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Il tempo della Costituzione - Villone, Appunti di Diritto Costituzionale

Appunti delle lezioni (mancano solo i primi due capitoli) sul testo "Il tempo della Costituzione" (quarta edizione - 2012) di Villone

Tipologia: Appunti

2013/2014

In vendita dal 18/02/2014

vanila
vanila 🇮🇹

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Scarica Il tempo della Costituzione - Villone e più Appunti in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! CAPITOLO III. LA LUNGA VIA DELLA CRISI 1. Troppi governi: la commissione Bozzi e il totem della stabilità A partire dalla V legislatura (giugno 1968) nessuna raggiunge più la scadenza naturale dei 5 anni e il numero di governi che si susseguono è alto. Costante è la presenza della DC (con la titolarità del pdc sino al 1981) e l’esclusione del PCI (conventio ad excludendum) e del MSI. L’ instabilità viene addebitata alla regola istituzionale, piuttosto che alla fragilità della politica e a partiti che stanno perdendo la capacità di rappresentare la domanda sociale; parte così la discussione infinita sulla riforme costituzionali. Ottobre 1982 formazione di comitati di studio per fare rilevazioni delle proposta di riforma. Nessun risultato. Nel settembre 1983 si istituisce la commissione Bozzi: non è una commissione bicamerale in senso stretto, intesa come organismo unico istituito con unico atto e composto da deputati e senatori (per ottenere questo sarebbe necessaria l’istituzione con atto legislativo: atto bicamerale); nascendo da due atti monocamerali simultanei, si tratta tecnicamente di due commissioni. Intanto, nell’agosto 1983, viene nominato il I Governo Craxi, un governo pentapartito: DC, PSI, PSDI, PRI PLI. Craxi richiama la necessità delle riforme e di un periodo di stabilità assicurata dalla collaborazione tra le forze politiche della maggioranza; ma la stabilità è solo formale e non sostanziale (divergenze sulla politica estera, fiscale, …). Il governo pone la fiducia sull’art. 1 di un disegno di legge: a scrutinio palese ed appello nominale il governo ottiene la fiducia, ma subito dopo, al momento di votare il disegno di legge nel suo complesso, a scrutinio segreto, i franchi tiratori affossano il I Governo Craxi. Sebbene il governo non sia tenuto a dimettersi giuridicamente (la sconfitta è avvenuta su un’altra votazione, il voto di fiducia ha ottenuto esito positivo), Craxi trae le conseguenze politiche dell’accaduto e si dimette nel giugno 1986. 2. Dal “patto della staffetta” a un governo elettorale Si apre una crisi e per sbloccare la situazione sopravviene un accordo: il “patto della staffetta” (si apre un nuovo governo, a coalizione invariata, e presieduto dallo stesso Craxi, con l’impegno però che nel marzo 1987 lascerà la carica ad un esponente DC, probabilmente Andreotti). È costituzionalmente legittimo un simile patto? Tutto ciò che riguarda la vita di un Governo viene da decisioni e accordi di natura politica che non hanno alcun carattere giuridicamente rilevante; quindi un Governo a politicamente a tempo determinato non è di per sé lesivo della formale legalità costituzionale. Certo però contrasta con il principio che la fiducia la si da a un Governo in vista delle scelte e iniziative opportune per il paese, e della capacità di realizzarle. A dettare la permanenza in carica di un Governo dovrebbe quindi essere l’interesse del paese e non una spartizione oligarchica del potere (concetto partitocrazia). Il clima si deteriora rapidamente, nel marzo 1987 Craxi rassegna le dimissioni e Andreotti riceve l’incarico per la formazione del nuovo Governo (secondo il patto); Andreotti però non riesce a fare passi avanti e rinuncia. Dopo vari tentativi nasce in aprile il VI Governo Fanfani, un monocolore DC con l’aggiunta di tecnici, che però non ottiene la fiducia. Con il tentativo Fanfani si chiude la legislatura. Il governo Fanfani è stato un governo nominato solo per gestire le elezioni? Il presupposto quando un Governo viene nominato è che vi sia con certezza una maggioranza. Non appare costituzionalmente corretto che un Governo chieda la fiducia essendo certo di non ottenerla; in tal caso vi è la formazione di un Governo che abbia la maggioranza o, se nessuna maggioranza è possibile, lo scioglimento anticipato delle camere con il Governo dimissionario in carica per il disbrigo degli affari correnti. 3. “Franchi tiratori” e riforma del voto segreto Al momento della formazione del governo ci sono tensioni sia tra DC e socialisti che internamente alla DC (affidare l’incarico a De Mita? si teme un’eccessiva concentrazione di potere a danno del pluralismo interno). Cossiga affida l’incarico a Goria (DC), nasce così un nuovo governo pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI,PLI), ma nasce debole. A novembre i liberali (a causa della legge finanziaria) escono dalla maggioranza, i numeri non determinano di per sé la crisi ma Goria consegna le dimissioni; Cossiga respinge. Le camere confermano la fiducia, ma la situazione è precaria, soprattutto a causa della grave situazione della finanza pubblica (mancano le coperture). A gennaio il Governo è battuto, la stranezza è che viene sconfitto con il suo consenso: durante la discussione della legge di conversione di un decreto legge, la Commissione affari costituzionali si esprime negativamente sull’esistenza dei presupposti di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Cost. e paradossalmente il Governo afferma di concordare. Può un governo, dal punto di vista costituzionale, negare la sussistenza de presupposti di necessità ed urgenza di un decreto legge, e cioè di un atto normativo che ha adottato inevitabilmente assumendo che questi presupposti esistano? Si, perché la sussistenza di quei presupposti è valutazione essenzialmente politica e le situazioni possono cambiare dopo l’adozione (in realtà è solamente la via più rapida e semplice per liberarsi di un decreto legge diventato troppo ingombrante. Le alternative sarebbero lasciarlo decadere, ma così facendo il decreto produrrebbe comunque i suoi effetti per 2 mesi, oppure abrogarlo, sapendo però che l’abrogazione o è retroattiva o qualche effetto già prodotto potrebbe porre problemi). Segue una serie di votazioni contrarie al parere del Governo (a voto segreto) a cui il Governo risponde ponendo questioni di fiducia che puntualmente viene confermata. Fortissima protesta delle opposizioni. Il Governo è accusato (da Rodotà, Indip. Sinistra) di abusare del voto di fiducia per tenere in riga la maggioranza. Il PSI attacca la norma regolamentare sul voto segreto, che consente a chi vota di sottrarsi ad una chiara assunzione di responsabilità. Arrivano nel voto segreto altre due sconfitte, Goria si dimette. Cossiga, dopo un ciclo di consultazioni, rigetta le dimissioni. Crisi politica Rodotà rileva come vi sia un cambiamento del ruolo del Capo dello Stato, con il suo coinvolgimento negli aspetti politici della crisi. Il Governo Goria volge comunque al termine nel marzo 1988. Cossiga conferisce l’incarico a De Mita, ancora un pentapartito. Il programma di De Mita privilegia l’efficienza decisionale, la stabilità e la governabilità. Rodotà tra le poche voci alternative, sottolinea la tendenza ad indicare la via d’uscita in una forte concentrazione del potere nelle mani del Governo e in una riduzione del ruolo del Parlamento,riflettendo una tendenza all’oligarchia, fatta di concentrazione e verticalizzazione dei poteri. Nel frattempo Amato, ministro del Tesoro, in un’assemblea di partito, descrive la situazione finanziaria del paese come disastrosa, lo Stato è incapace di contenere la spesa pubblica e di combattere l’evasione fiscale. Tra ottobre e novembre Camera e Senato approvano una modifica al regolamento parlamentare che limita drasticamente la possibilità di ricorso al voto segreto. Su questioni che non hanno impatto economico (la materia economico-finanziaria è certamente esposto ad agguati) è costituzionalmente corretto impedire il voto segreto? Incide o no una così forte limitazione sulla effettività della rappresentanza senza vincoli di mandato ai sensi dell’art. 67 della Cost.? 4. Quanto parla un presidente? A maggio 1989 si dimette il Governo De Mita. A fine luglio nasce il VI Governo Andreotti, un pentapartito. La notte del 9 novembre 1989 cade il Muro di Berlino; Occhetto nel marzo 1990 trasforma il PCI in Partito Democratico della Sinistra. non può ritenere quella possibile maggioranza inadeguata o inidonea a formare un Governo, per un dissenso sull’indirizzo politico di cui sarebbe portatrice (inoltre, chi controfirmerebbe l’atto di scioglimento adottato contro la volontà della maggioranza e dunque dei ministri?). Infuriano le polemiche. Il PSI decide di schierarsi con Cossiga, proponendo una Repubblica Presidenziale (più vicina al modello semipresidenziale francese che a quello statunitense) mentre la DC, non potendo permettere che nasca un asse privilegiato tra Cossiga e Craxi, decide di opporvisi. Il vertice de segretari decide per le dimissioni. Andreotti si reca in Senato per comunicare le dimissioni. Il Presidente del Senato Spadolini, decide subito di chiudere la seduta, onde evitare ulteriori polemiche. Andreotti così recatosi al Quirinale, presenta ufficialmente le sue dimissioni ed impedendo così, secondo la prassi, di continuare il dibattito in Parlamento (sul governo già dimessosi). La crisi è formalmente aperta. 6. La notte della I Repubblica Ad aprile Cossiga affida l'incarico di formare il governo ad Andreotti ma non senza ingerenze. La Malfa (PRI) fa dimettere i ministri del PRI dal nuovo governo, formatosi il 12 aprile in quanto gli incarichi assegnati ai repubblicano non corrispondono a quelli concordati. Il governo così, storicamente, passa da pentapartitico a quadripartitico. (E’ curioso notare che qualcuno, quale il Reichlin del PDS, fa notare che dietro l’uscita del PRI, vi sia in realtà un certo imprenditore proprietario del gruppo Fininvest, Silvio Berlusconi, che abbia fatto pressioni per le dimissioni perché un esponente del PRI era stato autore di una particolare legge sull’emittenza). Nel suo discorso programmatico Andreotti afferma che è necessario porre una rivisitazione della Carta Costituzionale (bicameralismo, delegificazione, limite al decreto legge, art. 81, responsabilità della legge finanziaria al governo, amplificazione delle potestà legislative delle regioni nelle materie non esclusivamente riservate allo Stato), glissa invece sulla questione Cossiga. Interviene Scalfaro ce al contrario censura Cossiga e la partitocrazia; si parla di grave crisi istituzionale, di fine della prima Repubblica. Poco tempo dopo Forlani della DC auspica un ritorno dei ministri del PRI nel governo. Il 19 - 20 aprile il governo Andreotti ottiene piena fiducia alle Camere. Lo scontro si riapre subito: Cossiga si ripete sul sistema presidenziale. A maggio il PDS presenta una mozione di sfiducia: dichiara che il governo si è rifiutato di rispondere ad interpellanze presentate dal gruppo comunista del PDS relative a gravi questioni di politica, solo perché su questi era intervenuto il Capo dello Stato (la maggioranza, infatti, sotto pressioni di Cossiga, aveva fatto catenaccio, evitando di aprire dibattiti su interpellanze che riguardassero la figura del Capo dello Stato) tuttavia con la mozione, essa non può più sfuggire, ma è obbligata a rispondere necessariamente. Nel frattempo, l’11 giugno 1991, si vota sul referendum che abolendo la preferenza multipla, introduce la preferenza unica. Il sistema della preferenza multipla, previsto dalla normativa elettorale, entra in crisi innanzitutto per il fatto che fornisce una gestione partitocratica del voto (consentendo un controllo de comportamento degli elettori), ma anche perché nelle zone dove è forte la presenza mafiosa – camorristica, consente una gestione controllata dei voti (la camorra potendo suggerire un’eventuale combinazione da votare, può facilmente capire chi ad essa non si è attenuto). Nonostante Craxi distolga gli elettori dal votare (“Andate al mare non andate a votare”), l’affluenza è alta, ed il referendum viene approvato. Nel dibattito sulla fiducia interviene Occhetto (che afferma la mancanza di riforme non viene dal Parlamento ma dalle segreterie dei partiti di maggioranza), Rodotà (che dà la colpa della crisi istituzionale è del Presidente della Repubblica, che dilata i suoi poteri oltre misura, e del Governo, che coprendo le sue azioni, ha trasformato una crisi politica in una crisi istituzionale). Il 20 giugno il dibattito si conclude con la conferma della fiducia. Il 26 arriva il messaggio di Cossiga alle Camere. Il messaggio presenta, oltre la sua firma, quella del Ministro della Giustizia Martelli, proveniente dal PSI. Dal punto di vista costituzionale, l'atto di un Presidente della Repubblica può essere esclusivamente controfirmato dal Presidente del Consiglio (la mancanza della sua firma indica il suo dissenso politico?) o al limite dal Ministro delle Riforme, dunque la manovra di Cossiga appare incostituzionale. In questo messaggio, Cossiga formalmente parte da un alto riconoscimento della Costituzione, ma in realtà le presenta numerose critiche: ridefinisce la funzione di Capo dello Stato: il Capo dello Stato non può proporre soluzioni di riforma, perché altrimenti risulterebbe schierato con una determinata corrente politica, ma deve tuttavia essere garante del principio di sovranità popolare “affinché partecipi la più larga parte della comunità nazionale” e deve garantire “la conformità ai principi costituzionali e ai valori dello Stato democratico”. Sulla sovranità popolare, Cossiga poi insiste ancora affermando la necessità di un referendum popolare che legittimi e confermi il lavoro fatto dall'Assemblea Costituente sulle riforme. Orbene, dal punto di vista costituzionale, Cossiga esce ancora dai limiti imposti dal suo ruolo almeno in tre punti: in primo luogo egli non può dare una lettura minoritaria ed unilaterale della Costituzione, denigrandone liberamente gli aspetti, essendo il garante dei principi della Costituzione; secondo, il Capo dello Stato è sì garante dei principi costituzionali, ma non arbitro della sovranità popolare, la quale nell'articolo 1 (La sovranità appartiene al popolo che la esercita nella forma e nei limiti imposti dalla Costituzione) della Costituzione si dice appartenere al popolo ma nei limiti della Costituzione; infine il referendum popolare, secondo l'articolo 138, è eventuale (facoltativo) e non necessario: Cossiga trasforma il facoltativo referendum popolare in un referendum d'ufficio. Successivamente, Cossiga ha un nuovo contrasto col CSM: vengono messi, infatti, all'ordine del giorno alcune pratiche senza suo previo assenso; egli, pertanto, infuriato, decide di inviare una lettera al vicepresidente del CSM, Galloni, accompagnata da una lettera, in cui sottolinea la gravità della situazione, ai Presidenti delle Camere. In tale corrispondenza, egli invita il CSM a non tenere la seduta nella data prefissata e ad non mettere all'ordine del giorno gli argomenti in questione altrimenti non solo si preserverà la facoltà di trasmettere all'autorità giudiziaria quanto fatto, ma anche di prevenire l'illegalità tramite forze di polizia. A tali minacce, che sembra Cossiga attui, dato che al dibattito sono presenti due carabinieri non chiamati da Galloni, il CSM decide di rispondere evitando di porre all'ordine del giorno gli argomenti “incriminati”, ma facendo premettere a quelli “ammessi” una dichiarazione sui contrasti con Cossiga. Dichiarazioni che anche se fanno infuriare il Presidente della Repubblica, che segue il tutto via radio, non causano l'intervento dei Carabinieri. A questo punto il PDS si orienta verso un impeachment, il PSI si schiera invece a difesa di Cossiga. Nel gennaio 1992 Andreotti e Cossiga hanno un incontro. Al termine di questo, Cossiga dichiara di aver preso atto dal Presidente del Consiglio che l'attuale legislazione può considerarsi esaurita. Dal punto di vista costituzionale, le dichiarazioni di Cossiga risultano completamente illegittime: il Capo dello Stato non può concertare con il Presidente del Consiglio la fine della legislatura. Questa può essere decretata solo dal parere dei Presidenti delle Camere (il Capo dello Stato, infatti, può solo ratificare lo scioglimento delle Camere, mentre il Capo del Governo può parlare di dimissioni solo nel caso in cui si manifesti l'impossibilità di una nuova maggioranza a sostegno del nuovo governo). Ma Cossiga non si ferma qui: Al “Corriere della Sera” dichiara i punti del suo pensiero costituzionalistico (azione che va ancora una volta al di là del suo ruolo di garante della Costituzione), picchia su partiti e politici, dice addio alla DC e da Londra dichiara che lo scioglimento anticipato delle Camere metterà fine all'impeachment intentato contro di lui. Andreotti si presenta alle camere per certificare l’esaurimento di fondo della legislatura. Si va a votare ed il Governo pone la questione di fiducia. E' davvero singolare che il governo ponga la questione di fiducia alle Camere sullo scioglimento delle stesse Camere; come anche che si chieda alla Camera di votare per il proprio scioglimento (in questo modo la Camera si esprime su un punto che è invece oggetto del Capo dello Stato). La fiducia viene concessa largamente. Il giorno successivo le Camere vengono sciolte. Prima tuttavia delle elezioni, si ha un altro fatto singolare dal punto di vista costituzionale. Il Presidente Cossiga decide di rinviare alle Camere una legge approvata dalle Camere che facilita considerevolmente il ricorso all'obiezione di coscienza per il servizio militare. La presidente della Camera Nilde Iotti, decide di mettere all'ordine del giorno la legge: la costituzionalità della sua decisione è tuttavia oggetto di grande dibattito. Labriola del PSI, il quale nega la possibilità che le Camere possano votare, affermando che le Camere sciolte possano ocuparsi d questioni solo di carattere generale. Bassanini, a seguito di Ferrara, fa notare che l'articolo 61 della Costituzione prevede che fino a nuova elezione, le Camere sciolte possono ancora votare, anche per impedire che il Capo dello Stato si assuma prerogative legislative non sue. Il 5 marzo passano all'ordine del giorno altre due leggi rinviate dal Capo dello Stato: una sulla cessazione dell'uso dell'amianto e l'altra sulla responsabilità civile auto. La legge sull'amianto viene approvata all'unanimità. Nilde Iotti, intervenendo in questione, afferma che la legge sull'obiezione di coscienza non può essere ridiscussa perché non vi sono le condizioni politiche necessarie. Si chiude qui una tormentata legislatura, che ha scosso norme costituzionali, frantumato prassi consolidate e mutato il rapporto fra gli organi costituzionali. A scalfire un sistema già debole è anche il primo segno di quello che sarà poi una bufera: Il 17 febbraio viene arrestato Mario Chiesa, presidente socialista, mentre è sorpreso nel ricevere una tangente. 7. La caduta dell’Antico Regime Gli anni Novanta si caratterizzano per una serie di avvenimenti che hanno poi portato alla delegittimazione dei partiti esistenti, come la DC e il PCI, soprattutto in seguito all’inchiesta di “mani pulite” per cui numerosi politici sono stati costretti ad uscire dalla scena politica con pesanti accuse di corruzione. Nell’aprile 1992 viene eletto alla presidenza della Camera l’on. Scalfaro mentre viene eletto alla presidenza del Senato il sen. Spadolini. Il Parlamento, riunito in seduta comune, elegge, alla sedicesima votazione, come PdR Scalfaro (Napolitano lo sostituirà alla presidenza della Camera), in seguito alle dimissione di Cossiga; . Nel suo discorso alle Camere, egli attacca la commistione fra politica ed affari, ed auspica una commissione bicamerale per le riforme. Afferma inoltre che è necessaria una globale revisione della Carta Costituzionale. Amato riceve l’incarico di formare un nuovo Governo, in seguito alle dimissioni di Andreotti, e nel momento in cui si presenta in Parlamento per ottenere la fiducia, nel suo discorso programmatico si sofferma soprattutto sul tema delle riforme istituzionali. Amato viene subito censurato per la presenza nel suo Governo di ministri e sottosegretari inquisiti. 8. Un “governo del Presidente” e la discesa in campo di Berlusconi Nel 1993 Amato presenta le dimissioni al PdR Scalfaro suggerendo di dar vita ad un “Governo del Presidente”. Un Governo per cui il PdR sceglie il PdC senza un previo accordo con i partiti e che va in Parlamento a chiedere la fiducia senza una maggioranza precostituita. Un Governo che si regge dunque sulla fiducia del Capo dello Stato prima che su quella espressa dal Parlamento ai sensi dell’art. 94 Cost. i certo tutto ciò rappresenta una rottura con la prassi seguita fino dalla nascita della Repubblica, ma che risulta comunque fattibile. In realtà Amato propone una soluzione del genere proprio perchè anche il suo Governo, nell’ultimo periodo, era ormai sostenuto prevalentemente dal PdR piuttosto che dal Parlamento. Così il 26 aprile Scalfaro designa come PdC Ciampi e la nomina avviene solo due giorni più tardi. Tra i ministri vi sono pochi politici e molti tecnici e studiosi, anche insigni: è il “Governo del Presidente” in quanto per la prima volta vi è al Governo una persona scelta dal PdR e non dai partiti e non proviene neanche da questi ultimi. Anche sulla scelta dei ministri i partiti incidono ben poco. Un’altra rilevante novità è l’ingresso nel Governo di quattro ministri del PDS, facendo terminare in tal modo la conventio ad excludendum contro il PCI. Ma è una novità che dura per poco proprio perché, in seguito al rifiuto della Camera per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, il segretario del PDS Occhetto afferma che il PDS non può rimanere in una maggioranza che nega le autorizzazioni a procedere, e così i ministri del PDS si dimettono. Tutto ciò suscita violenti polemiche ed anche lo stesso PdR Scalfaro afferma in un’intervista rilasciata al quotidiano “La Repubblica” che dopo il rapimento e l’uccisione di Moro, la mancata autorizzazione è il giorno più grave della storia repubblicana. Ciampi si presenta poi alle Camere per ottenere la fiducia e mette subito in evidenza l’elemento di novità introdotto dal suo Governo che risulta essere del Presidente. Molti in Aula sostengono che ciò che si debba dare a questo nuovo Governo non sia la fiducia ma la convalida, o meglio la ratifica, di quanto già stabilito dal PdR. Alla fine il Governo Ciampi ottiene la Fiducia da entrambe le Camere. affidato il compito di riformare la seconda parte della Costituzione. Il centrosinistra esce dalle urne vincente soprattutto grazie ai voti decisivi di Rifondazione, così come era stata decisiva la Lega nella maggioranza di centrodestra. CAPITOLO IV. CONFLITTO E RIFORME Sezione I. I SISTEMI ELETTORALI 1. Mattarellum Nel gennaio del 1993 sono presentate da vari partiti varie mozioni di sfiducia al governo, in quanto risultano indagati numerosi ministri, i quali rientrano nell’inchiesta di “mani pulite”. Molti chiedono che il PdC Amato si dimetta anche se lui in un discorso presentato al Senato cerca di spiegare quale sia la situazione e come potervene uscire. Alla fine il Governo Amato è salvo grazie ad una maggiorana molto risicata. È in questo clima che si svolge anche il dibattito su due temi di assoluto rilievo: la legge elettorale delle Camere e quella per comuni e province. La legge elettorale vigente fino a quel momento è di tipo proporzionale e molti sostengono che sia stato proprio questo sistema elettorale la causa della frammentazione partitica e di tutti i problemi della politica italiana (multipartitismo estremo, inevitabili governi di coalizione, competizione fra i partiti delle coalizioni). Molti vedono la riforma elettorale come la madre di tutte le riforme perché capace di “ripulire” una politica ormai da troppo tempo inquinata dalla corruzione -Mani Pulite. Nella scelta del maggioritario si vede l’obiettivo di una semplificazione del sistema dei partiti, di ristabilire circuiti efficaci di responsabilità politica, la possibilità di sottoporre agli elettori la scelta di una maggioranza con il suo programma, favorendo così la formazione di governi coesi e portatori di un ‘effettiva capacità di governo. Nel 1991 è stato richiesto un referendum abrogativo di alcune norme della legge elettorale del Senato, referendum che è stato poi dichiarato inammissibile dalla Corte Cost. (sentenza n.47) la cui giurisprudenza era orientata verso l’inammissibilità di quesiti referendari volti ad abrogare norme indispensabili al funzionamento di organi costituzionali o di rilievo costituzionale: limite attinente alla intagibilità per via referendaria di organi costituzionali. (in base a questo limite già nell'87 aveva dichiarato inammisibile un referendum concernente il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura.Nel 1993 la Corte potrebbe adottare una lettura di continuità e dichiarare inammissibile il referendum riproposto per la legge elettorale del Senato. Invece, la Corte lo dichiara ammissibile con la sentenza n.32/1993 in quanto rileva che, anche se dalla normativa di risulta emergono degli inconvenienti, questi aspetti non incidono sull’operatività del sistema elettorale, né paralizzano la funzionalità dell’organo. Prende questa scelta perchè è cambiato il contesto, è infatti un momento di profonda crisi e le istituzioni sono in grave affanno.Il 18 aprile è il giorno del referendum abrogativo riguardante la legge elettorale del Senato e l’esito del referendum risulta essere positivo, introducendo un sistema maggioritario per il Senato. Il problema è quanto ci si possa distaccare dalla normativa di risulta per il Senato e come tradurne i principi sulla Camera. La normativa di risulta non è vincolante per il legislatore, il limite si trova nel ripristino formale o sostanziale della normativa abrogata. Nasce cosí il cd Mattarellum, dal nome del principale ispiratore, ossia l’On. Mattarella (DC), che introduce un sistema maggioritario uninominale di collegio a turno unico sul 75% dei seggi (475 alla Camera e 232 al Senato). Nel collegio risulta eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti validi. Il restante 25% dei seggi viene ripartito in modo diverso tra Camera e Senato. Al Senato 83 seggi vengono ripartiti proporzionalmente tra i migliori perdenti nei collegi. Alla Camera, invece, si prevedono liste di partito bloccate che vengono votate su scheda separata rispetto a quella per il collegio. Vengono ripartite fra queste liste, 155 seggi e i candidati risultano eletti secondo l’ordine di lista. In sintesi un sistema maggioritario uninominale di collegio a turno unico con correttivo proporzionale. Il Mattarellum sarà introdotto dalle leggi n. 276 e 277/19 2. L’elezione diretta dei sindaci e presidenti di provincia Corre in parallelo la discussione su un nuovo sistema elettorale per comuni e province. Già nel 1990 la legge 142 introduce modifiche nella forma di governo degli enti locali: sindaco e presidente della provincia eletti a scrutinio palese e a maggioranza assoluta, sfiducia costruttiva, .. . Ma questa innovazione si dimostra insucficiente a garantire stabilità e governabilità. Cosí si giunge all’approvazione della l.81/1993 la quale prevede l’elezione diretta di sindaci e presidenti di provincia che durano in carica 4 anni, che diventeranno poi 5, e sono rieleggibili una sola volta; elezione del candidato che ottiene la maggioranza dei voti e in mancanza di ciò, si va al ballottaggio tra i primi due; collegamento dei candidati a una o piú liste di partito; attribuzione di un premio di maggioranza (60% di seggi) alla lista il cui candidato è risultato vincente.mentre il restante 40% di seggi viene suddiviso col proporzionale tra le liste perdenti. 3. Il “Porcellum” Nel corso della XIV legislatura (2001 – 2006) affiora periodicamente il tema di una riforma elettorale. Da un lato si vorrebbe mantenere il Mattarellum, dall’altro si punta ad un sistema elettorale di tipo proporzionale di lista con premio di maggioranza, come per i consigli comunali e regionali. Il Mattarellum in realtà non ha dato cattiva prova di sé in quanto ha comunque contribuito ad un più forte radicamento territoriale della rappresentanza, attraverso il collegio, ma allo stesso tempo ha prodotto degli effetti collaterali, quale un ulteriore frammentazione del sistema politico (bipolarismo di coalizione) Ovviamente la spinta alla frammentazione del sistema politico non viene solo dal Mattarellum ma anche dal fatto che molti partiti, anche se piccoli, partecipano ad una coalizione per cercare di ottenere un posto nella maggioranza di governo, ed una volta ottenuto si distaccano dalla coalizione facendola decadere. Il centrodestra è convinto da sempre che il maggioritario di collegio favorisca soprattutto il centrosinistra, inoltre dalle regionali emerge che molte regioni sono a favore dello stesso, ed è cosí che matura l’idea di una nuova legge elettorale. Il centrodestra presenta alla Camera, il 29 settembre del 2005, un testo che rivoluziona il sistema elettorale. Scompaiono i collegi, si sopprime il maggioritario, si introduce un proporzionale con premio di maggioranza alla lista o coalizione vincente, su base nazionale per la Camera e su base regionale per il Senato. Non è previsto il voto di preferenza e quindi le liste sono bloccate. Il csx accusa la maggioranza di voler cambiare il sistema elettorale in prossimità del voto per evitare una sicura sconfitta. Il cdx respinge le accuse e afferma chd bisogna cambiare le regole perchè la governabilità non è garantita. Si va al voto; l’opposizione non partecipa e alla fine la Camera approva. Lo stesso avviene in Senato senza che quest’ultimo apporti modifiche al testo. È la legge 270/2005 che sarà poi nota come “Porcellum”, dalla qualificazione di “porcata” che uno dei padri della stessa legge, il sen. Calderoli, pubblicamente ne dà. È certamente una legge che spezza ogni legame tra gli elettori e gli eletti; le coalizioni si presentano alle elezioni con una propria lista di candidati (i parlamentari sono romai sostanzialmente nominati, non piú eletti; è la posizione nella lista a determinare l elezoone o l'esclusoone del candidato) e con il programma politico che intendono perseguire durante il loro mandato, indicando anche il nome di quello che poi sarà il PdC . É chiaro che il ruolo del Capo dello Stato è puramente notarile e di mera presa d'atto del risultato elettorale. Si consolida, in tal modo, la personalizzazione della politica e la democrazia di mandato, in quanto l’insieme capo, maggioranza e programma ricevono l’investitura popolare. È sotteso l'assunto che qualunque rottura di questo insieme debba condurre a scioglimento e nuove elezioni. Il sistema si chiude con la previsione che alla lista o coalizione vincente, con qualunque percentuale di voti, siano assicurati almeno 340 seggi alla Camera e il 55% dei seggi per il Senato in ciascuna regione. Porcellum, invece, non prevede alcuna soglia minima di voti da raggiungere per ottenere il premio di maggioranza. La campagna elettorale svoltasi in attesa delle elezioni che avverranno nell’aprile del 2006, è dura e vede contendersi Prodi contro Berlusconi il quale scaglia insulti contro gli elettori che voteranno dall’altra parte. Nonostante la modifica apportata alla legge elettorale, Berlusconi perde e vince, invece, il centrosinistra. Berlusconi non ammette la sconfitta e lancia accuse di brogli elettorali. Si insediano le nuove Camere e si procede all’elezione dei Presidenti, mentre si colloca sullo sfondo l’elezione vicinissima del Capo dello Stato. Viene eletto Bertinotti alla Camera e Marini al Senato. 4. Il Vassallum: dal bipolarismo al bipartitismo Il Porcellum è sommerso subito da critiche e il confronto sulla riforma del sistema elettorale parte già nel marzo 2007. Sono due le ipotesi sul tavolo della discussione: un sistema ispirato al modello tedesco e un sistema ispirato al modello spagnolo. Il primo si articola per metà sul voto di collegio uninominale maggioritario a turno unico, e per l ‘altra metà sul voto proporzionale di liste bloccate; la soglia di sbarramento è fissata al 5%. Questo modello è considerato un utile correzione al Mattarellum perché la soglia di sbarramento pone un freno alla frammentazione. Mantiene una moderata spinta verso il bipolarismo. Il secondo, Vassallum, è un sistema misto di sistemi collegiali maggioritari e voto proporzionale in circoscrizioni di piccola dimensione. Favorisce quindi i partiti più grandi e quelli medi territorialmente concentrati e penalizza i partiti piccoli. Pur non essendo formalmente prevista una soglia di sbarramento l’effetto concreto è quello di uno sbarramento più alto che nel sistema tedesco. L’esito è quindi una forte spinta verso il bipartitismo, piuttosto che nel bipolarismo di coalizione. Sulla discussione incombe il giudizio di ammissibilità della Corte cost. sul referendum nel frattempo proposto verso la legge 270. Se infatti i referendum fossero ammessi ogni intervento sulla legislazione elettorale di risulta diventerebbe difficile; se fossero inammissibili si guadagnerebbe tempo. Molteplici sono gli argomenti che potrebbero sostenere una dichiarazione di inammissibilità: il referendum è troppo manipolativo, determina infatti un’evoluzione forzata ed ex lege verso un impianto bipartitico senza lasciare spazio al libero gioco delle forze politiche; i quesiti referendari non rispondono ai criteri di chiarezza, omogeneità e univocità; togliendo il richiamo alla coalizione il premio sarà attribuito alla lista riceve anche una % bassa di voti, accentuando lo scompenso tra governabilità e rappresentanza. Con sentenza 15, 16 e 17 del 2008 la Corte dichiara invece i referendum ammissibili (ribadendo che il giudizio di ammissibilità non è sede appropriata per valutare eventuali profili di illegittimità della normativa di risulta). Il 21 giugno 2009 si vota ma non si raggiunge il quorum. è presunta, ed è possibile all’assemblea elettiva sfiduciare il primo ministro, ma solo al prezzo del contestuale scioglimento della stessa assemblea. La Commissione De Mita-Iotti e quella del Comitato Speroni sono presentate lo stesso anno, ma la distanza nel merito è grande. Nella prima l’architrave del modello è ancora la rappresentanza politica. Nella seconda è invece l’investitura popolare del leader, titolare del potere esecutivo. Con la vittoria di Berlusconi nel 1994 la cultura politico-istituzionale della destra prende il sopravvento. La nuova cultura incontra subito il suo primo test. Il sistema elettorale maggioritario di collegio a turno unico può favorire la formazione di maggioranze, ma certo non favorisce la nascita di coalizioni coese. Il sistema concede un swing vote – l’ultimo voto decisivo per la vittoria della coalizione – alle piccole formazioni politiche. Si favorisce così la frammentazione del sistema politico con essa l’occasione di “ribaltoni”. Tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995 il tema viene in evidenza con la crisi del I Governo Berlusconi e l’aperture del Presidente Scalfaro al ribaltone. Per Berlusconi il tradimento degli elettori e della volontà popolare consumato con la formazione di un governo non espresso dal voto è una ferita insanabile. Il tema del consolidamento del capo dell’esecutivo contro ogni ipotesi di cambio di maggioranza e/o di governo acquista così un’assoluta centralità. Non a tutti è chiaro in quel momento il colpo che una simile impostazione inevitabilmente arreca al ruolo e alla rappresentatività di un’assemblea elettiva ma nei fatti il dibattito dopo il 1994 segua le tracce del comitato Speroni piuttosto che quelle lasciate fino alla Bicamerale De Mita-Iotti. 2. La bicamerale D’Alema [Le nuove Camere si insediano il 9 maggio 1996 e si parte subito con l’elezione dei Presidenti: Mancino al Senato, Violante alla Camera. Ora bisogna designare il PdC, compito che spetta al PdR anche se in realtà il nuovo sistema elettorale prevede che i partiti si presentino in coalizioni, nel cui programma viene indicato anche il nome del leader che, in caso di vittoria, diverrà il PdC. Quindi l’ambito di discrezionalità del Capo dello Stato nel conferimento dell’incarico si azzera del tutto. Così dopo un po’ viene subito indicato Prodi come nuovo PdC il quale presenta subito la lista dei ministri che soltanto un giorno dopo vengono nominati. Nel suo discorso programmatico, Prodi richiama il concetto di federalismo, anche se il suo in realtà sembra più un regionalismo rafforzato; menziona riforme a Costituzione invariata, attraverso ampie deleghe di funzioni amministrative a regioni ed enti locali, sulla forma di governo richiama l’attribuzione al PdC della nomina e revoca dei ministri. Le opposizioni attaccano ribadendo le proprie parole d’ordine: federalismo vero, semipresidenzialismo e assemblea costituente. Inoltre anche Prodi condivide il pensiero berlusconiano secondo cui la Presidenza del Consiglio è sorretta dal voto popolare di cui bisogna tenere sempre conto. Verso la fine di maggio il governo Prodi ottiene la fiducia e subito riprende i lavori per mettere in atto la tanto citata commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Dopo violenti discussioni avutesi alla Camera, tra maggioranza e opposizione, si giunge ad un compromesso che permette di avviare i lavori per l’istituzione di una commissione bicamerale. Viene subito presentato al Senato un disegno di legge costituzionale, istitutivo della commissione, che prevede: la commissione è composta da 35 senatori e 35 deputati ed elabora progetti di revisione della parte II della Costituzione in materia di forma di Stato, forma di governo, bicameralismo e sistema delle garanzie, i presidenti assegnano alla commissione le varie proposte di legge costituzionale presentate dai vari partiti, la quale li esaminerà in sede referente; non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli. Entro il 30 giugno 1997 la commissione trasmette alle Camere un progetto di legge di revisione della II parte della Cost., ovvero più progetti di legge ciascuno dei quali riferito ad una o più delle materie indicate. Anche in Assemblea non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive, di non passaggio agli articoli e di rinvio in commissione. Il progetto o i progetti di legge cost. sono adottati da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e nella seconda deliberazione è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. La disciplina approvata è sottoposta ad un unico referendum popolare entro tre mesi dalla pubblicazione. La legge è promulgata soltanto se abbia partecipato al referendum la maggioranza degli aventi diritto e sia stata approvata dalla maggioranza dei voti validi. Emergono nel dibattito su tale disegno di legge, timori e dissensi e si censura soprattutto lo stravolgimento dell’art. 138 Cost. Infatti, tale disegno di legge, introduce una procedura di revisione speciale che però dovrà limitarsi al solo caso in esame. Tale procedura prevede che i quattro elementi essenziali (doppia delibera; intervallo di tre mesi tra le due delibere; maggioranza assoluta o qualificata; referendum eventuale e per lo più oppositivo), previsti dall’art. 138 Cost., considerati irrivedibili, rimangano intatti, mentre tutto il resto può essere modificato. Le critiche maggiori si rivolgono soprattutto al referendum, previsto in tale ddl, in quanto unico, necessario e confermativo. Si stravolge in tal modo anche la giurisprudenza della Corte in materia di referendum abrogativo, estensibile anche a referendum diversi da quello previsto dall’art.75 Cost., per la parte in cui prescrive la chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, cosa che invece il ddl non prevede, esprimendo l’intenzione di voler unire in un unico quesito una molteplicità di materie eterogenee. Alla fine però si va avanti anche perché l’alternativa sarebbe l’Assemblea Costituente che costituirebbe una rottura ben più grave con l’art. 138 Cost., in quanto un potere costituente vi è già stato e non è possibile introdurvene un altro. Si procede alla nomina del Presidente della commissione che risulta essere D’Alema. Entrambe le Camere in seconda deliberazione raggiungono il quorum previsto dall’art.138 Cost. senza la necessità di dover dunque ricorrere al referendum. Alla fine le Camere approvano il ddl che diviene la legge costituzionale 1/1997, istitutiva della commissione bicamerale D’Alema. Essa , come abbiamo già detto, si articola in quattro comitati: forma di Stato, forma di Governo, bicameralismo e sistema della garanzie. Nelle proposte che vengono presentate in commissione plenaria risulta volere introdurre una forma di Stato federalista, accrescendo il peso politico e istituzionale e le funzioni di regioni ed enti locali; si vuole un Parlamento molto più agile, riducendo il numero dei parlamentari e superando il bicameralismo paritario. La questione diventa più complessa per la forma di governo in quanto da un lato si opta per un modello di semipresidenzialismo, e dall’altro si opta per un premierato assoluto. Sembra quasi evidente una totale preferenza per il premierato assoluto o forte, quando poi alla fine viene scelto il semipresidenzialismo ed è proprio il voto della Lega, fino ad allora estranea ai lavori della bicamerale, a fare la differenza. Si pensa che lo abbia fatto non per un reale interesse al semipresidenzialismo ma soltanto per ricordare che è lei quella in grado di far cambiare l’esito di una qualunque decisione. I lavori continuano e ciò che ne risulta vede la preferenza per un semipresidenzialismo, come forma di governo; una riduzione dei parlamentari; un bicameralismo differenziato; l’abolizione delle province; una radicale semplificazione nel rapporto tra stato e regioni con eliminazione degli ambiti di potestà concorrente. Questo progetto, che aveva messo d’accordo maggioranza e opposizione, inizia a vacillare, in quanto il centrodestra inizia a ritenere che quanto previsto dallo stesso progetto non sia di suo gradimento. Così la bicamerale D’Alema muore il 27 maggio 1998.] È la conferma che nell’arco di due soli anni dalla discesa in campo di Berlusconi, nel dibattito sulle riforme sopravvivono essenzialmente due modelli: il premierato forte e il semipresidenzialismo. Per entrambi, il ruolo centrale è assegnato al leader collegato a una maggioranza. Per entrambi, la rappresentanza politica è un valore solo residuale. La cultura politico-istituzionale del centrodestra è diventata dominante, ed è accettata anche da larga parte del centrosinistra. Nel modello premierato emerge il sostanziale azzeramento del ruolo del Capo dello Stato, e la fortissima riduzione di quello del Parlamento. Scelta degli elettori e scioglimento in capo al Primo ministro sono i due pilastri fondamentali e simmetrici su cui si assesta l’architettura istituzionale. In entrambi i modelli, il ruolo dell’assemblea elettiva si limita all’espressione della sfiducia per il governo in carica, nel caso del premierato solo nella forma di quella costruttiva. E comunque sotto la minaccia di uno scioglimento anticipato. La Commissione sceglie come testo base il semipresidenzialismo: cancellazione del potere del Capo dello Stato di presiedere il Consiglio dei ministri. Questo distacca il Presidente della Repubblica dalle funzioni di governo. Rimane invece la prescrizione per cui proceda alla nomina del Primo ministro “tenendo conto” dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati. Prescrizione ovvia per il primo governo formato dopo le elezioni, che diversamente non avrebbe maggioranza. Assai meno ovvia per un governo formato in corso di legislatura, e da leggere in tal caso in funzione anti-ribaltone. Rimangono anche la fiducia iniziale presunta, e il primo ministro attore dello scioglimento anticipato con le proprie dimissioni (sia pure senza obbligo per il Capo dello Stato di disporle). È questo l’impianto che Berlusconi sceglie di colpire quando disconosce il risultato dei lavori della Bicamerale, pur approvato dalla sua parte politica in Commissione. È certo che i motivi reali dell’attacco di Berlusconi al testo della Bicamerale fossero anche altri, e in particolare la giustizia. Ma appare comunque evidente la filosofia di fondo. Il capo dell’esecutivo deve avere – e solo lui – una legittimazione popolare, mentre gli unici poteri che contano davvero sono quelli di governo. La figura istituzionale che non ne dispone è debole e incerta per definizione, e chi li ha deve necessariamente godere di un consenso popolare espresso sulla persona. Se anche vi fosse un Capo dello Stato elettivo, il Primo ministro comunque dovrebbe avere una legittimazione popolare, e il conflitto sarebbe dunque inevitabile. Ed è assolutamente chiaro come non vi sia alcuno spazio per riconoscere un ruolo incisivo per assemblee elettive fondate sulla rappresentanza politica, e per sistemi sofisticati di checks and balances. Una teorizzazione scarna ma compiuta dell’uomo solo al comando. 3. L’AS 2544, la “bozza Amato”, la “bozza VIolante” I dibattiti e gli argomenti svolti in Bicamerale sono esattamente ripetuti nella discussione dell’AS 2544, disegno di grande riforma approvato dalla maggioranza di governo nel 2005, e poi rigettato nel voto referendario: la nomina del primo ministro secondo il risultato elettorale e lo scioglimento anticipato nella piena disponibilità dello stesso primo ministro sono infatti i principali pilastri del modello, un primo ministro “assoluto”. La stabilità e la governabilità per la durata del mandato si cercano attraverso la riduzione o l’azzeramento del ruolo del Capo dello Stato, da un lato, dell’assemblea elettiva dall’altro. Questa deve essere popolata da una mandria di buoi, debitori della propria elezione al capo, e resi comunque obbedienti dalla minaccia di una interruzione anticipata del proprio mandato. In ultima analisi è la libertà del singolo parlamentare che viene conculcata, dal momento che l’assemblea vive appunto dell’esercizio collettivo di quella libertà. È il divieto di mandato imperativo che viene nel mirino (vengono qualificati come “traditori” alcune decine di deputati e senatori che abbandonano il PDL, per aver violato il mandato che si assume individualmente conferito a ciascuno di loro di sostenere il governo di centrodestra). In tale contesto a poco vale la c. d. “Bozza Amato” (csx), che per la forma di governo adotta in larga misura posizioni non lontane da quelle del centrodestra. Si respinge infatti lo scioglimento anticipato automatico in caso di sfiducia o rimesso alla sola volontà del primo ministro, ma si accetta il rifiuto di qualsiasi ribaltone e una sfiducia costruttiva che comprenda necessariamente la maggioranza iniziale. Dunque, maggioranze e coalizioni ingessate e immodificabili. Le coordinate fondamentali dei due schieramenti non sono poi tanto lontane. Comunque, la “Bozza” non fa breccia nei lavori parlamentari, che proseguono sulla base delle sole posizioni espresse dal centrodestra. Quando si approva definitivamente l’AS 2544 la maggioranza parlamentare è ormai solo numerica e in evidente crisi di legittimazione. Sarà il popolo italiano a rigettare con un voto netto e inequivoco la riforma. Elementi di continuità si riscontrano anche nella c. d. “Bozza Violante”, approvata dalla Commissione affari costituzionale della Camera dei deputati nella XV legislatura. Il cambio di maggioranza non capovolge la filosofia di fondo della innovazione che si propone, che rimane nella chiave di un premier “forte”: fiducia al solo primo ministro, cui spetta la proposta di nominare e revocare i ministri; designazione del premier direttamente nel voto popolare per la durata del mandato; nomina del governo, che deve essere fatta dal Capo dello Stato “valutati i risultati elettorali”. È chiaro che di fronte a una formula siffatta diviene difficile ipotizzare un cambio del premier in corso di legislatura, essendo la persona del primo ministro comunque un elemento rilevante nel determinare i “risultati elettorali” (ancor più grazie al Porcellum che prevede l’indicazione del candidato premier e lo consolida nei numeri parlamentari con un premio di maggioranza). Visto anche che manca una esplicita previsione di sfiducia costruttiva (intesa come abilitazione alla scelta di una persona diversa per la carica di primo ministro). evidenza è scoraggiare modifiche che potrebbero portare a un cambiamento della maggioranza da quel voto determinata. Si conferma quindi anche per questa via che un malinteso rafforzamento in chiave di stabilità e di governabilità passa attraverso una compressione del confronto parlamentare e fatalmente della capacità del Parlamento di mantenersi aderente non tanto al momento storicamente determinato del voto dal quale è nato, ma ai concreti equilibri politici di volta in volta esistenti nel paese. Qual è il cittadino da rappresentare? Il cittadino che ha votato anni prima o quello che manifesta oggi le sue domande e le sue esigenze? Una corretta concezione della rappresentanza politica richiede che sia appunto il libero esercizio del mandato parlamentare a determinare la scelta. Invero, emerge un corposo dubbio sulla compatibilità con l’art. 67. Il divieto di mandato imperativo, come impedisce all’elettore o al partito di prescrivere all’eletto comportamenti determinati, così contrasta l’imposizione di limiti giuridici al libero esercizio delle facoltà inerenti la carica rappresentativa. Se non è consentito imporre al parlamentare o fargli pressione affinché esprima il voto in un senso o nell’altro, perché sarebbe concettualmente diverso il caso quanto all’appartenenza a questo o quel gruppo? Conclusivamente, si può anche dubitare dell’effettività ultima di siffatte proposte. Facile sarebbe infatti evadere la prescrizione tenendo nel gruppo comportamenti difformi rispetto a quelli decisi dalla maggioranza, magari dando vita a un’aggregazione di minoranza interna. La disciplina di gruppo o di partito rimane difficilmente azionabile in un contesto di partiti liquidi o ultraleggeri quali sono oggi. 7. Il governo debole tra miraggio e realtà: L’Europa, il mercato, il Titolo V È proprio vero le ragioni di tale debolezza del Governo si trovano nella forma di governo scritta in Costituzione, ed in specie in un rapporto con l’istituzione Parlamento che va necessariamente cambiato? Oggi l’indirizzo politico – inteso come il complesso delle scelte emananti dal continuum Parlamento- governo che disciplinano e orientano la vita del paese - ha subito un dimagrimento drastico, quantitativo e qualitativo. In tre direzioni, diverse ma sinergiche. EUROPA L’esperienza europea segna una drastica sottrazione al decisore politico nazionale di scelte anche rilevantissime sul destino dei singoli paesi, nel momento in cui la stessa Europa è ancora sostanzialmente una sommatoria di Stati nazionali. La regola europea è pervasiva, nel nome dell’uniformità necessaria alla creazione e alla difesa di un mercato unico (basti guardare alle c. d. leggi comunitarie, spesso adottate sotto la minaccia di incombenti procedure di infrazione). Euro e Banca centrale europea hanno tolto ai singoli Stati il governo della moneta, escludendo in specie il ricorso alla svalutazione competitiva come strumento per definire il rapporto di scambio tra l’economia nazionale e quella di altri paesi. Siamo persino giunti, al di fuori di ogni previsione di trattato, a innovare la Costituzione sotto dettatura europea. MERCATO Da almeno vent’anni il pensiero unico dei governanti o aspiranti tali è ridurre la presenza dello Stato nell’economia. Liberalizzazioni e/o privatizzazioni sono parole d’ordine di tutti gli indirizzi di governo; ha prevalso la convinzione che aprire al mercato e alla concorrenza chiudendo l‘epoca dei monopoli pubblici e dei prezzi amministrati avrebbe consentito servizi di migliore qualità a costi più bassi per gli utenti. È bene rilevare che ogni liberalizzazione o privatizzazione ridefinisce riduttivamente l’indirizzo politico di governo. Parallelamente si riduce la capacità del Parlamento di rappresentare con efficacia una domanda sociale che sorga in proposito. Si sottraggono in tutto o in parte al decisore politico materie spesso rilevantissime per la civile convivenza. TITOLO V Con la riforma del 2001Si è dato corpo ad un ente territoriale dotato per la prima volta nella storia del paese di autonomia politica, nonché degli strumenti per renderla effettiva. sottolineare che l’effetto ultimo del Titolo V è una forte riduzione degli ambiti disponibili per il decisore politico nazionale. Oggi ad esempio una vera politica sanitaria nazionale non è possibile, come non è possibile una vera politica per la casa. In conclusione, il governo è debole perché gli sono precluse, per ragioni diverse, molte delle scelte che riguardano la vita dei cittadini. E a tal proposito può fare ben poco: il rapporto con l’Europa non può essere ridefinito con decisione unilaterale; l’ipotesi di riportare nell’ambito delle scelte di indirizzo politico ambiti ad esso sottratti con le liberalizzazioni/privatizzazioni non si mostra praticabile; e non è realistico ipotizzare una radicale revisione del Titolo V. E se lo Stato è leggero, amputato di elementi essenziali, non si può avere un Governo pesante. Ma se questo è vero, non si rafforza l’esecutivo intervenendo sulla forma di governo. Toccare il rapporto tra gli organi costituzionali e in specie il circuito Parlamento-governo non può cambiare alcunché se gli elementi di debolezza sono determinati altrove, e non sono suscettibili di correzione. SEZIONE III. UNA PROPOSTA DI “RIFORMA EPOCALE” DELLA GIUSTIZIA 1. La relazione dell’AC 4275 Dopo i durissimi scontri politici che accompagnano le leggi ad personam presentate dal centrodestra in materia di giustizia, si arriva alla cd “riforma epocale” che si traduce nell’AC 4275, presentato il 7 aprile 2011. Per giustificare tale riforma viene proposto quasi in ideale continuità con la Costituzione vigente, o, più precisamente, con il dibattito sulla giustizia in Assemblea Costituente. si suggerisce che le riforme proposte nell’AC 4275 sono un’evoluzione naturale di posizioni già allora emerse nella Costituente, e sconfitte, ma oggi rese necessarie e vincenti dal cambiamento nel frattempo intervenuto. Bisogna guardare più da vicino gli elementi che vengono assunti a sostegno dell’argomentare per verificarne l’infondatezza. Si segnala come fosse da tutti condivisa l’esigenza di una magistratura pienamente autonoma e indipendente, ma che non diventasse casta autoreferenziale (ricordando le posizioni di Calamandrei, Leone, Patricolo e Togliatti). Su questa premessa di fondo si innestano poi gli elementi di cambiamento. Essenzialmente, tre: il primo, il pieno affermarsi del carattere rigido della Carta, e il ruolo “oltre ogni previsione” della Corte costituzionale come organo risolutore dei conflitti tra poteri dello Stato; il secondo, il passaggio a un sistema competitivo e bipolare per cui le minoranze che ambiscano alla guida del Governo sono portate a esercitare un rigido controllo dell’altrui operato. In tale contesto, va inquadrato allora il ruolo dei membri «laici» nel CSM, che operano come una componente capace di stabilire con la componente «togata» relazioni variabili che possono modificare gli equilibri in astratto ipotizzabili; il terzo, si trova nei princìpi che regolano il giusto processo (introdotti con la modifica dell’articolo 111), è infatti ormai indifferibile la separazione in senso proprio tra l’ordine dei giudici e l’ufficio del pubblico ministero da cui dipende l’effettiva terzietà dell’organo giudicante e la parità tra accusa e difesa e dunque l’imparzialità e l’indipendenza dei giudici, il giusto processo al cittadino. Altri elementi minori sono: la modifica della denominazione del Titolo IV, da “La Magistratura” a “La Giustizia”; la posizione del pubblico ministero e il rapporto con l’esecutivo; la composizione degli organi di autogoverno. Su questi fondamenti si costruisce la proposta. Innanzitutto la separazione di carriera dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero: i giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge, mentre i magistrati del pubblico ministero assumono uno status costituzionale proprio, nel quale l’autonomia e l’indipendenza sono prerogative dell’ufficio requirente e non del singolo magistrato (sono, dunque, funzionali all’efficienza, alla responsabilità e all’eguaglianza nell’esercizio dell’azione penale). Non manca, anche qui, il richiamo al dibattito in Assemblea costituente, il cui esito troviamo negli artt. 101 e 107 della Costituzione vigente: mentre i giudici sono “soggetti soltanto alla legge” (art. 101), il pubblico ministero ha le “garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (art. 107). Il rinvio all’ordinamento giudiziario per il pm si giustificava per la consapevolezza di una necessaria preventiva chiarificazione sulle funzioni e sul ruolo del pubblico ministero, che aveva nella legislazione allora vigente una natura ibrida (non è certo se faccia parte del potere esecutivo o di quello giudiziario). Ma c’è una “seconda discontinuità” introdotta dalla riforma del titolo IV: una nuova configurazione del pubblico ministero come «ufficio» che consente di superare definitivamente quelle concezioni e prassi soggettivistiche che hanno dato luogo a una frammentazione della funzione requirente, nella quale il singolo magistrato, attraverso la libera ricerca della notizia di reato e la diretta disponibilità della polizia giudiziaria, può disporre degli strumenti investigativi (compresi quelli più invasivi, complessi e costosi), senza doverne commisurare l’utilizzo a criteri predeterminati di esercizio dell’azione penale e senza tener anche conto delle risorse, necessariamente limitate, dell’organizzazione giudiziaria. Questo principio va letto insieme all’art. 13, che sostituisce l‘art. 112 vigente della Costituzione con questa formulazione: “L’ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge”. Con tale modifica si stabilisce che, ferma l’obbligatorietà dell’azione penale, essa è regolata da criteri stabiliti dalla legge. Particolari esigenze storiche, sociali o economiche, infatti, possono indurre il legislatore a fissare criteri in forza dei quali, ad esempio, debba esser data prioritaria trattazione ad indagini concernenti determinati reati; fermo restando l’obbligo, esaurite queste, di curare anche le indagini relative alle altre fattispecie penalmente rilevanti. 2. Per una lettura corretta degli atti della Costituente Anzitutto, le scelte della Costituente tradotte nel testo del 1948 vanno viste e capite nelle condizioni di quel momento storico. In sostanza, in Assemblea costituente si delineò una divisione fra una sinistra (Togliatti) che diffida di una lettura ampia dell’autogoverno della magistratura, e una destra (Leone) che invece la sostiene (l’esatto contrario di quel che oggi vediamo). In termini generali, a sinistra si teme una giustizia conservatrice. Autonomia e indipendenza non devono trasformare la magistratura in un potere che possa contrapporsi al popolo sovrano e alle istituzioni che ne esprimono la volontà, traducendola in leggi e indirizzi di governo (per questo si vuole una garanzia costituzionale della giuria popolare almeno per i reati di stampa e i delitti politici; si vuole il Ministro di grazia e giustizia come vicepresidente del CSM; si obietta alla prevalenza dei togati nella composizione dell’organo di autogoverno; si nega che il pm possa avere le stesse garanzie del giudice, e che possa sottrarsi a ogni ingerenza del potere esecutivo). Dunque, cresce a sinistra la diffidenza verso una magistratura castale e corporativa, impermeabile ai tempi nuovi. Parallelamente, nella parte moderata dell’Assemblea si consolida la percezione che anche nella magistratura si può trovare l’argine a una politica volta a innovazioni troppo radicali. 3. Segue. In specie, la pubblica accusa e l’azione penale Una menzione specifica merita il dibattito nella Costituente sulla posizione del pubblico ministero. I punti nodali del confronto sono due, uno controverso e l’altro ampiamente condiviso: il rapporto con l’esecutivo, e l’obbligatorietà dell’azione penale. Per quanto riguarda il primo, due tesi si fronteggiano sin dall’avvio del dibattito. Leone avanza la proposta che il pubblico ministero sia organo del potere esecutivo, e in rapporto di subordinazione rispetto al ministro della giustizia (lo stesso Leone comunque ammette che la sua tesi presenta il pericolo che il potere esecutivo possa intervenire in qualche caso per non far promuovere l'azione penale). Calamandrei propone invece un SEZIONE IV. L’ART. 81: UNA RIFORMA DETTATA DALL’EUROPA? 1. La riforma dell’art. 81 Cost. come scelta di governo Entra in vigore l’8 maggio 2012 la legge costituzionale 1/2012 che introduce in Cost. il principio di pareggio di bilancio, legato al divieto di indebitamento salvo che in casi eccezionali. È una riforma per il post- emergenza (si applicherà a decorrere dall’anno 2014). Si alza qualche critica in quanto sembra trattarsi di una riforma etero diretta dall’Europa (Patto Euro plus). Ma non è del tutto così, infatti la costituzionalizzazione del pareggio del bilancio non è stata imposta dall’Europa che al contrario ha lasciato libertà agli Stati di scegliere lo strumento da utilizzare per soddisfare la richiesta di stabilità. E allora? È stata l’Italia che il 13 aprile 2011 con il PNR 2011 assume la costituzionalizzazione del pareggio come un obiettivo da perseguire, è quindi una scelta di indirizzo politico (IV Governo Berlusconi). L’esecutivo presenta quindi il 15 settembre l’AC 4620, presenta una proposta anche il PD che utilizza la formula stabilità del bilancio; la discussione si avvia e il 3 novembre la maggioranza sceglie come testo base la proposta del Governo che verrà conclusivamente approvato dalle Commissioni riunite il 10 novembre (quando la crisi del Governo è già virtualmente aperta; infatti se Berlusconi presenta le dimissioni il 12, già l’8 si era impegnato con il Capo dello Stato a dimettersi; il 16 novembre Monti è nominato PdC). Il nuovo Governo va in Aula a fine novembre e sostanzialmente approva un testo molto vicino all’originaria proposta di Berlusconi; il 15 dicembre, dopo un dibattito ancora più povero di quello svolto alla Camera, il Senato approva senza modifiche. Da questo momento il testo non è più modificabile (nella 2° deliberazione ex art. 138 non possono essere presentati emendamenti). O si approva o si respinge. Nel frattempo l’Europa approva il Fiscal compact, che afferma quel che conta è la stabilità e la durevolezza nel tempo delle scelte non il modo con il quale si assumono, escludendo quindi l’obbligatorietà della costituzionalizzazione (1/2 marzo 2012). Si potrebbe quindi ancora fare una scelta diversa e invece la Camera il 6 marzo e poi il Senato il 17 aprile approva la legge costituzionale. 2. L’equità tra generazioni La riforma costituzionale è di per sé affermazione di un valore che tende a modificare o integrare il catalogo dei valori preesistenti e costituzionalmente protetti. In questo caso nel dibattito parlamentare emerge un nuovo valore: equità tra generazioni. Se un Paese vive oggi al di sopra dei propri mezzi contraendo debiti qualcuno domani pagherà i conti. Per evitare ciò lo strumento più immediato e ovvio di intervento è il divieto di indebitamento pubblico. La domanda a questo punto è se l’equità intergenerazionale protetta in Costituzione (anche se non esplicitata nella legge costituzionale 1/2012) sia correttamente tradotta nella formulazione dell’art. 81 o se questo non introduca elementi di contraddizione. Assumendo che esista un principio di equità intergenerazionale costituzionalmente rilevante, il debito pubblico finalizzato a spese da cui traggono beneficio anche le generazioni future è accettabile e compatibile con quel principio. Parallelamente non rispetta il principio di equità intergenerazionale il divieto di indebitamento e e l’obbligo di pareggio di bilancio che rendano impossibili spese a vantaggio delle generazioni future. Tale principio deve essere correttamente interpretato come elemento di coesione sociale, ed in specie intergenerazionale. E ci dice che in nessun caso l’equità intergenerazionale potrebbe essere letta come argomento che giustifichi la cancellazione dei diritti dei padri in vista di un supposto vantaggio per i figli. Qui vediamo il punto debole del nuovo art. 81 e la possibile contraddizione con la Costituzione: ci dice che i diritti sociali sono effettivamente garantiti solo nella misura in cui siano disponibili risorse necessarie a soddisfarli. Prima il pareggio poi i diritti. Si capovolge l’ordine delle priorità e si nega il principio personalistico posto a base dell’architettura costituzionale. 3. Una impari cessione di sovranità L’art. 11 della Cost. “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”. Dall’analisi effettuata risulta come nel caso della costituzionalizzazione del pareggio non vi è stata nessuna cessione, essendo stata l’Italia a sceglierla; questo non si può dire probabilmente per il Fiscal compact dove invece si vede una cessione di sovranità, per di più non paritaria (pone limiti diversi all’indebitamento). Esiste quindi un concreto dubbio di incompatibilità del Fiscal compact con l’art. 11 quanto al profilo di una cessione paritaria. Emerge anche un ulteriore dubbio: la cessione di sovranità può avere qualunque soggetto o esistono limiti? La risposta è negativa, la cessione di sovranità da parte dello Stato incontra tutti i limiti che la Costituzione impone allo Stato medesimo. Una sovranità insuscettibile di cessione possiamo trovarla già in quei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e diritti inviolabili della persona umana che la Corte costituzionale ha individuato come limiti all’ingresso della norma comunitaria nel diritto interno SEZIONE V. DAI SAVOIA ALLE “QUOTA ROSA” 1. Il ritorno dei Savoia Tra le riforme apportate alla Costituzione ricordiamo quella inerente la XIII disposizione transitoria e finale che non ammetteva l’accesso al suolo italiano ai discendenti di casa Savoia. Soltanto in seguito alla presentazione di un ddl, convertito poi nell’attuale legge cost. 1/2002, i discendenti di casa Savoia hanno avuto la possibilità di accesso al suolo italiano, divenendovi anche cittadini. 2. Le “quote rosa” Di maggior rilievo risulta, invece, il ddl presentato per la modifica dell’art. 51 Cost., sull’eguale accesso agli uffici e alle cariche pubbliche, introducendo un ulteriore comma il quale prevede che “a tal proposito la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. L’innovazione si rende necessaria perché con una sentenza del 1995 la Corte cost. dichiara illegittime le disposizione che per vari livelli e tipologie di elezioni prevedono che i candidati di un medesimo sesso non possano superare una percentuale predeterminata sul totale dei posti disponibili: sono le cd “quote rose”, in sede d’elezioni, il cui fine è riservare alle donne, storicamente sottorappresentate, una quota non riducibile sul totale delle candidature. Secondo la Corte cost. il meccanismo delle quote può essere assimilato alle cd “azioni positive”: interventi diretti a capovolgere la situazione di sfavore in cui si trovi un soggetto attribuendo a quello stesso soggetto un vantaggio normativamente determinato. Ma per la Corte nel caso di diritto di voto il vantaggio non può ammettersi. Tali misure violerebbero sia l’art. 3 che il 51 della Cost. dato che non si propongono di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì d attribuire loro direttamente quei risultati medesimi, dando luogo ad una tutela preferenziale in base al sesso. Nella modifica che si apporta all’art. 51 la parole chiave sono “promuovere” e “pari opportunità”. Il “promuovere” offre un fondamento costituzionale alle azioni positive, mentre con “pari opportunità” si introduce un concetto che va oltre la stretta eguaglianza formale. Nella seconda deliberazione il quorum dei due terzi, per l’approvazione del ddl di cui sopra, è largamente superato dando vita alla legge costituzionale n.1/2003. In seguito all’approvazione di tale riforma, anche la legislazione ordinaria ha cercato di adattarsi fornendo il cd Codice delle pari opportunità. Nel 2010 avvicinandosi le elezioni la regione Campania approva una nuova legge elettorale che prevede che l’elettore possa esprimere una seconda preferenza, a condizione che la seconda indichi un candidato do genere diverso rispetto alla prima. Il governo impugna la legge davanti alla Corte per violazione degli art. 3, 48 e 51. Il ricorso è respinto con la sentenza 4/2010. La corte argomenta che la seconda preferenza è solo eventuale e che quindi si tratta di una misura promozionale, ma non coattiva (l’intento del legislatore può non realizzarsi). In occasione delle recenti elezioni amministrative è accaduto che i processi politici non hanno tenuto conto delle novità intervenute e gli esecutivi sono stati formati secondo l’usale costume della spartizione tra forze politiche e senza tener conto le prescrizioni sulla presenza paritaria di uomini e donne. Il mancato rispetto dell’equilibrio di genere rende la giunta illegittima e l’atto di nomina annullabile da parte del giudice. CAPITOLO V. COSTITUZIONE, GIUSTIZIA, POLITICA SEZIONE I. LA STAGIONE DEI LODI 1. Il Lodo Schifani: l’inizio Nel 2003 è in atto il dibattito sulle riforme istituzionali ed è così che, nel maggio dello stesso anno, giunge in Senato, dopo l’approvazione avvenuta già alla Camera, l’AS 2191 sull’attuazione dell’art. 68 Cost. in materia di immunità parlamentare per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle funzioni. Una volta giunto in Aula, è già noto che il centrodestra ha intenzione di presentare un emendamento volto a sospendere i processi in cui siano imputati i cd “imputati eccellenti”, tale emendamento è volto a tutelare soprattutto il PdC Berlusconi, imputato in un giudizio penale. Le polemiche sono subito violente e iniziano a sorgere dubbi di costituzionalità in relazione alla violazione degli artt. 3 e 138 Cost. e soprattutto perché si cerca di introdurre in tal modo una normativa volta a tutelare i reati extrafunzionali dei cd imputati eccellenti (PdR, PdC, PdCamere e PdCorte). Ovviamente il centrodestra ricorre alla legge ordinaria, il cui iter legislativo risulta molto più semplice rispetto a quello previsto dall’art.138 Cost. (procedimento aggravato) e per di più l’emendamento viene presentato al Senato perché qui vi è una prassi molto più elastica rispetto alla Camera, volta a favorire l’emanazione di emendamenti eterogenei rispetto all’oggetto iniziale del ddl. L’emendamento viene così comunicato in Aula, affermando che “non possono essere sottoposti a processi penali per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione delle cariche o delle funzioni e fino a cessazione delle medesime, i suddetti imputati eccellenti. Fino alla cessazione anzidetta sono altresì sospesi in ogni fase, grado o stato, i processi incorso a loro carico”. Su questo emendamento vengono sollevate pregiudiziali di incostituzionalità relative alla violazione degli artt. 3 e 138 Cost., in quanto si introduce una normativa di privilegio diretta soltanto ad alcuni soggetti e quindi palesemente lesiva del principio di uguaglianza formale, e perché si ricorre ad una legge ordinaria piuttosto che al procedimento previsto dall’art.138 Cost., indicato per una riforma simile (“..e le altre leggi costituzionali”, quindi è materia costituzionale). Alla fine le pregiudiziali vengono respinte e il testo approvato nel giro di poche settimane, dando vita alla l. n. 140/2003 il cd “lodo Schifani”. 2. La sentenza Corte cost. 24/2004: luci ed ombre In merito alla questione prima enunciata sul “lodo Schifani”, si è pronunciata anche la stessa Corte costituzionale con sentenza n. 24/2004, in seguito alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal normativa speciale e derogatoria. In tal modo il legittimo impedimento diviene inevitabilmente prerogativa, in quanto si applica ai titolari di cariche di Governo un regime diverso rispetto a quello vigente per il cittadino comune. Un regime assolutamente derogatorio, tanto da incidere sull’equilibrio tra i poteri e sulla posizione della magistratura come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il governo diviene infatti giudice di se stesso e fa prevalere nel bilanciamento l’interesse dell’esecutivo sugli interessi di giustizia. La legge viene comunque promulgata dal PdR anche se il Tribunale di Milano, con due ordinanze, solleva subito una questione di legittimità davanti alla Corte cost. per violazione degli artt. 3 e 138 Cost. E’ ancora in corso la polemica sul legittimo impedimento quando si verifica il caso Brancher. Già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Brancher viene nominato dal Capo dello Stato, su richiesta del PdC, ministro senza portafoglio, rientrando nella disciplina sul legittimo impedimento prevista dalla legge 51/2010. Se fosse rimasto sottosegretario, non avrebbe potuto usufruire di tale disciplina, in quanto a tale figura non è riconosciuta la qualità di membro del governo. In ogni caso la polemica pubblica scoppia violentissima quando Brancher, imputato in un giudizio a Milano, chiede di spostare l’udienza di tre mesi in virtù della disciplina prevista dalla legge 51/2010, motivando il legittimo impedimento con l’esigenza di organizzare il ministero di cui è titolare. In realtà i ministri senza portafoglio non dispongono di un proprio ministero e quindi la motivazione arrecata da Brancher risulta falsa. Così vengono subito presentate mozioni di sfiducia individuale sia alla Camera che al Senato nei confronti di Brancher, il quale cerca di resistere ma alla fine è costretto a dare le dimissioni, subito accettate. 2. La sentenza Corte cost. 23/2011: un impedimento eguale per tutti La Corte Cost. si pronuncia in merito alla legge 51/2010 dichiarando l’ incostituzionalità dell’art. 1, comma 3, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art 420 ter del c.p.p., l’impedimento addotto, e dell’art. 1 comma 4 relativo all’ipotesi di impedimento continuativo e attestato dalla presidenza del consiglio dei ministri () Tale legge viene dichiarata incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 138 Cost. in quanto anche la Corte ammette che tale legge introduca una normativa di privilegio volta soltanto ai soggetti del governo (che non sono tenuti a sottoporre alla valutazione del giudice l’impedimento, ma possono chiedere un vero e proprio rinvio a richiesta in base alla mera comunicazione), e che per di più introduca una normativa derogatoria attraverso una legge ordinaria, violando l’applicazione del 138. Con separata pronuncia la Corte dichiara l’ammissibilità del referendum abrogativo sulla stessa legge 51 (spetterà alla Corte di cassazione valutare l’impatto sul quesito referendario della sentenza del giudice di costituzionalità). Alla fine su tale legge si è pronunciato anche il popolo italiano nel voto referendario del 12-13 giugno 2011, abrogando la legge 51/2010. 3. Il “lodo costituzionale” Nel maggio del 2010 viene presentato nuovamente dal centrodestra un nuovo ddl costituzionale AS 2180 che verrà spesso individuato come il “lodo Alfano bis o lodo Alfano costituzionale”. Invero, si distacca alquanto dallo schema del lodo originario. Prima di tutto vien presentato alle Camere tramite il procedimento del 138 e prevede che, al di fuori di quanto previsto dall’art.90 Cost., nel caso di azione penale nei confronti del PdR il procedimento sia sospeso e sia data comunicazione al Senato. Entro 90 giorni il Parlamento, riunito in seduta comune, può disporre la sospensione del processo. Nel caso di azione penale nei confronti del PdC e dei ministri, al di fuori dei casi previsti dall’art.96 Cost., la comunicazione è fatta alla Camera di appartenenza o al Senato per chi non è parlamentare. Entro 90 giorni l’assemblea può disporre la sospensione. In entrambi i casi la sospensione opera per l’intera durata della carica o della funzione e si prevede l’applicazione anche ai processi in corso dall’entrata in vigore. La sospensione dei processi diventa automatica ex lege, ancorchè rinunciabile da parte dell’imputato e viene disposta dal giudice. Il PdR mostra le proprie perplessità in merito a tale legge in quanto vede sminuita la sua stessa funzione e vede il pericolo di un crollo del principio di checks and bilance. La legge è ancora in discussione anche perché la maggioranza che l’ha creata non è più al governo. 4. L’AS 1880: estinzione dei processi per durata irragionevole Al cdx, per fornire al Pdc uno scudo protettivo, non resta che riprendere il ddl relativo al processo breve, introdotto con quello del legittimo impedimento e poi messo in secondo piano. Nasce l’idea di abbreviare i termini di prescrizione in modo che i processi di Berlusconi possano senza traumi arrivare a morte prematura. Poco importa che in tal modo cadrebbero tantissimi altri processi, con grave impatto sul sistema giustizia. Una norma sulla prescrizione breve non può essere introdotta con decreto-legge, in quanto non presenta i connotati di “straordinaria necessità ed urgenza”, cosa che invece intende fare il centrodestra. In ogni caso si apprende che il PdR non ha intenzione di promulgare la legge di conversione del decreto-legge; alla fine fallisce il tentativo del centrodestra di abbreviare la prescrizione. Berlusconi si orienta a riformulare l’obiettivo non più con una semplice legge ad personam, ma nell’ambito di una riforma generale della giustizia, sulla quale recarsi in Parlamento con una piena e personale assunzione di responsabilità. L’AS 1880 relativo al processo breve, sembra avere inizialmente delle valide motivazioni che lo sostengano: l’art.111, comma 2, Cost. chiama la legge ad assicurare la “ragionevole durata” del processo; l’art. 6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dispone che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”. Dunque il principio che un giudizio debba chiudersi in tempi ragionevoli è saldamente presidiato nel nostro ordinamento, ma da sempre non viene rispettato ed è per questo che l’Italia riceve da sempre continue condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Dunque può sembrare opportuna e utile una legge volta a determinare tempi più brevi per la risposta di giustizia, e sembra essere questo l’obiettivo dell’AS 1880. Il cuore della proposta è nell’art. 5 che introduce nel c.p.p. un meccanismo di estinzione dei processi penali a seguito del decorso dei termini indicati, senza che si giunga alla pronuncia del giudice nel relativo grado. Rimangono esclusi i processi in cui l’imputato ha già riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, o è stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale. A prima vista sembra che tale testo introduca una ragionevole durata dei processi, anche se emergono subito dubbi di incostituzionalità per irragionevolezza della scelta legislativa, soprattutto con riferimento all’irragionevole riduzione della durata del processo senza un relativo cambiamento dei meccanismi processuali ed in specie un aumento delle risorse disponibili per le attività di giustizia. Comprimere le stesse attività in tempi più ridotti ,comporta non soltanto l’estinzione di un numero più o meno ampio di processi, ma anche una notevole riduzione dell’efficienza processuale, considerata dalla Corte un bene costituzionalmente rilevante. Il CSM esprime un parere in merito all’AS 1880 e nota che, in specie, non realizza il principio del giusto processo di cui all’art.111 Cost., in quanto privilegia la rapidità formale di una scansione temporale, a scapito della funzione cognitiva propria del processo. Alla fine di tutto però il Senato approva il testo e lo manda alla Camera. 5. Dalla “ex Cirielli” alla prescrizione breve per gli incensurati: l’AC 3137 Il testo approda alla Camera sottoforma dell’AC 3137 (AS 1880) a cui vengono apportate rilevanti modifiche. La riforma sulla prescrizione breve costituisce il seguito della legge 251/2005 (talvolta richiamata come “ex Cirielli”, dal nome del deputato di AN presentatore della relativa proposta (AC 2055) con cui si è introdotto l’art. 161 del codice penale il quale prevede già una riduzione dei termini di prescrizione non solo per gli imputati incensurati ma anche per i cd recidivi semplici). La modifica che si vuole apportare con l’AC 3137 riguarda appunto la distinzione di trattamento tra gli incensurati e i recidivi semplici, dove ai primi è riservato un trattamento più favorevole, i cui termini di prescrizione terminano prima, rispetto ai secondi. In materia, interviene anche il CSM sostenendo di essere contrario a tale riforma in quanto non vengono rispettati i principi dell’efficienza e della ragionevole durata del processo. A difesa del testo, invece, interviene in Aula il Ministro Alfano, argomentando che l’impatto reale della norma in corso di approvazione si limita allo 0,2% dei processi. 6. Prescrizione breve e processo lungo: l’intrinseca irragionevolezza di un legislatore schizofrenico Le percentuali fornite dal Ministro Alfano fanno sorgere anche dei dubbi di incostituzionalità della stessa norma, in quanto può mai essere conforme al principio di uguaglianza una regola che riguarda un numero così ridotto di processi? Abbreviare la prescrizione per l’imputato incensurato significa conferire a quell’imputato una situazione di vantaggio (emergono quindi elementi di irrazionalità e di ineguaglianza). Significa dare rilievo all’elemento soggettivo, ma che le condizioni soggettive possano avere rilevanza non è ignoto. Nella sentenza 324/2008 la Corte cost. prende in esame numerose ordinanze che avanzano dubbi di costituzionalità sulla legge 251/2005 (ex Cirielli) anche se alla fine la stessa Corte non giunge a una decisione nel merito, perché dichiara le questioni inammissibili (perché presentano “un petitum oscuro, di difficile determinazione” e questo di per sé conduce ad una manifesta inammissibilità). Inoltre, la Corte riconosce che il processo breve significa un elemento di premialità per l’imputato. Da questo deriva che cancellare la norma sarebbe una decisione in malam partem; riconosce quindi al legislatore un ampia discrezionalità (una decisione in malam partem sostituirebbe la Corte al legislatore nell’esercizio della discrezionalità, determinando una situazione di svantaggio a carico dell’imputato). Quindi la sentenza della Corte lascia aperta la domanda: può il legislatore collegare un tempo di prescrizione abbreviato alla qualità personale dell’imputato? La prescrizione breve, impedendo che si giunga alla pronuncia definitiva di merito, non colpisce tanto la funzione retributivo - sanzionatoria del processo, ma piuttosto la funzione cognitiva dello stesso, premessa indispensabile del momento sanzionatorio. La prescrizione preclude l’accertamento della verità. Rimane sulla legge 251/2005 un dubbio d incostituzionalità per intrinseca irragionevolezza che una pronuncia di inammissibilità non consente di dissolvere. Mentre l’Aula della Camera discute la prescrizione breve, in Senato si inizia a discutere di un iniziativa che prende il nome di “processo lungo” o “ingolfa – processi”. Sono in discussione, infatti, due ddl che evidenziano un prolungamento in misura non predeterminata, ma potenzialmente molto ampia, i tempi di giudizio. È un passo verso la paralisi della giustizia penale. Il governo presenta un emendamento pone la questione di fiducia. Il Senato approva. Processo breve e processo lungo sono norme che generano all’interno dell’ordinamento giuridico un’antinomia di difficile risoluzione. Qualunque ordinamento giuridico presume l’armonica componibilità delle norme che di esse fanno parte: la contraddizione insanabile non può essere consentita. Nonostante il groviglio di contraddizioni, il legislatore avanza comunque nell’iter sia del processo breve che di quello lungo, i cui relativi ddl vengono approvati, l’uno, alla Camera e, l’altro, al Senato. 7. Si può intercettare un Presidente? Questo esempio serve per dimostrare come non sempre una regola speciale configurabile per il titolare di un alta carica debba ritenersi un inaccettabile privilegio. all’autodeterminazione, e per di più anche la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000 sancisce all’art. 3 il diritto al consenso informato, principi cardine del rispetto della persona umana. Quando nel 2006 Welby chiede al proprio medico curante di staccare la spina, quest’ultimo si rifiuta suscitando violenti polemiche anche all’interno del territorio italiano. Così Welby decide di scrivere una lettera rivolgendosi ad un giudice, per far sì che, quest’ultimo, imponga al medico curante di staccare il respiratore. L’ordinanza del Tribunale di Roma, però, da un lato riconosce che il diritto all’autodeterminazione e al consenso informato sono acquisiti all’ordinamento giuridico, dall’altro però dichiara che non vi è una disciplina idonea al caso in esame, disciplina che solo il legislatore può introdurre. Il diritto esiste ma il ricorso è inammissibile. Così conclude il giudice la cui sentenza è davvero paradossale. La vicenda Welby volge ormai al termine; egli si rivolge ad un altro medico che gli presta l’assistenza richiesta. Welby muore il 20 dicembre 2006 e il Vicariato di Roma rende subito noto di aver negato le esequie ecclesiastiche al Dott. Welby perché ha più volte manifestato la volontà di porre fine alla sua esistenza, concezione non tollerata dalla dottrina cattolica. Prosegue anche la vicenda giudiziaria nei confronti del medico che ha assistito Welby considerato colpevole di omicidio. Alla fine però si giunge al definitivo proscioglimento. Welby aveva il diritto di chiedere la sospensione del trattamento sanitario e il medico aveva il dovere di assecondarlo. 3. Eluana Englaro a. La battaglia legale b. Giudici e politica c. Il conflitto istituzionale Nel 1992, per un grave incidente automobilistico, cade in uno stato vegetativo permanente una giovane donna di nome Eluana Englaro. Ha un danno cerebrale irreversibile e secondo i medici non c’è alcuna prospettiva di recupero. Dopo qualche anno i genitori di Eluana chiedono al medico curante che sia sospesa la somministrazione forzata, mancando qualsiasi prospettiva di miglioramento e configurandosi quindi come un accanimento terapeutico. Ricevono un rifiuto. Il padre di Eluana, suo tutore legale, decide allora di rivolgersi ad un magistrato chiedendo l’interruzione della somministrazione forzata, da cui riceve l’ennesimo rifiuto. Negli anni seguenti ricorre spesso ai giudici ricevendo numerosi rifiuti, fino a quando nel 2008 la Corte d’Appello di Milano si pronuncia con sentenza, stabilendo di voler riconsiderare tutti gli elementi processuali utili a ricostruire la personalità di Eluana, i suoi orientamenti e convinzione, e la sua presumibile volontà. Ne trae il convincimento che tale volontà sarebbe stata nel senso di rifiutare il trattamento di sostegno vitale artificiale mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico. Pertanto conclude per l’accettazione dell’istanza di autorizzare a disporre l’interruzione del trattamento. Scoppiano polemiche durissime e nel luglio del 2008, alcuni senatori presentano in Senato una mozione con cui quest’ultimo dovrebbe sollevare un conflitto tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di Cassazione, sostenendo che quest’ultima sia intervenuta con una pronuncia creativa nel vuoto normativo conseguente alla mancanza di una legge applicabile. Richiesta assurda visto che il giudice nell’adottare la pronuncia sul caso concreto non invade la sfera legislativa di competenza del Parlamento. Analoga decisione assume anche la Camera dei Deputati anche se alla fine la Corte cost. dichiara il ricorso inammissibile. Nel frattempo il padre di Eluana chiede alla Regione Lombardia di indicargli una struttura in cui sia possibile dare attuazione al decreto della Corte d’Appello di Milano. La Regione rifiuta e così il padre di Eluana si rivolge al TAR che accoglie il suo ricorso e ordina all’amministrazione sanitaria di indicare una struttura idonea. Conclusivamente Englaro decide di trasferirsi ad Udine, dove la clinica “La Quiete” è disponibile e così si avvicina l’interruzione dell’alimentazione forzata di Eluana. La maggioranza decide allora di intervenire, emanando un decreto legge per stabilire che alimentazione e idratazione forzata non costituiscono trattamento sanitario e quindi sono obbligatori in ogni caso per la persona in stato vegetativo permanente. Prima dell’emanazione del decreto, Napolitano invia una lettera a Berlusconi informandolo del fatto che non emanerà il decreto, in quanto non sussistono i criteri di “straordinaria necessità ed urgenza”, stabiliti dall’art. 77 Cost., e per di più vi è una violazione del principio di separazione dei poteri, derivante dal sovrapporsi della volontà del legislatore a pronunce definitive del giudice. Vi è dunque una manifesta incostituzionalità nel decreto legge. Berlusconi attacca duramente il PdR e, nonostante tutto, il governo va avanti e approva il decreto-legge in Consiglio dei ministri. Sembra quasi una sfida a cui il PdR risponde rifiutando, come già aveva sostenuto, l’emanazione del decreto legge. Subito dopo il Governo approva un ddl di identico contenuto e lo presenta in Senato, anche se i lavori, dopo un po’, vengono sospesi in quanto, in quello stesso giorno, Eluana si spegne. SEZIONE II. IL FUTURO? 1. L’amministratore di sostegno La morte di Eluana affretta i lavori in Paramento e si va subito all’approvazione di un ddl sul cd “testamento biologico”. In Italia si verifica un caso in cui un’anziana donna, affetta da una malattia degenerativa che condurrà fatalmente alla necessità di trattamenti di sostegno alla vita, decide di rifiutare l’ intervento. La famiglia conosce questa sua volontà e la condivide. Viene chiesta al giudice la nomina di un amministratore di sostegno ai sensi della legge 6/2004 che ha introdotto tale figura nel c.c. secondo cui “l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato in previsione della propria eventuale futura incapacità mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”. È proprio questa futura incapacità che si prevede nella specie e l’amministratore di sostegno dovrebbe sostituirsi alla donna in quel decisivo momento ed esprimere in sua vece il diniego all’intervento. Il giudice accoglie l’istanza ritenendo che il rifiuto dei trattamenti salvavita rientri pienamente nell’autodeterminazione garantita dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., e che il rispetto della volontà debba essere assicurato sia per il capace che può manifestarla, sia per l’incapace che l’abbia anticipata in specifiche disposizioni, o per il quale venga altrimenti provata. Di conseguenza viene nominato come amministratore di sostegno della donna, il marito. Con successive pronunce, il giudice afferma che all’adulto nel pieno delle sue capacità è consentito designare l’amministratore di sostegno, ma l’effettiva nomina di quest’ultimo può avvenire solo al verificarsi della patologia che determina l’incapacità. La designazione dell’amministratore di sostegno è consentita anche a coloro che si trovano in uno stato vegetativo permanente. 2. Il testamento biologico in Parlamento Il testamento biologico in Parlamento suscita violenti polemiche ed apre la strada ad una battaglia piuttosto aspra. Vengono presentati in Senato numerosi ddl che riportano una concezione riduttiva e limitata della dichiarazione anticipata di trattamento. Un testo viene approvato in sede referente e arriva in Aula accompagnato da dubbi e crescenti polemiche. A difesa di tale testo si schiera Calabrò secondo cui l’art. 32 Cost. pone un limite al rispetto della persona umana e l’art 2 Cost. contempla tra i diritti inviolabili il diritto alla vita, che non viene meno neppure quando si è dinanzi a una condizione che potrebbe sembrare apparentemente uno stato di non vita, perché anche allora una persona conserva la propria dignità. Per di più sul divieto di sospensione di idratazione e alimentazione artificiale afferma che non si tratta di terapie ma di forme di sostegno vitale. Contro tale tesi, si schiera Veronesi secondo cui il testo in esame non rispetta la volontà espressa dal cittadino, ma va in direzione esattamente opposta perché obbliga la persona in coma a rimanervi per sempre, anche contro la sua volontà. Secondo Veronesi, i principi di autodeterminazione e consenso informato dei trattamenti sono i capisaldi di una concezione liberale di uno Stato, ma sono di fatto, in questo testo, calpestati. La Costituzione è violata. 3. Segue. Profili di incostituzionalità a. Il principio di autodeterminazione b. L’eguaglianza c. Discrezionalità legislativa e sapere tecnico d. Le norme sovranazionali: Convenzione di Oviedo, Carta dei diritti UE) Alla fine il testo in esame viene approvato dall’Aula del Senato e tale scelta viene riconfermata in Camera dei Deputati nel luglio del 2011, accompagnata però da dubbi di incostituzionalità. Tale testo tende a cancellare quanto consolidatosi nel tempo in materia di “diritto di morire”, in quanto il principio di autodeterminazione viene praticamente svuotato e nel rapporto medico – paziente, che prima era fondato sul primato della volontà del paziente piuttosto che di quella del medico, ora notiamo che la proposta di legge restituisce il primato alla volontà del medico. Ciò lo si nota dall’art. 7 comma 1 della proposta: “Le volontà espresse dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno” e ancora al comma 3, per cui nel contrasto tra il medico curante e il fiduciario decide un collegio medico, per il quale “resta comunque sempre valido il principio dell’inviolabilità e dell’indisponibilità della vita umana”. È da qui che nasce la violazione dell’art. 32 Cost., oltre che degli artt. 2 e 13. Si segnala anche la violazione del principio di uguaglianza, enunciato all’art. 3 Cost., in quanto vi è una discriminazione tra chi può manifestare la sua volontà al momento in cui il trattamento sanitario viene praticato, e chi non può. Se per il primo l’autodeterminazione comprende la possibilità di rifiutare il trattamento salvavita, anche per il secondo dovrà comprendere quella stessa possibilità. Se al primo è garantita la possibilità di manifestare la propria volontà in quel senso, anche il secondo deve poterlo fare e necessariamente a mezzo di una dichiarazione anticipata di trattamento. Per quest’ultimo, dunque, non consentirgli una dichiarazione anticipata o non osservarla equivale a privarlo di un diritto (diritto all’autodeterminazione), che non potrà mai esercitare. Il legislatore deve dunque prevedere i modi nei quali l’autodeterminazione del malato in stato vegetativo permanente possa realizzarsi, attraverso dunque una dichiarazione anticipata di trattamento o attraverso la voce di un rappresentante legale. Un ulteriore profilo di incostituzionalità riguarda il cattivo esercizio della discrezionalità del legislatore in rapporto al sapere tecnico. Il legislatore, in questo testo, ha disposto che alimentazione e idratazione non costituiscono trattamenti sanitari e quindi non rientrano nell’ambito garantito al rifiuto dall’art. 32 Cost. Tali trattamenti “possono” essere, dunque, coattivamente praticati anche contro la volontà del paziente. Il legislatore, però, non dispone di un vero e proprio sapere tecnico ed è per questo che l’indirizzo politico - legislativo non può sovrapporsi ad esso, così come affermato anche dalla stessa Corte costituzionale. Un ulteriore parametro di costituzionalità di tale testo è sicuramente la “Convenzione di Oviedo”, entrata in vigore nel 1999, la quale attesta e riafferma il principio di autodeterminazione, in coerenza con il dettato costituzionale. Lo stesso avviene anche per la Costituzione europea, la quale funge da ulteriore parametro di legittimità della legge ordinaria. Da questo complesso di norme si trae con chiarezza che la volontà del malato quanto al trattamento sanitario è centrale e decisiva. 4. “Pro life” vs “Pro choice”: tra diritto indisponibile e libertà Si sopprime il controllo statale sulle leggi regionali; si amplia l’autonomia finanziaria e impositiva; quanto alla forma di governo regionale, si prevede l’elezione del Presidente della Giunta da parte del Consiglio, con potere di nomina e revoca degli assessori, e si prevede la sfiducia costruttiva (Consiste nell'impossibilità da parte del parlamento di votare la sfiducia al governo in carica se, contestualmente, non concede la fiducia ad un nuovo esecutivo. In questo modo un governo, seppur abbia perso la maggioranza parlamentare, può continuare a rimanere in carica nel caso in cui le forze politiche in parlamento non riescano ad accordarsi per formare un nuovo governo). L’innovazione proposta però non avrà alcun seguito nel corso della legislatura. Bossi decide di lasciare la maggioranza di centrodestra mettendo in crisi il Governo, in quanto quest’ultimo non ha tenuto fede agli impegni preelettorali con cui si stabiliva di dar vita ad un vero e proprio federalismo. La rottura è violenta e nelle elezioni del 2006 la Lega corre da sola. I leghisti sostengono, a difesa della propria “filosofia”, il principio di autodeterminazione dei popoli, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e ratificato dall’Italia attraverso l’emanazione di una legge. Tale principio, però, presuppone in primis l’esistenza di un popolo, un concetto che di certo non si applica a qualsiasi aggregazione di persone per il solo fatto di coesistere in un medesimo territorio, ma presuppone un individuazione identitaria: per etnia, lingua, religione, storia, cultura o altro. Il cd “popolo padano” non presenta alcuna caratteristica percepibile che lo distingua dagli altri italiani. È in questo clima che maturano le risposte politiche e istituzionali che si realizzano nel corso della legislatura: il federalismo amministrativo, la Commissione bicamerale per le riforme, l’elezione diretta del Presidente della Regione, la revisione del Titolo V della Costituzione. 3. Il federalismo amministrativo Mentre inizia il suo cammino la proposta di legge istitutiva della Commissione bicamerale per le riforme, prende l’avvio anche il “federalismo amministrativo”. Il programma presentato da Prodi nel maggio del 1996 pone tra gli obiettivi del Governo un federalismo a Costituzione invariata, realizzato attraverso un’ampia delega di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni ed enti locali. Con due ddl, noti come decreti-legge Bassanini, dal nome del Ministro della funzione pubblica proponente, si avvia una profonda innovazione degli apparati pubblici. Si riducono al minimo compatibile col dettato costituzionale, i controlli amministrativi sugli atti della Regione e degli enti locali. Ma il perno principale dell’architettura normativa del federalismo a Costituzione invariata, è la delega al Governo a conferire con i decreti delegati a regioni ed enti locali tutte e funzioni e i compiti amministrativi, meno quelli espressamente esclusi. All’impostazione fondata su una potestà legislativa statale in materie enumerate e una potestà legislativa regionale, generale e residuale, corrisponde ora una parallela impostazione per le funzioni amministrative. Si escludono i compiti di regolazione e controllo affidati ad autorità in dipendenti. 4. I governatori Il fallimento della Bicamerale D’Alema non arresta la ricerca di nuovi assetti della forma di Stato. A metà della XIII legislatura si affronta il tema dell’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni, il cui antefatto sta nella legge n.43/1995, nota come Tatarellum dal nome dell’ideatore, l’On Tatarella (AN), la quale introduce una nuova disciplina per l’elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario. Dopo un po’ si approda ad un ddl il quale prevede l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione, così come avviene per i sindaci e i Presidenti di provincia, per cui la sfiducia comporta un sostanziale autoscioglimento dell’assemblea elettiva. Qualsiasi sia la causa che faccia venire meno la figura del Presidente della Regione, si avranno di conseguenza sia le dimissioni della Giunta, sia lo scioglimento del Consiglio. È questa la formula che ha dato poi vita alla legge costituzionale 1/1999. Inoltre tale legge costituzionale, amplia notevolmente l’autonomia statutaria delle Regioni e soprattutto ne modifica il procedimento di formazione. Prima lo statuto regionale veniva deliberato dal Consiglio regionale e approvato con legge statale. Ora lo statuto viene approvato con legge regionale, in doppia deliberazione, ed è sottratto ai controlli preventivi, mentre può essere richiesto un referendum confermativo. 5. La riforma del titolo V Nel 1999 giacciono presso le Camere numerose proposte di legge costituzionale volte a modificare la II parte della Costituzione. Alcune riprendono le modifiche della Bicamerale D’Alema, altre, invece, come quella leghista, tendono all’introduzione del principio di autodeterminazione esercitato attraverso referendum propositivo. Il testo unificato, che assorbe le varie proposte presentate, arriva nell’Aula della Camera Senato nel novembre del 1999 e la discussione prosegue anche nei giorni successivi. Poi si sospendono i lavori per almeno un anno e si riprendono nel settembre del 2000, per concludere con il voto finale nella seduta del 26 settembre dove la Camera approva. Il testo poi arriva in Senato il giorno dopo ed è evidente che c’è un’unica scelta da fare, in quanto le elezioni sono imminenti: approvare il testo così com’è o rinunciare alla riforma. Alla fine si opta per la prima soluzione e il Senato approva in prima deliberazione, da cui però il centrodestra si astiene mostrando il proprio dissenso per la riforma. In seconda deliberazione Camera e Senato approvano nuovamente. Non è stata raggiunta la maggioranza dei 2/3 in seconda deliberazione e quindi, così come previsto dall’art. 138 Cost., si ricorre al referendum popolare. Subito sia centrodestra che centrosinistra raccolgono le firme di un quinto dei parlamentari, in quanto il primo vuole proporre un referendum cd “oppositivo” per far sì che la riforma sia respinta, il secondo, invece, vuole proporre un referendum cd “confermativo” per far sì che la riforma venga confermata anche dal voto popolare. Alla fine al referendum partecipa una base percentuale di elettori ma, siccome il 138 non prevede un quorum partecipativo, l’esito risulta comunque valido e va a vantaggio del centrosinistra. La riforma non viene respinta dagli elettori e così la Costituzione cambia. SEZIONE II. TRA’ UNITA’ E CONFLITTO 1. La devolution Come era previsto, alle elezioni del 2001 il centrodestra stravince soprattutto grazie all’alleanza con la Lega la quale inizia subito a pretendere che si proceda verso la devolution, anche se in parte quest’ultima è già stata attuata dalla riforma del Titolo V del centrosinistra. La Lega afferma, però, di non voler procedere su una strada che porta il marchio del centrosinistra. Subito viene proposto un ddl recante un ulteriore comma per l’art. 117 Cost., il quale recita: “le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per determinate materie, quali …”. Questo è già possibile grazie a quanto stabilito dall’art.116 Cost., ma come abbiamo già detto la Lega non accetta di seguire la strada del centrosinistra. I dubbi si appuntano essenzialmente sul rischio che l’attribuzione alla potestà esclusiva delle regioni delle materie indicate, possa produrre livelli inaccettabili di diseguaglianza, aumentare il divario tra Nord e Sud, mettere a rischio diritti fondamentali. Il testo recante la devolution viene approvato dalle Camere e respinto però dal voto referendario del 2006, referendum in cui si respinge anche la proposta sul premierato assoluto. 2. Il federalismo fiscale Nel lessico politico italiano il termine federalismo fiscale indica le regole che disciplinano la distribuzione del complesso di risorse derivanti dalla imposizione tributaria tra le entità territoriali che compongono il sistema: stato, regioni ed enti locali. Il nostro Paese si compone di aree forti e di altre deboli ed è per questo che normalmente accade che la parte più povera contribuisca meno alla raccolta di risorse, pagando imposte e tasse su una base imponibile più ristretta. Se si accede al principio che le risorse derivanti dall’imposizione tributaria debbano riferirsi a un territorio specifico e là devono rimanere, la parte debole di un paese è condannata a una cittadinanza di serie B senza possibilità di redenzione. Ma se si persegue un obiettivo di eguaglianza tra i cittadini e di riequilibrio tra aree forti e aree deboli, una parte delle risorse raccolte attraverso l’imposizione tributaria dovrà essere destinata allo specifico e maggiore sostegno delle stesse aree deboli. Il federalismo fiscale diviene la legge n.42/2009 e molto dipenderà dall’attuazione che i decreti delegati daranno alla suddetta legge.
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