senza nome nè connotati può fingersi già tragicamente morta, è la culla in cui trovar rifugio e farsi cullare, è uno spazio mentale e onirico dove il senso concreto della realtà non ha accesso. La futura massaia si abitua così a convivere con quello che resta di ogni cosa, uomo compreso. Ovvero con la morte. Arrivano i 18 anni, la ragazza senza nome decide di far felice la madre e uscire in società. Inizia a morire in questo momento, inizia la farsa. L'animale selvaggio è diventata una libellula leggera. Con queste sequenze la Masino apre la strada a tutte le possibili varianti di comincità, toccherà le corde dell'assurdo e del paradosso per ribaltare gli schemi sociali ed economici convenzionali. Poco parlerà la bambina nei 18 anni di autoisolamento ma il suo linguaggio vero è connaturato di corporeità animalesca selvatica, spigolosa, contratta, di gesti inusuali, di posture fetali. Tanto parleranno invece la madre, familiari e amici nelle occasioni conviviali e quotidiane e il loro linguaggio è intessuto di convenevoli e formule, di luoghi comuni passati, risate false e i loro corpi sono ingessati in abiti e maschere di convenienza. L'abito, nel romanzo della Masino diventa marchio simbolico dello stato d'animo e dello status sociale e scandirà tutte le tappe più importanti della vita della massaia. La semplicità e povertà d'abito segnano i momenti di libertà e rivolta, il passaggio dalla fanciullezza pure alla adultità è scandito da un abito elegante e provocante. Ma in un salotto bene si può mangiare? Tutti i personaggio del romanzo hanno sempre in qualche modo a che fare con il cibo e sono ingordi, quasi sopperiscono con l'ingordigia all'immobilità intelletuale e all'inerzia ideologica ed esistenziale. Questi sono fra i pochi personaggi della Masino che riescono a mangiare. Non è casuale allora che nel romanzo siano ricorrenti pietanze, cibi, spese alimentari e mercati, rituali del pranzo e della cena. Come se la scrittrice istituisse un'equazione tra cibo e riflessione. La ragazza dunque diventata donna e apparentemente integrata accetta di sposarsi senza amore: tanto il matrimonio è comunque la tomba dell'amore. La libellula accetta di diventare ape industriosa e attenta, di tenere pulita e ordinata la casa. E diverso è il punto di vista da cui sono guardati il dentro e il fuori. Riempire il vuoto è il dictat interno che spinge la massaia. Il romanzo della Masino svaluta e deride la grandezza e la nobiltà di intenti perchè essi portano al delirio, malattie, dissipazione di energie. La massaia compie azioni ridicole e patetiche perchè il mondo è comico e risibile. Diventa allora un personaggio umoristico e ciò che di tragico è in lei è subito trascritto in chiave grottesca. Ed è proprio la tragicità del suo coraggio di ribellione e di inadeguamento che diventa comica. Da qui inevitabile l'interscambio infinito tra tragicità e comicità. La morte è sempre là che respira 5) monologhi farneticanti 6) ripetizioni ossessive 7) dialoghi fuori scena. Landolfi mischia risata e orrore. Cadono a pennello le parole di Yvan Goll:" l'autore moderno deve cercare nuovi mezzi di provocazione, maschere rozze e grottesche" I fantocci, gli ibridi uomo animale incontrati nella narrativa Landolfiana o con la stessa bambola ne "la moglie di Gogol". Per Artaud l'io è un non io. il grottesco estremizza. Fantocci come la bambola gonfiabile di Gogol, in ripetizioni cicliche di frasi e immagini ossessive: tutto è permesso teatro, dar corpo ai personaggi ma anche materializzare le angosce, le presenze interiori. Le scene non necessariamente si susseguono le une alle altre secondo logica. Il claustrum , culla e tomba è un palcoscenico onirico di un teatro mentale, "La vita non passa nella mia opera" dirá Landolfi in un diario, scenografia del delirio che supera tal volta la soglia dell' impossibile. La crudeltà lucidamente scelta da Artaud torna. In una configurazione spettacolare come quella di Landolfi fa tra parodia e melodramma. UN teatro clownesco e macabro un teatro alla maniera di ArtAUD. Ma l'assurdo Landolfiano non segue sempre percorsi pericolosi e accidentati, talvolta si diverte su circuiti sorprendenti come quelli delle montagne russe. Quando vuole produrre effetti di non sense li ri- incalza di formule matematiche,di curiosità numeriche, come ne "l astronomia esposta al popolo" o "La melotecnica". Oppure ancora in "la matematica non è un'opinione" capolavoro giocoso e laico relativismo. Concludendo, se la teatralizzazione al Landolfi regista serve ad adottare più punti di vista e ottiche al Landolfi scrittore consente di auto-ironizzarsi e ironizzare sul proprio ruolo svelando le proprie menzogne, i propri trucchi, sdoppiandosi in oggetto di riso e soggetto che ride e deride. Tra letteratura cronaca e storia passaggi e sconfinamenti il giorno degli assassinii di Carlo Bernari La fantasia come testimone a difesa: così Giacomo Debenedetti sottolineava il suo pezzo sul nuovo romanzo di Carlo Bernari uscito il 2 marzo 1981 sul Corriere della Sera. "Il romanzo di Bernari nato da un triplice omicidio" era il titolo. Bernari si scherniva sin dalle prime pagine del libro prendendo le distanze da qualunque fatto reale e riconducibile al suo, a partire dal fattaccio di Via Caravaggio misterioso triplice delitto del 1976 in cui fu sterminata una famiglia intera compreso il cagnolino senza apparente movente. Sappiamo bene che lo scrittore fu chiamato a testimoniare in tribunale a difesa del mostro di Napoli Domenico Carrelli condannato all'ergastolo e assolto nell' 81 anche grazie alla lettura posteriore dei fatti e che parti del suo romanzo furono lette in aula. Bernari chiede di poter studiare le carte convinto che l'occhio di un giornalista scrittore potesse contribuire a leggere a rielaborare i fatti sì da illuminare la verità. Da qui il suo indagare e interrogare gli incartamenti per circa due anni con la conclusione è che non di un raptus ma di un rito eseguito dei professionisti del crimine. (camorristi?)Il libro fresco di stampa fu letto dagli avvocati difensori forti di nuovi particolari e punti di vista riuscirono a far scarcerare Carrelli. il libro divenne un caso esemplare ma non dimentichiamo che di un romanzo si tratta ed è così che va letto. Bernari cresciuto tra l'altro alla scuola letteraria e cinematografica di Zavattini. Bernari aveva un occhio in più, quello della macchina fotografica, abituato a prestare attenzione ai minimi dettagli e a toni e colori che l'uomo qualunque trascura. Miglior esempio di genere "noir" (più che di giallo proprio di noir si tratta) articolato puntiglioso e acuto. Da dove partire? da un vecchio gioco che mi viene da fare in circostanze del genere. Chiuso il libro che cosa mi viene in mente di primo acchito? Due o tre richiami immediati. Il primo è inevitabile: Carlo Emilio Gadda. Il Gadda teorico quello che non aveva mai amato il neorealismo, quello che nel romanzo giallo identificava le maggiori potenzialità strutturali, architettoniche di romanzesco e narratività. La realtà è uno gnommero inestricabile, il giallo li racchiudeva tutti. Poco importava il finale, la conclusione, la soluzione del caso. Opera aperta questa Bernariana con tanta cronaca e documentazione alle spalle. Opera aperta depistante e sperimentale questa di Bernari. Bernari inventa un romanzo nel romanzo. un romanzo cipolla. L'espediente del manoscritto ritrovato concretizzato in un diario anonimo e tre lettere ipoteticamente inviate al pubblico ministero spedite alla casella postale del narratore il quale non indugia un secondo a divulgare i contenuti. Ma il lettore ne è informato solo alla fine, scoprendo che la prima persona del narratore non coincide con quella del l'autore del romanzo. Diario di chi? si tratta di un narratore in prima persona fuggitivo per questioni politiche (sembra un terrorista ma non si dà per certo) si nasconde a lungo proprio nell'appartamento di famiglia di Dino ovvero di colui che sarà accusato dei tre efferati omicidi di via Traiano avendo la possibilità di studiarne mosse e comportamenti. Le sue vicende si intrecciano con quelle di Dino Carrelli così due situazioni vengono ad intrecciarsi s'intrecciano pure i momenti della giornata dialoghi figure laterali e i luoghi. Proseguiamo il gioco, salta alla mente "realtà della realtà". E penso alla corrispondenza Zavattini/ Bernari. "Cerca di non forzare mai la realtà" scriveva Za a Carlo soggettista e sceneggiatore nel 51. E Bernari la scandaglia questa realtà ne fa un luogo filosofico. Anche ne "il giorno degli assassini" dove indiscussa protagonista è lei. Chiudiamo il cerchio con il Bernari degli assassini e la Napoli "animale vivo" non Sfondo ne cornice ma luogo di vita e di paura. È Napoli mai nominata a cominciare da via Traiano strada dell'assassinio invece che via Caravaggio. "Nel caos non c'è né amore né rivoluzione" scriveva Bernari nel "Foro nel parabrezza" a ridosso della strage di piazza Fontana. Se Dino alla vecchia amante ritrovata rapina tutti gli arretrati della pensione del marito morto e se li spende con la bella nuova compagna spogliarellista. Mentre le due donne di casa, madre e cameriera- balia di Dino si disperano in uno scialacquio quotidiano senza impegno e le tue brigatiste Zita e Lea non possono concedersi passioni sincere:"a dispetto di quella distanza che ci eravamo imposti o ci incontravamo per uno scambio o una missione. Ci abbracciamo e ci tenevamo allacciati come amanti. Ma era solamente un copione. Tutto contribuisce a creare l'immagine tumultuosa e infernale della vita, nomi veri e falsi mischiati a personaggi inventati e uomini reali. Questo devi diventare: ombra fra ombre. L'angelo della cronaca La cronaca come poesia nel giornalismo di Buzzati Eccentrica si è rivelata l'attività di Dino Buzzati. Buzzati cominciò a mostrarsi interessato al disegno e alla scrittura intorno al 1920 dopo la morte del padre Giulio Cesare docente di diritto all'Università di Pavia di cui avrebbe seguito il modello laureandosi in giurisprudenza. Il suo obiettivo primario fu quello di esercitare la professione giornalistica. Del 33 sarà il suo primo romanzo "Barnabo delle montagne". Era rimasto affascinato dai disegni di Arthur Rackam e "La storia dell'arte egiziana" dell'egittologo Gaston Maspèro che la prima prova letteraria di Dinophis (pseudonimo di Dino Buzzati) l'Anubeide dovette ispirarsi ad una reinterpretazione della scrittura egizia. Al giornalismo che intraprenderà nel luglio del 1928 appena ventiduenne inesperto al Corriere della Sera e che non abbandonerà più fino alla morte(1972).Nel settore giornalistico ricoprì tutte le mansioni da correttore di bozze a raccoglitore di notizie a redattore di cronaca a titolista a inviato speciale in Africa. Passò dalla cronaca alla direzione editoriale della Domenica del Corriere di cui salvò i destini e moltiplicò le vendite creando una squadra in cui lavorarono Walter Molino, Orio Vergani e Indro Montanelli dando più spazio alla fotografia e siccome Montanelli conveniva con Buzzati che la storia così com'è è raccontata nei libri scolastici era noiosa, lo convinse a scrivere a puntate sulla Domenica del Corriere la storia dei Greci e dei romani la stessa che trasferita in volume fece di Montanelli il più venduto tra gli scrittori italiani. Nel 63 fu il nuovo amministratore Egidio Stagno a sollevarlo dall'incarico per trasformare la Corrierona e metterla in concorrenza con Epoca e gente IN BREVE Il Giornale falli. Il poema a fumetti i miracoli di Val Morel sono la realizzazione di scrittura e pittura a cui l'autore non seppe e non volle mai rinunciare. Non amava sentirsi chiamare critico d'arte Buzzati ma scrittore che capiva l'arte moderna. Usciva la mattina il suo pezzo sul Corriere è il pomeriggio e la sera le Gallerie si riempivano.A Via San Gregorio a Milano una sera del 46 furono uccisi a sprangate una donna e i suoi tre figli Buzzati arrivò ancor prima della polizia, non c'è la televisione, tutto quello che il cronista riesce a ricreare è per proiettarci dentro il lettore stesso. Aveva il colpo d'occhio Per la Nera. Arriva sul luogo del delitto prima della polizia quando la scena si presenta ancora più drammatica. scrive il pezzo qualche giorno dopo il fatto quando già Rina Fort è accusata dell'omicidio. Il processo poi nel 1950 e anche quello sarà seguito da Buzzati attraverso altre pagine esemplari. Il connubio tra arte e scrittura Buzzati lo avrebbe celebrato per tutta la vita. Come il re Mida quello che Buzzati tocca con la sua penna si trasforma in oro in vera letteratura. Ne sono la prova la cronaca in occasione dell'ergastolo di Rina Fort o quella che inviò al corriere da Alberga dove persero la vita 43 bambini e 4 maestre di una colonia Milanese nel naufragio della motonave su cui erano inbarcati. Buzzati riusciva a cogliere il dramma quotidiano ma senza cadere nel tranello della spettacolarizzazione. Pensiamo alla tragedia del Vajont in cui: un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. tutto qui. solo che il bicchiere era alto centinaia di metri è il sasso grande come una montagna e di sotto sulla tovaglia stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Montale vedeva in lui letteratura e giornalismo come dentro e fuori di un medesimo quanto rovesciato. Altrettanto avvincente la sua cronaca del Giro d'Italia affidatagli nel 1949 in cui ci restituisce il ritratto umano e sportivo di Bartali e Coppi. che da allora furono immortalati come eroici Enea e Achille. Vinse la maglia rosa Coppi e nacque un volume: Dino Buzzati al Giro d'Italia che raccoglie 25 servizi scritti per il Corriere. Ma torniamo indietro negli anni 30 Buzzati sará in Libia dove si augura la sua passione per il deserto in Etiopia dove rimarrà dall'aprile del 39 all'aprile del 40. Dei 73 articoli per lo più forzatamente incentrati sulla natura e usi e costumi di laggiù 13 furono censurati mentre gli altri passati al filtro dell'ufficio stampa di Addis Abeba e del corriere. In Africa Orientale il lavoro giornalistico era difficilissimo tutti i problemi interessanti- e Dio sa se ce n'erano- erano tabu e bisognava girarci attorno con precauzione. Ha scambiato immagini e ricordi italiani con quelli di Addis Abeba cercando Vecchine e mamme che in una popolazione forte e giovane sembrano sparire e ha elogiato gli italiani più semplici dislocati per ricostruire il paese. Il tono è quello del "deserto dei tartari", dove la città era Bari di Etiopia.Il romanzo uscì il 9 giugno del 1940 presso Rizzoli, Buzzati aveva già vissuto la sua prima esperienza di inviato di guerra ad Addis Abeba ma non fu la guerra a ispirarlo nella narrazione del deserto. Lo indusse l'indole militare. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti al Corriere della Sera ed è un lavoro pesante e monotono, il peso del deserto dei tartari non è tanto nella noia dell'attesa tipici della redazione del giornale quanto nell'interrogazione sul senso dell'esistenza. Buzzati stesso ha un rimpianto forte per un Dio a cui non riesce a credere e ha perso fedi, miti e illusioni. Drogo partendo per la fortezza si dirige verso nord, si sottrae alla madre e gli affetti per lungo tempo e sopraffatto dall'abitudine a vivere non si accorge dello scorrere del tempo che porta dritti alla morte. grande evento a cui parteciperà a da protagonista. Arriva la guerra e Buzzati è imbarcato per conto del Corriere come corrispondente di guerra. Scriverá articoli per il Corriere della Sera e il Corriere dell'informazione e confluiranno insieme ad altri nel volume il Buttafuoco. Non il deserto ma il mare è ora il protagonista assieme a tanti anonimi personaggi della Marina Militare. Buzzati dà voce a uomini figli Madri ufficiali sergenti Marinai e mogli, ansie,addii ,sogni ,morti, agguati ,battiti ,mancamenti. Il pubblico pensa al comandante che tiene la sorte della nave, per Buzzati invece altri sono gli eroi e trionfa la paura della guerra e il mare amico/ nemico. Tornano i racconti di impronta surreale. Osserva con grande ironia società e costumi della Milano bene. La Babelica e labirintica Milano appare nei racconti e in "un amore". È il luogo dell'abitudine,del tempo, e il luogo dell'odio che si scatena tra automobilisti, dell'inquinamento e della ripetitività. Ancora in qualità di inviato troviamo Buzzati ai confini del mondo, in Giappone andrà nel 63 per seguire i preparativi in vista delle Olimpiadi del 64 invierà 15 articoli di cui 3 inseriti nelle: cronache terrestri. Non perderà occasione per sondare aspetti architettonici urbanistici economici. Nel 64 sarà al seguito del Papa che per la prima volta si allunga in Terra Santa è in India. Manderà 7 pezzi in cui toccherà i conflitti tra credo diversi come l'ebreo e il cristiano, proverà a trasmettere quello che la televisione non può immortalare. Il giornalista si infila nelle più piccole cose avvicina mondi lontani e dá risalto a figure anonime e questo è un buon giornalismo al servizio del lettore come lui stesso auspicava. Altiero Spinelli uno scrittore di razza come ha tentato di diventare saggio Altiero Spinelli scrittore nei tre anni di attività del Comitato nazionale di cui ho fatto parte si è confermato il politico di razza e il grande intellettuale, un vero e proprio maitre à penser scrittore di gran classe. Scrittore di classe un posto tra i classici della letteratura del 900 per le pagine dell'autobiografia: Io Ulisse come ha tentato di diventare saggio. Se vogliamo trovare dei pendant alla prosa Spinelliana mi vengono alla mente due nomi Alberto Savinio e Giacomo DeBenedetti. Il primo eclettico e geniale artista della prima metà del 900 scrisse Sorte dell'Europa. Giacomo De Benedetti riconosciuto oggi come il più grande critico italiano del 900 ineguagliabile con una scrittura chiara e limpida tipica più della prosa narrativa che del saggio. De Benedetti si lascia leggere come fosse un romanzo al pari di Spinelli che incatena alla pagina il lettore e lo conduce fino alla fine della lettura. L'autobiografia ha il passo tipico di un romanzo di formazione. Come Ulisse si definì Spinelli non appena entrato nella clandestinità, citando Dante: "nati non fummo a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" per lui virtute e conoscenza sono andati di pari passo. Tentò di diventare saggio ma come Don Chisciotte aveva ancora tanti mulini a vento da combattere. È stata una sorpresa scoprire che un politico della tempra inflessibile di Altiero Spinelli padre fondatore dell'Europa e del federalismo europeo autore con Ernesto dire poi del sogno premonitore di Zavattini di introdurre un ora di pace nelle scuole al fine di educare alla pace le generazioni? La pace è un sentimento che non nasce come un fungo ma si coltiva nel quotidiano. Anche il primo film di cronaca "ROMA ore 11" con la regia di Giuseppe De Santis ha un impianto giornalistico. E così il primo film lampo ideato da Zavattini "storia di Caterina" entra a far parte dei film a episodi:" amore in città "seguito da "siamo donne" con Ingrid Bergman e Anna Magnani. Saggi giornalistici sono i due cicli di trasmissioni radiofoniche "voi e io" andati in onda nel 1975 /1976 quotidianamente. Dialoghi tra Zavattini e il suo pubblico spesso oggetto di scandali e reazioni che Zavattini ha provocato osando pronunciare ai microfoni della Rai la parola cazzo. Fu proprio Zavattini a scrivere: "Diu al ghè s a ghè la figa al ghe". E infine in "ossequio alla sintesi e alla brevità" che Zavattini inizia a pubblicare nel 1983 su "Paese Sera"i telegrammi di Zavattini". FAVOLA/FAVOLE (La favola moderna da Collodi a Calvino) La favola d'autore:La favola è come il gatto, ha 7 spiriti e non muore mai? pare proprio di sì.La fiaba d'autore che distingueremo da quella popolare tramandata oralmente la favola come genere letterario legittimato ad avere un posto all'interno della narrativa. Al posto dello storico "c'era una volta" quanti pochi "e vissero felici e contenti" perché la conclusione risulti aperta e la favola per tutti non solo per ragazzi! Luigi Malerba concluderà il suo Pinocchio con gli stivali con un "e vissero tutti confusi e contenti" Tommaso Landolfi nel suo "il principe infelice" alla felicità sostituisce la povertà. Ma l'incipit che fece più scalpore fu quello di Pinocchio, la domanda di apertura "c'era una volta un re? Diranno subito i miei piccoli lettori, no ragazzi, avete sbagliato c'era una volta un pezzo di legno!" Pinocchio si può considerare la favola più moderna originale e adattabile alla contemporaneità di quelle scritture a cavallo di due secoli. Allegro vivace buffonesca, nè dolorosa nè piagnucolosa essa anticipa le linee di tendenza dell'avanguardia primo Novecentesca. Collodi desublima sentimentalismi e lirismi edulcorati,e affida alle metamorfosi di un pezzo di legno giovane e curioso la contrapposizione all'uomo adulto ovvero all'homo sapiens. E in tutto ciò fa dimenticare che alla fine il "picaro" di legno diventa un bravo bambino in carne ed ossa, lo diventa per amore e abnegazione nei confronti di Geppetto non per obbedienza e la metamorfosi si compie al termine di un avventuroso viaggio pieno di sorprese, tentazioni e trappole. Le avventure di Pinocchio uscì alla fine dell'800 nel 1883, Pinocchio si aggira nei vicoli fiorentini, nel mare sconfinato o nel labirinto cupo dello stomaco della balenottera,tra circhi e teatrini sempre solo, sommerso da incontri e avventure più grandi di lui, Pinocchio finisce per rappresentare la solitudine più profonda impaurita e insieme la curiosità irresistibile e la voluttà della conoscenza. La flanerie antelitteram, il suo vagabondare. Schematizzando rispetto al modello di base della favola tradizionale quelle che possiamo definire le favole moderne presentano molta autonomia e libertà che li caratterizza più o meno tutti. I personaggi sono familiari, imprevedibili, lo stesso vale per i conflitti sociali: poveri e ricchi ,buoni e cattivi, protagonisti e antagonisti restano. Fanno eccezione favole come "la raganella d'oro" e "il principe infelice" di Tommaso Landolfi la cui modernità è nell'imprevedibilità del finale."i tre talismani", "la principessa si sposa" di Guido Gozzano. I luoghi sono quasi sempre riconducibili all'oggi, raramente sparso in spazi magici o mitici. Di regni si parla nel "codice di Perelà" di Palazzeschi, il percorso, gli ostacoli, l'obiettivo è di indurre il lettore alla riflessione non di sedurlo con un percorso educativo. La morale della favola è sostituita da un finale imprevedibile quando non aperto felice o allegro. il viaggio è Movimento, fuga, volo, andata e ritorno, elemento irrinunciabile. fuga: per cercare un altrove esistenziale più libero, una metamorfosi, una ricerca di cambiamento, ma senza guerre ,né vincitori né vinti. Già per il primo Pinocchio di Collodi se escludiamo il finale ortodosso ha una sua autonomia estetica. Pensiamo a "romanzo delle delusioni" di Sergio Tofano dove il protagonista Benvenuto in punizione per l'inefficienza scolastica senza una figura materna presente come Pinocchio o come Perelà, o come Totò il buono di Zavattini nato sotto un cavolo, fugge dalla vita di ogni giorno con ai piedi i mocassini magici fatti di frammenti dei celebri stivali delle sette leghe e si rifugia nei paesi delle favole antiche, Cappuccetto Rosso ,Cenerentola, Barbablù, per ritrovare i mondi della sua fantasia e della Libertà. Inizia il viaggio ideale fatto di fiabe e leggende. Ma c'è un secondo risvolto del viaggio-fuga più fiabesco, nascerà dal desiderio di vivere la fiaba come scappare dalle costrizioni, divieti in cui l' orco padre lo costringe. Le favole si sono inborghesite, le dinamiche dei rapporti familiari sembrano uscire da un manuale di psicoanalisi, gli orchi si sono impigriti e vivono in grandi palazzi, i principi sono insofferenti e vendicativi, i geni ridotti poveri, i lupi buoni e generosi donano gli organi per guarire le vecchie nonne. Benvenuto torna indietro ma non si trasforma in un bravo bambino, la fuga l'ha fatto crescere direbbe Calvino ma non lo ha omologato, il viaggio ha la funzione della Formazione ribaltata che conferma il bambino nelle sue perplessità e rifiuti. Il viaggio ha funzionato come processo di conoscenza. Le situazioni di forza, l'alternanza di linguaggio alto è parlato basso, il dialogo e fiabesco che diventa umano, l'assurdo che sembra familiare, richiamano da vicino il "codice di Perelà" di Palazzeschi fiaba romanzata o romanzo fiabesco del 1911 "la favola aerea". Intelligenza e fantasia sono per Palazzeschi gli ingredienti necessari per coltivare un autonoma e vivace creatività! E per dare voce all'uomo nuovo, leggero come un uccello che alla fine del romanzo se ne rivola in cielo seguito da uno stuolo di uomini leggeri come lui.Tornando a Zavattini, la sua poetica della meraviglia tinta di poesia ma condita con grossi manciate di umorismo che è alla base delle sue favole moderne, fece la scuola a molti artisti e trova piena soddisfazione in "Totò il buono" favola moderna scritta per ragazzi ma che possono leggere anche gli adulti. (1941)Protagonista Totò, nato sotto un cavolo, ispirato al più famoso Antonio de Curtis cinematografico. Totò il buono uscì a puntate su "tempo" nel 1942, illustrato da Mino Maccari. Il romanzo gode della struttura della favola. Divenuto governatore della città, la prima legge fu che tutti i cittadini uscissero con i giocattoli, aveva avuto in dono una bacchetta dalla mamma per fare i miracoli, divenuto pigro ed egoista, è colpito da una tegola in testa. il deus ex machina, salvatore di tutte le favole che lo riporta in sè. Deve fuggire da un post stile è mai Neim is in seguito da se stessi concittadini che non lo riconoscono più in volo come la Befana a cavalcioni di un manico di scopa si innalza verso un indefinito altrove. Come un eroe che si rispetti anche Totò vola verso l'aria a dorso di cavallo o di uccello, in sembianza d'uccello. Ma torniamo anni addietro, alla "scacchiera davanti allo specchio" di Massimo Bontempelli il teorico del realismo magico, il fondatore della celebre rivista "900" che segna un momento importante della fortuna della figura di Lewis Carroll nel Novecento italiano. Sia "attraverso lo specchio" di Carol (1867/ 1871) che "la scacchiera" (1922) raccontano di un viaggio fantastico, di bambini dall'altra parte dello specchio, soglia deputata tra reale e fantastico, punto di congiunzione tra il mondo per dritto e mondo del rovescio. Alice e il protagonista Bontempelliano attraverso il sogno entrano nello spazio dietro lo specchio abitato da scacchi animati e parlanti. Il lieto fine assume la forma del risveglio, i due bambini compiono un viaggio formativo in un mondo parallelo,ma mentre Alice trova di là dello specchio un mondo fantasioso e vivace, il bambino Bontempelliano è chiuso per punizione nella stanza dello specchio e trova una realtà metafisica nuda e sislente in su cui si stagliano scacchi, manichini, figure tutte bloccate in una eterna fissità. Chiunque si sia visto anche una volta sola nello specchio continua a vivere in quel di là senza tempo e senza le esigenze del vivere quotidiano, e pretende di essere il mondo vero. Nella "scacchiera" c'è la scoperta del capovolgimento del quotidiano e il rovesciamento della logica così l'intero ordine logico può essere ribaltato. Ma il bambino non si accontenta di quella vita ridicola e torna nella dimensione discutibile. L'obiettivo di Bontempelli di creare un nuovo genere artistico "il realismo magico" che raccontasse la realtà come fosse sogno e il sogno come fosse realtà è raggiunto. L'importante è aver fatto vedere che ogni cosa ha due o più facce, e che l'uomo contemporaneo si avvicina ad un burattino. La favola Bontempelliana fu illustrata in bianco e nero e con penna molto leggera, e riconoscibile dal prestigioso illustratore e vignettista,STO, l'autore dell'amatissimo "signor Bonaventura" che altro non era che l'eclettico Sergio Tofano di cui sopra. Ricordiamo inoltre la figura di Calvino, in particolare per Marcovaldo, racconto di stampo illuminista e parodia. Marcovaldo nacque da una sorta di immagini mentali di origine infantile e letteraria, è capostipite del genere favolistico, sfaccettatissimo, intrapreso dallo scrittore e mai abbandonato. Marcovaldo è il protagonista di 20 favole per adulti scritte tra il 1952 e 1963, pubblicato in volume illustrato da Sto, come libro per ragazzi, con l'intento di educarli al pessimismo che è il vero senso che si può ricavare dai grandi umoristi. Ovvero di potenziare il loro senso critico!Esse racchiudono come antagonisti alla ingenuità e alla fantasia di Marcovaldo la società e i rappresentanti del potere. Il tutto racchiuso in minuscole storiette dall'atmosfera inequivocabile, parodia dei comics e dei fumetti. "Solo i bambini hanno nomi usuali " dice Calvino nella presentazione "forse perché solo loro appaiono come sono e non come figure caricaturali".Landolfi si cimenta con la favola classica e rielabora "il principe triste" in cui il viaggio diventa il fulcro della storia. Il principe infelice è vissuto in isolamento per divieti antichi e legati alla figura regale da proteggere dal mondo esterno, vuole morire se non gli si porta un sogno di vita. Parte la bella Ramì dal cuore di vetro alla volta del "paese dei sogni" lascia il castello ai confini dell'impero della Luna, scavalca montagne e divieti, sostenuta da 1000 aiutanti e trova il sogno. Anche al ritorno non mancano ostacoli, comprese le cugine invidiose che le fanno infrangere il cuore di vetro, ma alla fine Ramì consegna al principe il suo sogno fatto di amore e lo salva. Ci si aspetterebbe dunque il solito lieto fine, nozze fastose, castello e tanti figli. Le nozze ci saranno ma il principe grato regala il suo regno al nano consigliere che ha aiutato Ramì e l'ha fatta rivivere, e si fa povero pescatore. si può essere felici anche senza denaro e potere. Piu' scettico lo sguardo dello scrittore nel disegnare le vicende della "raganella d'oro" col mostro che minaccia un intero paese se non ottiene l'amore della principessa, la bella Uriana che non lo vuole sposare e fugge, l'eroe innamorato di lei che lo affronta e lo uccide.Tutto sembra volgere verso un lieto fine, il mostro non era altro che il re Miagro trasformato, la fanciulla lo sposa e l'eroe non solo deve trovarsi un'altra moglie ma non riceve neanche più la taglia promessa in cambio della testa del mostro. Diventa ricco però e si accontenta. felice? Se era innamorato di Urania come poteva essere felice con un'altra? diciamo che almeno era tranquillo e contento.Landolfi ha disegnato la favola moderna dell'egoismo e dell'ingratitudine. Ricordiamo invece Silvio D'Arzo col suo "pinguino senza frac" scritto tra il 47 e 48, è una favola autobiografica, discreta e sobria. Narra di un pinguino che non può comprare un frac e vivere con i suoi simili, un pinguino che parte ed è vergognoso e va in giro per il mondo per trovare una dimensione dignitosa ma quando si accorge di non essere solo,nè di essere l'unico sofferente, torna a casa con una consapevolezza e fiducia nuove. Viaggio di formazione dunque. Un posto a sèva a Enrico Morovich il narratore di origine fiumana, impiegato di banca, cresciuto alla grande ombra di Solaria, frequentatore di sogni e cimiterini di paese. È un mondo quello raffigurato da Morovich in cui co-abitano senza differenze vivi e morti, il libro di esordio fu:"L' osteria del torrente" uscito nel 1936 per le edizioni Solaria, tra povera gente di campagna, mendicanti, operai, zingari, si muovono, si incontrano, si raccontano, con il linguaggio umile del racconto orale e con la logica elementare della gente molto povera, episodi insignificanti che scandiscono la vita di tutti i giorni. Nel bosco e nelle campagne, tra contadini e pastori, va ad ambientare Morovich storielle al limite della leggenda, i miracoli quotidiani e i ritratti del bosco. "Miracoli quotidiani" è del 38, ed è eloquente già nel titolo, si tratta di brevissimi pezzi con un accentuato sapore di meraviglioso quotidiano. I ritratti del bosco del 39 comprende racconti più lunghi. Tutto quello che esce dalla penna di Morovich sembra possibile e plausibile, anche Arianna che gioca con il cuore di Sileno. La prosa di Morovich si fa ad intreccio più complesso nei romanzi. Prendiamo "l'abito verde" che esce nel 1942. La trama ha un che di fantastico ricca di equivoci, coincidenze, scambi di persona, passioni, Silvia, l'amica di Fedora morta, per amore del bell' ufficiale suo innamorato riesce a fingersi Fedora con vari trucchi e indossando il suo splendido abito verde. In ultimo non manca con sorpresa il lieto fine. "Il baratro" racconta in quattro lunghi capitoli di una caduta metaforica e di una discesa sottoterra nel baratro in cui sono stati gettati cadaveri scomodi, ci si interroga sull'origine del male che sottoforma di spiriti cattivi indurrebbero a cattive azioni anche le persone migliori come il bracconiere Cipriano o il Cacciatore Bruno. Morovich si muove tra favoloso e psicoanalitico anche se il risultato non riesce ad essere inquietante o surreale, il libro, scritto nel 56 esce nel 64 quando psicoanalisi e surrealismo hanno ormai raccontato già tutto! Siamo entrati con l'ultimo Morovich ormai nel dopoguerra. Nel secondo dopoguerra si afferma un processo di controcultura, gli scrittori più fantasiosi da Rodari a Malerba, da Landolfi a Calvino, tendono a stare fuori dagli schemi formali ed espressivi, ricorrono all'uso del fantastico, comico ed e del surreale in senso provocatorio. Ormai non fanno cadere la morale dall'alto ma giocano dietro le quinte, lasciano al lettore le deduzioni conclusive, non spartiscono piu' la terra in buoni e cattivi, ma fanno delle scelte di campo più vaste. il viaggio è sempre l'elemento ricorrente, serve a spostarsi da una situazione all'altra e a cambiare. La comicità e il gioco sono strumenti letterari atti a infirmare il concetto di letteratura alta, a ridisegnare il reale sono le nuove strade battute dalla favola del Novecento, dall'ironia alla farsa, dell'umorismo al paradosso, dalla caricatura alla parodia. "Lo scherzo riflette la realtà" osservava Hegel "e va preso sul serio". Come non rimandare subito il discorso a "Mozziconi", il barbone protagonista dell'omonima favola di Malerba, Mozziconi apre subito la favola con un gesto folle, per cominciare a liberarsi di strutture della "società degli elettrodomestici" in cui è nato e cresciuto. Va a vivere sulle rive del Tevere, viaggio breve e semplice spostamento. Così affida i suoi pensieri alle bottiglie lanciate nel Tevere, tante piccole mine vaganti nelle acque torbide del fiume cittadino. E discute con pesci e uccelli simbolicamente gli animali più liberi, viaggiatori senza età. Quasi magicamente e per una volta arriva il lieto fine, la città identifica il sindaco come
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