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Appunti sulle fonti del diritto italiano (prof. Tarli Barbieri) | UniFi, Schemi e mappe concettuali di Diritto Costituzionale Delle Fonti Normative

Appunti sulle fonti del diritto italiano, presi a lezione e integrati con il libro di Giovanni Tarli Barbieri

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2012/2013

In vendita dal 06/12/2013

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4.3

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Scarica Appunti sulle fonti del diritto italiano (prof. Tarli Barbieri) | UniFi e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Diritto Costituzionale Delle Fonti Normative solo su Docsity! INTRODUZIONE: LA GRANDE RILEVANZA ED ATTUALITÀ DEL TEMA DELLE FONTI NEL FUNZIONAMENTO DEL NOSTRO SISTEMA ISTITUZIONALE La necessità di una rinnovata attenzione al tema delle fonti, deriva anzitutto dal fatto che nel nostro sistema istituzionale esiste una grande pluralità e differenziazione delle fonti normative, nonché dei relativi procedimenti di formazione e controllo, sulla base di una normativa costituzionale alquanto sommaria, che non riesce quindi a porre le premesse per risolvere molti dei problemi che si producono nel concreto funzionamento istituzionale. D'altra parte, le recenti innovazioni costituzionali hanno introdotto non poche innovazioni anche in materia di fonti: un esempio su tutti - con il nuovo titolo quinto della seconda parte della costituzione sono mutate radicalmente le aree di competenza delle leggi e dei regolamenti regionali (ed implicitamente anche di quelli statali), così come sono mutati i controlli su tali fonti (l. cost 3/2001). Ma soprattutto in materia sono intervenute, specie negli anni più recenti, molteplici (e tra loro differenziate) normative legislative ordinarie che a più riprese hanno disciplinato momenti o procedure di formazione di fonti normative: un esempio su tutti - le disposizioni in tema di esercizio da parte del Governo dei loro poteri normativi (l. 400/1988) Ma poi vi sono soprattutto nell'ultimo decennio non poche leggi ordinarie che contengono, con formulazioni in parte tra loro diversificate, clausole che vorrebbero sottrarre le disposizioni di queste leggi ad alcune forme di abrogazione o modificazione, se non in forma espressa. Ciò senza parlare dell' adozione o della modificazione di molte apposite norme dei regolamenti interni delle Camere in relazione al procedimento di formazione di varie fonti normative statali. Ma poi la dinamica politico-istituzionale ha messo sempre più in evidenza un uso differenziato delle fonti nelle diverse fasi politiche: al di là del fenomeno della sempre più rilevante incidenza nel nostro sistema delle fonti dell'ordinamento europeo, può pensarsi non solo al caso molto evidente dell' abuso della decretazione d'urgenza, ma all'intenso uso successivo della delega legislativa (non solo con il perdurare dell' estrema contrazione dei principi e criteri direttivi, ma anche con l'emergere dei decreti correttivi ed integrativi, con il subitaneo rilancio dei testi unici e dei codici), al sempre crescente uso della delegificazione. E ciò senza parlare dello stesso ampio uso della stessa procedura di revisione costituzionale negli anni più recenti. Analogamente in materia di limiti alla potestà legislativa delle Regioni: qui la compressione delle diverse potestà legislative regionali si è manifestata progressivamente ma in modo molto vistoso a causa della creazione di limiti assai penetranti ad opera del Parlamento nazionale e dell'attività normativa comunitaria; solo dopo l'approvazione delle ll. costt. 2 e 3/2001 si è assistito ad un maggiore e più libero esercizio del potere legislativo regionale. Parallelamente per il potere regolamentare delle Regioni, esercitato molto raramente fino alla l. costo 1/1999 ma che da allora sembra essere, invece, maggiormente utilizzato. Limitandoci alle fonti statali, negli ultimi anni nel complesso si contrae in modo evidente il numero delle leggi formali (ove le si depuri dalle leggi di mera approvazione), aumentano gli atti con forza di legge e gli atti regolamentari dello Stato e di altri soggetti od organi. Tutto ciò mentre si lamenta l'altissimo numero delle norme primarie vigenti, la loro assai modesta qualità, l'assenza di sistematici processi di semplificazione o codificazione, la conseguente eccessiva oscurità delle norme vigenti nei diversi settori. E poi restano tutte le fondate critiche alla difficoltà di conoscere questo enorme universo di fonti, spesso oscure e mal redatte: basti pensare, solo per citare un esempio, alla prassi, assai dubbia sul piano della legittimità costituzionale, delle leggi composte di un unico articolo, composto da centinaia di commi (per inciso, così, sono state approvate le ultime leggi finanziarie). In realtà sembra molto accentuato nel nostro ordinamento il numero delle leggi vigenti, la loro notevole frammentazione e rapida mutazione, l'accentuata scarsa utilizzazione di corrette norme redazionali, l’assenza di significativi processi di semplificazione e codificazione; ma ciò risponde anzitutto a fattori storici: fino a meta del 1948 per quasi un decennio sono stati i diversi Governi, in contesti di estrema difficoltà come quelli bellici e post bellici, a disporre del potere normativo primario; successivamente hanno contribuito ad estendere ulteriormente le materie disciplinate per legge la debole forma di governo parlamentare, caratterizzata da una estrema pluralità delle forze politiche e le molte riserve di legge previste in Costituzione. Ma accanto a questi si debbono ricordare anche (Barbera): a) l'alto numero dei parlamentari, portati ad inseguire interessi particolari propri della circoscrizione o del collegio di provenienza (sul plano tecnico tutto ciò è stato esaltato, almeno fino all'inizio degli anni novanta, dall' alto numero di leggi approvate direttamente nelle Commissioni parlamentari); b) la preferenza della burocrazia per un massiccia utilizzazione delle leggi, che evitano i pericoli derivanti dalla responsabilità contabile civile, penale, nonché la reazione degli interessi colpiti; c) la permeabilità delle forze politiche, di maggioranza e di opposizione, a interessi microsettoriali, con il conseguente sacrificio di progettazioni di carattere generale. La consapevolezza dei danni che ne derivano si è fatta largo negli anni più recenti e si stanno assumendo una serie di più o meno opportuni provvedimenti correttivi. Il decreto del Presidente del Consiglio, adottato d'intesa con i Presidenti delle Camere, ha precisato il relativo programma di iniziative (d.P.C.M. 24 gennaio 2003), ovvero: a) compilazione del testo delle leggi statali e degli altri atti normativi emanati dallo Stato, quale risultante dalle modifiche ed abrogazioni espresse; b) messa a disposizione gratuita, con strumenti informatici e telematici, dei relativi testi, e delle relazioni afferenti al singolo atto normativo; c) classificazione della normativa statale vigente, secondo parametri per favorire la ricerca per via informatica e telematica, nonché predisposizione di un idoneo apparato critico, atto ad individuare profili di incompatibilità ed abrogazioni implicite fra disposizioni; d) studio ed applicazione di strumenti e procedure di ricerca raffinata della normativa vigente, nonché di sistemi avanzati di trattamento informatico, di marcatura e di classificazione degli atti normativi, anche ai fini dell'attività istruttoria finalizzata a processi di riordino normativo; e) realizzazione di appositi portali e siti internet, corredati da idonei motori di ricerca, ai fini delle attività ora indicate. La costituzione di un sistema informativo sulla normativa statale vigente (denominato "Normattiva"), di rango primario e secondario, per realizzare in via informatica l'accesso gratuito dei cittadini alla normativa vigente e consentire al legislatore di disporre di uno strumento efficace ai fini dell'individuazione dei legami esistenti tra i diversi provvedimenti. Le attività in questione sono definite in coordinamento con iniziative già avviate nel campo della informatizzazione della documentazione giuridica pubblica, in particolare dalla Corte costituzionale, dalla Corte di cassazione, dalla magistratura amministrativa e contabile, dal Ministero della giustizia, dall'Istituto poligrafico e zecca dello Stato, dalle Regioni e dalle Province autonome. Il fenomeno dell'inflazione legislativa deve comunque essere collocato in un contesto più ampio di discussione sul miglioramento dei sistemi normativi dei grandi Stati contemporanei e nella stessa Unione europea. Non si tratta quindi di pensare ad una drastica riduzione delle norme, ma di migliorarne decisamente la qualità e l'adeguatezza. CAPITOLO 1 LE FONTI DEL DIRITTO: PROBLEMATICHE GENERALI 1.1 L’effettività come fondamento della produzione normativa; le fonti sulla produzione In prima approssimazione si definiscono fonti del diritto quegli atti o fatti cui l'ordinamento giuridico connette la nascita, oppure la modificazione o l'estinzione di una norma giuridica, in quanto tale dotata di efficacia erga omnes (Perassi), e attraverso i quali un determinato ordinamento giuridico è posto e continuamente rinnovato (Paladin). In tal modo, rimane esclusa l'attività normativa non giuridica che pure esiste nel corpo sociale (norme etiche, religiose, di costume) e che tuttavia può anche avere una sua rilevanza giuridica, a seconda dei possibili rinvii ad esse (espliciti od impliciti), da parte di atti-fonte ovvero influenzarne i contenuti. Ciò detto, le fonti sulla produzione sono quelle che individuano le fonti normative (o fonti di produzione) e che ne regolano la produzione, l'efficacia, la vita. Più in particolare, sul piano contenutistico, esse sono chiamate a regolare uno o più dei seguenti ambiti: a) identificazione delle fonti dell'ordinamento; b) determinazione dei criteri di vigenza delle fonti, anche in rapporto con le altre; c) indicazione dei criteri di interpretazione delle fonti (Zagrebelsky). La dottrina ha identificato cinque gruppi di fonti, riconducibili ciascuno ad un distinto criterio di legittimazione, che sono concretamente utilizzati nell'epoca contemporanea (Pizzorusso). A) Un primo fondamentale criterio di legittimazione si impernia sul diritto consuetudinario, ovvero sul principio in forza del quale ci si deve uniformare alla condotta tenuta in precedenza. Questo criterio di legittimazione non è quello accolto come generale nel nostro ordinamento, anche se con la Costituzione repubblicana il diritto consuetudinario non è più relegato al ruolo marginale che esso si era visto riconoscere dalle disposizioni preliminari al codice civile. Ad esempio l’art 10 co1 cost consente l'automatico recepimento nel nostro ordinamento delle consuetudini internazionali, cui è riconosciuta una prevalenza sul diritto interno confliggente, anche se di rango costituzionale (fatta eccezione per i principi supremi nel caso di consuetudini successive all' entrata in vigore della Costituzione: Corte cost, sent 48/1979). Anche nel diritto pubblico la consuetudine ha un ruolo non secondario. Si pensi al fenomeno delle consuetudini costituzionali quali fonti integrative delle disposizioni costituzionali espresse, che è un'ulteriore dimostrazione di una vitalità del diritto consuetudinario, anche se ormai prevalentemente in ambiti determinati. B) Un secondo criterio di legittimazione è quello che si basa sul diritto giurisprudenziale. Anche questo criterio di legittimazione non è quello fatto proprio in generale dal nostro ordinamento che però, dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, conosce casi sicuri di attività giurisprudenziali aventi carattere normativo: si pensi alle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale che determinano la cessazione di vigenza, con effetti limitatamente retroattivi, di disposizioni legislative; ancor più hanno valore normativo le sentenze di accoglimento cd "manipolative" che non determinano la caducazione del testo normativo ma la sua integrazione ad opera della pronuncia del giudice delle leggi. C) Un terzo criterio di legittimazione, quello del diritto divino, non è stato accolto nel nostro ordinamento, ispirato al principio della laicità dello Stato. Tuttavia, attraverso il regime concordatario che regola i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, il diritto canonico, ovvero il diritto proprio di quest'ultima, finisce per assumere una rilevanza anche nel nostro ordinamento. D) Un quarto criterio di legittimazione è costituito dal diritto convenzionale che si fonda su norme autonome, alla cui adozione, cioè, concorrono i potenziali destinatari o personalmente o tramite rappresentanti. La Costituzione repubblicana conosce una disposizione ispirata da questo criterio di legittimazione, vale a dire l'art 39 che riconosce efficacia erga omnes ai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali registrate. Come è noto, questa disposizione non è mai stata attuata, anche se il tema dell'efficacia erga omnes dei contratti collettivi di lavoro ha trovato una soluzione positiva per i lavoratori pubblici a seguito, da ultimo, del d.lgs. 29/1993 (ora trasfuso nel d.lgs. 165/2001) – contrattualizzazione del pubblico impiego - e, per i lavoratori privati, in via giurisprudenziale, attraverso l'applicazione diretta dell'art. 36 Cost. Possono essere ricondotti al diritto convenzionale anche quelle disposizioni costituzionali che prevedono attività convenzionali o consensuali quali presupposto per la regolamentazione di determinati rapporti giuridici: si pensi, solo per citare un esempio, alla disciplina costituzionale dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose di cui agli artt. 7 e 8 Cost. Tuttavia, sarebbe riduttivo ridurre la rilevanza del diritto convenzionale a questi pure importanti ambiti. Infatti nel più recente periodo si stanno moltiplicando casi in cui l'attività normativa è preceduta o presupposta da intese o fenomeni di concertazione, talvolta legislativamente previsti. Si tratta di fenomeni rilevantissimi ed assai diversi tra loro che possono essere distinti come segue: 1) atti che risultano da accordi o intese tra le parti sociali, ovvero tra Governo e parti sociali; 2) atti di intesa tra livelli territoriali di Governo; 3) atti di autoregolamentazione. 1) Per quanto riguarda gli atti risultanti da accordi tra le parti sociali, ovvero tra Governo e parti sociali, si debbono distinguere i fenomeni di concertazione che rilevano: a) attraverso (o meno) un richiamo ad accordi tra le parti sociali da parte di una fonte normativa; b) attraverso la "recezione" di tali accordi in un atto normativo. a) La prima ipotesi: una legge demanda alla contrattazione collettiva ovvero ad appositi accordi tra le parti sociali la disciplina attuativa-integrativa di determinate disposizioni e risulta un fenomeno interessante laddove il raccordo tra fonte legislativa e accordo collettivo lascia emergere profili anche delegificanti; b) il dialogo tra Governo e parti sociali ha esaltato, soprattutto in alcune materie, i fenomeni di "negoziazione legislativa". Si manifesta in particolare attraverso l'uso massiccio della delegazione legislativa. I fenomeni di "negoziazione legislativa" tendono ad esaltare l'attività normativa del Governo anche perché le parti sociali vedono negli atti dell'Esecutivo, e in particolare nei decreti legislativi, strumenti attraverso i quali gli accordi sono garantiti più efficacemente, in quanto posti al riparo da possibili attività emendative del Parlamento. A questi fenomeni di coinvolgimento "forte" si debbono aggiungere poi i numerosi casi in cui le parti sociali vengono sentite prima dell' emanazione di atti normativi: in questi casi, si tratta di un' attività consultiva che però in concreto risulta talvolta rilevante. 2) Rilevanza degli strumenti di raccordo tra Stato e Regioni decisi in sede di Conferenza Stato-Regioni (o in Conferenza unificata) che talvolta sono "recepiti" in atti normativi, altre volte sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale con propri nomina iuris. Si tratta di un fenomeno assai interessante, sia perché gli strumenti in questione assumono una rilevanza progressivamente significativa nei rapporti tra Stato e Regione, soprattutto in alcune materie, sia perché essi non hanno un chiaro fondamento costituzionale, dato che la l. cost. 3/2001 non disciplina le Conferenze ed anzi appare alquanto carente sul piano dell'individuazione degli strumenti di cooperazione e di raccordo, in controtendenza rispetto ai principali modelli federali contemporanei che privilegiano gli istituti di cooperazione quali cardini essenziali del proprio sistema di funzionamento. La proliferazione di accordi ed intese, pone il problema della loro riconducibilità alle fonti del diritto e del loro rapporto con la legislazione statale e regionale, dato che tali strumenti, o direttamente o attraverso gli atti statali di recepimento, finiscono, di fatto (ma come si dirà non giuridicamente), per imporsi tanto al legislatore statale quanto a quello regionale e, in alcuni casi si propongono di individuare gli ambiti rispettivi di competenza tra Stato e Regione, o anche di chiarire la portata della legislazione statale preesistente all' entrata in vigore della riforma del Titolo V. È allora fondata la tesi secondo cui tali atti finiscono per determinare «una ulteriore complicazione del sistema delle fonti», dato che essi costituiscono essenziali strumenti di attuazione di importanti disposizioni legislative, di carattere sostanzialmente normativo. Esiste il problema dell'efficacia delle deliberazioni delle Conferenze nei confronti dell'attività legislativa dello Stato e delle Regioni. Su questo punto, infatti, la Corte costituzionale esclude che gli accordi in questione possano vincolare, quale parametro interposto di costituzionalità, il legislatore statale. 3) La legislazione soprattutto più recente in non poche occasioni si ritrae dalla diretta disciplina di determinati ambiti materiali, in favore di atti di autoregolazione di soggetti privati. In questo caso è la stessa autonormazione ad assumere ex se valore normativo nel rispetto delle condizioni e dei fini legislativamente posti: un esempio è sicuramente dato dai codici di cui all'art. 12, d.lgs. 196/2003 cui è affidato il compito di integrare la disciplina del trattamento dei dati personali. I codici sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale a cura del Garante per la protezione dei dati personali e, con decreto del Ministro della giustizia, sono riportati in un apposito allegato del d.lgs. 196/2003. Diversi, e solo in senso lato riconducibili a fenomeni di diritto convenzionale, i casi di atti sostanzialmente normativi adottati da soggetti privati (spesso a seguito di processi di privatizzazione) che, in alcuni casi, divengono fonti del diritto generale e talvolta condizionano fonti formalmente legislative, quali le leggi regionali. Tra questi, particolare rilevanza ha il codice di deontologia relativo ad attività giornalistiche (art 139), adottato dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti, il quale è chiamato a prevedere misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. La formazione di tale codice vede l'intervento del Garante. 1.5 Segue: sistema delle fonti e forma di stato e di governo E) Il quinto criterio di legittimazione, quello del diritto politico, presuppone che di regola la produzione normativa promani da autorità che agiscono sulla base di valutazioni di opportunità: l'Italia, e gli altri Paesi dell'Europa continentale si ispirano per l'appunto a questo criterio. Ciò detto, però, la concreta dislocazione dei poteri normativi è influenzata dall'assetto della forma di governo e della forma di Stato concretamente sussistente in un determinato ordinamento. La storia delle diverse forme di Stato e forme di governo non è altro, infatti, che la storia del modo in cui certi rivolgimenti sociali hanno determinato un certo assetto del potere statuale e del modo in cui un certo assetto di potere si è posto rispetto ai problemi presenti nella società, in un processo di continuo e reciproco condizionamento. All' evoluzione delle varie forme di Stato e di governo ha corrisposto un diverso modo di intendere e regolare i processi di produzione di norme giuridiche, il loro regime, la loro efficacia, i loro reciproci rapporti. Esiste cioè un nesso molto stretto tra il modo in cui nel tempo è venuto a configurarsi l’assetto del potere politico, la sua distribuzione tra i vari organi dello Stato, la natura dei rapporti tra Stato e cittadini e il parallelo sviluppo del sistema delle fonti normative. Tuttavia, questa interrelazione deve fare i conti con il fatto che ogni sistema delle fonti è retto, oltre che da un complesso di regole adattabili e plasmabili in relazione alle esigenze proprie dell'attuazione di una od altra forma di Stato e di governo, anche da un insieme di regole essenzialmente tecniche sulle quali queste esigenze influiscono ma solo in misura limitata (Pizzorusso). Di un vero e proprio sistema di fonti normative, inteso appunto come insieme di principi che valgono ad individuare, da un lato, le fonti produttrici di regole giuridiche e, dall' altro, a disciplinarne le reciproche interrelazioni, si può cominciare a parlare solo a partire dal tramonto dello Stato assoluto e del principio di unità del potere statuale, impersonato dal Sovrano. In tale forma di Stato, infatti, i decreti reali (o comunque gli atti sovrani contenenti comandi giuridicamente vincolanti), in quanto esercizio di un potere unitariamente concepito e derivante da una legittimazione di tipo trascendente, costituivano l'unica vera fonte normativa, dotata di un raggio di azione illimitato (fatto salvo il rispetto di alcune norme consuetudinarie cui neppure la volontà regia poteva derogare), indifferenziata al suo interno (potendo ora assumere i contenuti che oggi noi diremmo propri di una legge, ora quelli di un regolamento), così come indifferenziato era il ruolo del Sovrano-legislatore e del Sovrano-capo del Governo, nonché in possesso di una "forza" in grado di imporsi di per sé su ogni altro atto che avesse preteso di contrastarla. Con i rivolgimenti successivi alla Rivoluzione francese, con l'affermarsi dello Stato di diritto, con l'apparire sulla scena costituzionale di una pluralità di centri di esercizio del potere, in ossequio al principio della divisione dei poteri statuali, si comincia invece a delineare un sistema più articolato di fonti normative, sì che nasce l'esigenza di definirne il rispettivo regime e i reciproci rapporti. Un'esigenza di cui si fanno carico, innanzitutto, le Costituzioni, le quali non si limitano a fissare nuovi principi e dei nuovi valori, ma si preoccupano anche di definire le regole fondamentali di distribuzione del potere tra i diversi organi dello Stato, e, in quest' ambito, anche del potere di porre norme giuridiche, dettando le c.d. norme sulle norme. Nelle Costituzioni degli Stati liberali del secolo scorso si trova così la distinzione tra la legge del Parlamento e decreti e regolamenti del Sovrano, e l'attribuzione alla prima (che peraltro mantiene al Re la possibilità di condizionarne il contenuto) di un ruolo centrale e prevalente su ogni altra fonte normativa, in perfetta coerenza con l'assetto dualista che la forma di governo tende ad assumere in questo periodo (monarchia costituzionale). Al momento della trasformazione di questo assetto e con l'avvio della forma di governo parlamentare, anche i rapporti tra le fonti normative mutano e alla confermata centralità della legge del Parlamento si accompagna una sempre più marcata valorizzazione delle fonti normative facenti capo all'Esecutivo. Viceversa, poiché la Costituzione non disciplina espressamente le fonti secondarie che, almeno fino alla l. cost 3/2001, erano solo presupposte, si è dedotta la apertura delle fonti secondarie, con la conseguente possibilità per il legislatore di plasmarne di nuove. L'apertura delle fonti secondarie ha finito per lasciare alla disponibilità del legislatore ordinario la configurazione del sistema normativo infraprimario. 2.2 Verso l'affermazione del principio di tassatività anche dei regolamenti? Il principio di apertura delle fonti secondarie con riferimento ai regolamenti potrebbe però essere oggetto di una riconsiderazione, alla luce dell' art 117, comma 6, Cost, introdotto dalla l. cost 3/2001, che fissa il riparto di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali a livello infralegislativo («la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite») . Tale disposizione sembra implicare un'esigenza di tipizzazione del potere regolamentare. In effetti, non sembra azzardata la tesi secondo cui tale disposizione, avendo costituzionalizzato il riparto delle fonti regolamentari immediatamente dopo quello della legge, avrebbe in qualche misura limitato la disponibilità delle fonti secondarie per il legislatore ordinario, nel senso, cioè, che le fonti immediatamente subordinate alle leggi dovrebbero essere ricondotte ai regolamenti (statali, regionali, o locali, a seconda delle rispettive competenze). Di conseguenza, la nota distinzione tra tassatività-chiusura delle fonti primarie e libertà-apertura delle fonti secondarie sarebbe ormai superata. Certamente, si tratta di una tesi non priva di obiezioni, nella misura in cui fa discendere da una disposizione costituzionale sul riparto delle competenze regolamentari conseguenze ulteriori. Troverebbe maggiore possibilità di successo nella prassi l'orientamento secondo cui la Corte costituzionale potrebbe valutare la costituzionalità di nuove leggi sull'attività del Governo che fondino nuove fonti normative secondarie, allo scopo di impedire che esse sconvolgano il sistema della produzione normativa, costituzionalmente previsto o presupposto. Secondo una diversa interpretazione, la necessità, discendente dall' art. 117, comma 6 Cost, di superare l'indifferenza nell'uso dello strumento regolamentare ed amministrativo discenderebbe dal parallelismo tra potestà normativa primaria e secondaria di cui allo stesso art 117 Cost e dal ridimensionamento del parallelismo tra poteri normativi e poteri amministrativi di cui all'art 118 Cost. 2.3 Le fonti del diritto come materia legislativamente regolabile? Le lacune e le ambiguità del testo costituzionale sono state colmate attraverso una serie di interventi da parte del legislatore ordinario: nell'assenza di interventi organici a livello costituzionale si è provveduto a più riprese a tentativi di razionalizzazione del sistema delle fonti attraverso fonti infracostituzionali, talvolta intervenute anticipando o facendo seguito a progettazioni istituzionali di più ampia portata. Questa crescente importanza assunta dalla legislazione ordinaria sulle fonti (quasi una sorta di normazione "materialmente" costituzionale) ha posto il problema del regime giuridico della stessa. In effetti, come si è detto, la legislazione sulle fonti, sul piano logico, appare sovraordinata rispetto agli atti che essa disciplina. Ma questa gerarchia logica è in questo caso anche una gerarchia formale, cosicché si può parlare di una sovraordinazione anche in termini giuridici della legislazione in questione? Il problema non si pone se la fonte primaria in questione disciplini fonti subordinate: così, un regolamento governativo non può violare quanto disposto dall'art 17 della l. 400/1988 innanzitutto per il rango gerarchico superiore di esso; similmente un regolamento governativo non può contenere disposizioni retroattive, stante quanto disposto dall'art 11 delle preleggi al codice civile che si impone a tutte le fonti secondarie per il suo rango gerarchico superiore (le preleggi hanno rango legislativo e non costituzionale). Viceversa, il problema si pone nel caso in cui una fonte primaria sulla produzione si riferisca ad atti normativi formalmente equiordinati (si pensi agli artt. 14 ss, l. 400/1988). In sintesi, appare corretto il rilievo secondo il quale la gerarchia logica che sussiste tra fonti sulla produzione e fonti prodotte in base alle prime deve essere tenuta distinta dalla gerarchia formale cosicché la prima può essere ritenuta operante anche in deroga alla seconda «ove non risulti chiaramente un'incompatibilità del risultato che ne deriva con una statuizione derivante da una fonte di grado superiore» (Pizzorusso). Non sembra avere riscontri nella prassi la tesi dottrinale che riconosce alle leggi in questione una particolare collocazione nel sistema delle fonti, cosicché esse potrebbero essere modificate o abrogate in via legislativa ma solo in modo espresso, senza poter essere occasionalmente derogate; né, d'altra parte, ha avuto successo l’opposta tesi per cui le disposizioni legislative in questione, in quanto chiamate a disciplinare una materia tipicamente costituzionale, sarebbero di per sé incostituzionali. La prassi sembra invece avere dimostrato l'intrinseca "fragilità" delle disposizioni in esame che, proprio perché contenute in una mera legge ordinaria, hanno dimostrato una scarsa capacità di imporsi ad atti equiordinati successivi, salvo quelle che appaiono meramente ripetitive di disposizioni costituzionali o esplicative di limiti costituzionalmente deducibili (si pensi all'art. 15, comma 2, l. 400/1988, laddove vieta al decreto legge di conferire deleghe legislative). Certo, ove non espressamente o implicitamente derogate, le disposizioni in questione si impongono agli atti che esse intendono regolare. Eppure, nonostante la fragilità delle fonti infracostituzionali sulla produzione normativa, anche la prassi recente sembra valorizzarle: un esempio è dato dalla legge di semplificazione per il 2001 che ha previsto una delega legislativa in materia di riassetto «delle disposizioni statali di natura legislativa vigenti in materia di produzione normativa, semplificazione e qualità della regolazione». Tale delega è apparsa discutibile e non solo perché non efficacemente limitata da principi e criteri direttivi, in violazione dell' art. 76 Cost. In effetti se è vero che nel nostro ordinamento manca una disciplina organica sulle fonti normative, è pur vero che essa, se contenuta in una fonte primaria, è incapace, per sua natura, di resistere a deroghe introdotte anche occasionalmente dal legislatore successivo: anziché quindi scegliere la più corretta (anche se più complessa) strada di un disegno di legge costituzionale sulla disciplina delle fonti normative o, quantomeno, di un disegno di legge organica "coperto" da una disposizione costituzionale, il legislatore sembra continuare a legittimare, razionalizzandole, le disposizioni legislative in materia di produzione normativa, che pure, come si è detto, hanno dato pessima prova di loro stesse, soprattutto nel più recente periodo. Da lungo tempo è sembrato essenziale un percorso di riforma destinato ad "ampliare" il tessuto costituzionale relativo alle fonti o, quantomeno, a offrire una idonea "copertura costituzionale" ad una o più leggi organiche sulla produzione normativa (De Siervo). Proprio la prospettiva dell'introduzione anche nel nostro ordinamento della categoria delle leggi organiche, ben conosciuta in altri ordinamenti costituzionali, appare da questo punto di vista assai interessante. Evidentemente, solo attraverso l'introduzione di questa fonte potrebbe essere possibile sottrarre le leggi ordinarie sulla produzione normativa, ma più in generale le leggi ordinarie aventi un particolare rilievo istituzionale, alla loro modifica, più o meno casuale, da parte del legislatore successivo, ovvero alla loro deroga tacita. Sinteticamente, le caratteristiche essenziali di tali fonti dovrebbero essere le seguenti: a) si dovrebbe trattare di fonti oggettivamente finalizzate alla «specificazione-attuazione a prima battuta di principi costituzionali o di regole qualificanti l'organizzazione di vertice dell'apparato statale»; b) il procedimento di adozione dovrebbe essere più aggravato rispetto a quello previsto per le leggi ordinarie (per garantire il coinvolgimento delle minoranze parlamentari, trattandosi di fonti attuative del dettato costituzionale); conseguentemente, le leggi ordinarie che intendessero disciplinare oggetti rimessi ad una legge organica dovrebbero risultare incostituzionali; c) tali fonti dovrebbero caratterizzarsi per un nomen iuris distinto da quello delle leggi (in definitiva, quindi, poiché le fonti in questione sarebbero individuate in ragione dell'oggetto ad esse rimesso, il loro rapporto con le leggi ordinarie sarebbe inquadrato alla luce del principio di competenza e non già di quello di gerarchia). 2.4 Gli elementi identificativi delle fonti Il contenuto delle fonti normative è costituito da norme giuridiche, cioè da regole di comportamento dotate dall'ordinamento di una certa forza giuridica. Peraltro, proprio perché si parla di regole dell'ordinamento pubblico, e dato il loro notevole numero e la diversità dei loro regimi giuridici, ci si è posti e ci si pone tuttora l'interrogativo se esistano elementi oggettivamente distintivi fra le norme e gli altri atti giuridici posti in essere dai pubblici poteri. Da ciò due possibili ulteriori conseguenze: se l'eventuale insussistenza di questi elementi in atti, pur adottati nella forma prescritta per le fonti giuridiche, possa impedire di far assumere ai loro contenuti la forza giuridica tipica delle norme giuridiche; se la presenza delle suddette caratteristiche in un atto pubblico imponga di farlo adottare mediante una fonte giuridica. Per quanto riguarda le fonti primarie, già in epoca statutaria l'identificazione delle fonti normative seguiva criteri formali, ovvero, in primo luogo, la denominazione ufficiale dell'atto, il procedimento di formazione, il regime che si instaura in conseguenza della pubblicazione. Anche dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana le fonti di rango costituzionale e le fonti primarie sono state identificate mediante criteri formali. Se per la legge costituzionale e la legge ordinaria il criterio dell'autoqualificazione si è imposto da subito, i decreti legge ed i decreti legislativi venivano pubblicati come "Decreti del Presidente della Repubblica", al pari dei regolamenti governativi e di numerosi atti amministrativi. Solo la l.400/1988 ha fatto definitivamente chiarezza, imponendo per entrambe le fonti l'autoqualificazione. Viceversa, i regolamenti governativi sono ancora pubblicati con il nomen iuris "Decreto del Presidente della Repubblica" e quelli ministeriali con la denominazione "Decreto del Ministro" ma debbono recare nel titolo la denominazione di "regolamento". Si dimostra così l'assoluta prevalenza nel nostro ordinamento dei criteri formali. Peraltro, occorre chiarire che la "forma" a cui ci si riferisce equivale all'attestazione che l'atto è il frutto di un procedimento disciplinato da una fonte superiore e posto in essere da organi a ciò abilitati, in quanto dotati di particolare rappresentatività. Quindi, se non esistono elementi di autoqualificazione o se addirittura l’atto è stato reso efficace mediante un atto non specifico della singola fonte, occorre riferirsi al soggetto ed alla procedura utilizzata per la sua adozione. Sono quindi utili a tal fine le norme che prescrivono le formule di promulgazione o di emanazione delle fonti e poi la loro pubblicazione, o quelle relative alle diverse competenze deliberative dei diversi organi coinvolti. Quale sia il tipo di fonte posto in essere serve perché a seconda della natura della fonte, muta il regime giuridico specifico, gli eventuali vizi sostanziali o procedimentali, la sua efficacia; mutano anche gli organi giurisdizionali a cui ricorrere per denunciare l'eventuale illegittimità della norma. Il fatto di essere un determinato tipo di atto normativo produce, infatti, una molteplicità di conseguenze per le numerose disposizioni costituzionali od ordinarie che fanno dipendere da queste qualificazioni e regimi giuridici diversi. Laddove una fonte possa essere individuata mediante criteri formali, essa deve essere trattata come tale, a prescindere dai suoi contenuti tipici. Opinione diffusa nel nostro ordinamento è che le norme giuridiche debbano possedere sul piano contenutistico i requisiti della generalità (non aprioristica determinatezza dei destinatari), dell' astrattezza (ripetibilità della sua applicazione nel tempo), della innovatività (idoneità a modificare il preesistente sistema normativa), dell'efficacia erga omnes. Tuttavia una legislazione poco generale ed astratta si è venuta moltiplicando soprattutto nell'epoca contemporanea, caratterizzata da molteplici interventi normativi alquanto puntuali nei diversi settori sociali ed economici. Ma quando si può affermare che una fonte non possiede nessuna di queste caratteristiche (le leggi provvedimento non posseggono i requisiti della generalità e dell' astrattezza, poiché hanno un contenuto corrispondente a quello di un provvedimento amministrativo)? Si è sostenuto che la legge sarebbe allora illegittima costituzionalmente quanto meno per violazione del principio di eguaglianza e per l'effetto derogatorio che produrrebbe rispetto alle forme di tutela giurisdizionale che sono previste nei riguardi degli atti amministrativi. Questa tesi radicale non è stata peraltro accolta in toto dalla Corte costituzionale e dalla maggioranza degli studiosi, perché si riconosce che nel nostro sistema costituzionale prevale il criterio della attribuzione della forza giuridica tipica a tutti gli atti adottati con la procedura e la forma prescritte per le fonti del diritto, salvo che si violi con ciò una anche per le accennate difficoltà di distinguere in concreto gli atti normativi dagli atti amministrativi generali e per una prassi che, soprattutto per certi profili, appare ancora. Nel periodo recente si è assistito ad un’espansione soprattutto di alcuni atti, quali le direttive e le ordinanze in deroga alla legge che sembrano avere contenuto normativo. In più abbiamo le circolari che in alcuni casi sono chiamate espressamente dalle leggi a disciplinare le disposizioni attuative. Dovremmo quindi dubitare della legittimità di atti normativi del Governo o di singoli ministri, che però non sono regolamenti perché adottati senza il rispetto delle prescrizioni della l.400/1988. Tuttavia sono numerosi i casi in cui il legislatore autorizza l’adozione di decreti ministeriali attribuendo ad essi natura delegificante. È un fenomeno non ancora condannato dalla Corte Costituzionale, che però ha definito anomalo o indefinibile il carattere di tali fonti. Gli atti di natura non regolamentare, comunque, non possono costituire la via per alterare il riparto tra stato e regioni. In più la prassi mostra numerosi casi di atti sostanzialmente normativi prodotti da Comitati interministeriali: anche questa è una tipologia estranea alla l.400/1988. Nonostante che la dottrina abbia dubitato della legittimità di tali atti e delle leggi che li autorizzano, ritenendo che «spetterebbe pur sempre alla Corte costituzionale valutare simili vicende, impedendo che esse sconvolgano il sistema della produzione normativa, costituzionalmente previsto o presupposto» (Paladin), essi si stanno ormai radicando nell’ordinamento. Un’interpretazione dell’art 117, comma 6 cost, diretta a dedurre la necessità di una tipizzazione della fonte regolamentare (interpretazione che attualmente però non ha conforto nella giurisprudenza costituzionale), potrebbe contribuire a condannare definitivamente i fenomeni in questione. 2.7. Le conseguenze della qualificazione di un atto come norma giuridica Un problema rilevante è se la qualificazione di un atto come fonte del diritto produca conseguenze sul piano giuridico. L'opinione prevalente è che queste conseguenze vi siano e che quindi si possa parlare di un regime giuridico tipico dell'intero sistema delle fonti, tale a differenziarle dagli altri atti giuridici; regime tipico, dal quale si deduce la preminenza delle fonti normative rispetto agli altri atti giuridici. Che tale preminenza abbia un valore garantistico è dimostrato dal fatto che proprio negli ordinamenti totalitari, si afferma il principio per cui ogni atto può dirsi normativo purché ispirato dal fine politico dello Stato. Le conseguenze della qualificazione di un atto come fonte normativa possono essere sintetizzate: A) Solo la violazione, diretta o indiretta, di norme giuridiche può integrare l'elemento formale dell'illecito, nella sua più ampia accezione di fatto contrario al diritto; non è antigiuridica, di per sé, la violazione del dispositivo di una sentenza o di un provvedimento amministrativo. B) Il principio di legalità nella pubblica amministrazione e cioè il primato delle norme legislative e regolamentari sui provvedimenti amministrativi, sancito dalla Costituzione, implica la supremazia delle fonti del diritto sull'attività non normativa dell'amministrazione. Tale principio è desumibile anche a livello di legislazione ordinaria: così, se già il r.d. 1054/1924 affermava la sindacabilità da parte degli organi della giurisdizione amministrativa degli atti amministrativi invalidi per violazione di legge (da intendersi come anche alle altre fonti del diritto) e per incompetenza (desumibile da leggi o, sulla base di queste, da fonti secondarie), la l. 241/1990 ribadisce, sul piano sostanziale, l'annullabilità del provvedimento amministrativo «in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza». C) L'art. 113, comma 1, c.p.c. che impone al giudice di seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità, fissa il principio di legalità delle decisioni giudiziarie, ovvero l'obbligo per l'autorità giudiziaria di decidere applicando regole desumibili dall'insieme delle fonti normative e non solo dalle leggi ordinarie. Similmente, l'art. 101, comma 1, Cost., che sancisce la soggezione del giudice alla legge, secondo la dottrina maggioritaria, allude all'insieme delle fonti normative. Certo, mentre la soggezione rispetto alle fonti primarie preclude al giudice la loro diretta disapplicazione, ove incostituzionali (un' eccezione è costituita dal potere dei giudici di disapplicare norme interne anche di rango primario che contrastino con il diritto comunitario), i regolamenti sono applicati in sede processuale solo in quanto siano legittimi. Corollario del principio di legalità delle decisioni giudiziarie è la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, che allude all' obbligo di individuazione, applicazione e interpretazione delle norme applicate nel giudizio. D) Corollario di questi principi è la previsione del ricorso in Cassazione per violazione di legge contro le sentenze, garantito dall' art. 111, comma 7, Cost e specificata nei codici di rito. Anche la previsione in questione deve essere intesa in senso ampio, come riferita, cioè, non solo alle violazioni delle sole leggi formali. La stessa funzione nomofilattica riconosciuta alla Corte di cassazione anche in forza dell'art. 111, comma 7, Cost, è da intendersi riferita ad assicurare l’esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, comprensiva quindi non delle sole fonti primarie. E) Per almeno larga parte delle fonti sussiste l'antico principio per il quale iura novit curia, secondo il quale i magistrati sono tenuti a conoscere e ad applicare le fonti, senza che le parti debbano farsi parte diligente a farle conoscere. Sul punto sono da segnalare alcune fonti escluse dal principio, come i regolamenti degli enti locali, e le consuetudini, in ordine alle quali l’art 9, disp. prel. cc., prevede una sorta di presunzione iuris tantum di esistenza per quelle pubblicate «nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati». Per le altre, è pacifico l’onere per la parte che le allega di provarne l'esistenza anche con riferimento all'elemento dell'opinio iuris ac necessitatis. In ordine alle consuetudini, la giurisprudenza anche recente sembra ritenere operante il principio iura novit curia solo per i giudici di merito, e non già per la Cassazione; diversamente per gli statuti comunali, rispetto ai quali il dovere di conoscenza del giudice non incontra eccezione di sorta. Una disciplina. particolare riguarda l'applicazione delle leggi straniere nell’ambito del diritto Internazionale privato. Si afferma l’applicazione del principio iura novit curia «l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice», che a questo scopo «può avvalersi, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del Ministero di grazia e giustizia; può altresì interpellare esperti o istituzioni specializzate». In tal modo, la legge straniera è inserita nell' ordinamento interno ed è conseguentemente assoggettata al trattamento processuale proprio delle norme giuridiche cosicché, ad esempio, è ammissibile il ricorso in Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di legge In caso di errore nell’applicazione del diritto straniero. Solo qualora il giudice non riesca ad accertare la legge straniera indicata, neanche con l'aiuto delle parti, applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana. Invece in precedenza trovava applicazione il principio secondo cui, qualora una parte invocasse in suo favore l’applicazione di una legge straniera, la stessa era tenuta ad Indicare quale fosse e ad attivarsi per fornire tutta la documentazione in modo da porre il giudice nella condizione di formare il proprio convincimento in ordine all'applicazione della diversa disciplina; era tenuto altresì a dimostrare che la legge straniera avesse contenuti diversi rispetto a quelle italiane. F) I criteri di interpretazione delle fonti sono diversi da quelli ordinariamente seguiti per l'interpretazione degli altri atti giuridici. Questi sono essenzialmente diversi sia da quelli applicabili agli atti amministrativi, sia da quelli posti dal codice civile per i contratti: così, mentre per gli atti amministrativi, in assenza di regole espresse, ci si basa sui dati testuali, integrati dalla volontà dell'autore e dagli altri atti, preparatori, concomitanti e anche successivi, posti in essere dallo stesso, per i contratti le disposizioni del codice civile privilegiano la comune intenzione delle parti, per determinare la quale si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto. Viceversa, per quanto riguarda gli atti normativi, un'importanza centrale è da riconoscere all'interpretazione sistematica. Una parte della dottrina (Zagrebelsky) ha però contestato che la categoria delle fonti del diritto abbia un carattere normativo ritenendo che essa rilevi solo sul piano scientifico. Tuttavia, la tesi maggioritaria è da preferire, sia perché le fonti normative e il loro prodotto costituiscono comunque una realtà unitaria a sé stante, sia perché le eccezioni alle regole sopra enunciate non sono tali da smentire le regole stesse «un principio o una serie di principi non cessano di essere tali, qualora derogati in casi particolari, intrinsecamente insuscettibili di ricadere nelle logiche informatrici di essi» (Paladin). CAPITOLO 3 I RAPPORTI TRA LE FONTI 3.1 La successione delle fonti nel tempo: l’abrogazione Problematiche relative ai criteri di sistemazione delle fonti: prima dell'entrata in vigore della Costituzione il sistema era relativamente semplice per l'assoluta centralità e rilevanza della legge statale e degli atti aventi forza di legge, e quindi per la tendenziale applicazione del criterio cronologico. La scelta per un sistema costituzionale rigido e la previsione di molteplici fonti differenziate ed aventi diverse sfere di competenza impone invece l'utilizzazione di una serie di criteri ordinatori del sistema delle fonti (criterio cronologico, gerarchico, della competenza), per individuare la forza giuridica ed i reciproci rapporti fra le diverse fonti. Anche all'interno dei diversi sistemi normativi sorti ai diversi livelli (Stato, Regioni, Enti locali, ecc) le relazioni fra le diverse fonti continuano ancora ad essere disciplinate dai criteri prima indicati. Il primo è quello della successione delle fonti nel tempo, un criterio almeno in apparenza semplice, dal momento che è fondato - in una situazione di parità fra le fonti interessate o di superiorità della fonte abrogante rispetto alla fonte abrogata - sulla inesauribilità dei vari poteri normativi riconosciuti dall'ordinamento. L'effetto abrogativo consiste nel venir meno dell'efficacia della norma rispetto alle situazioni che ancora devono verificarsi ad iniziare dal momento dell'entrata in vigore del diverso esercizio del potere normativo, mentre, l'efficacia della norma abrogata permane per i rapporti verificatisi in precedenza (si ha quindi un'efficacia ex nunc dell'abrogazione, mentre, come si dirà, l'effetto dell'annullamento per illegittimità o per incostituzionalità opera ex tunc). Quindi la norma abrogata continuerà legittimamente ad esistere e ad essere applicata per quelle situazioni che si sono prodotte prima dell'abrogazione (in ipotesi essa potrà quindi essere oggetto anche di un giudizio di costituzionalità). Ovviamente il legislatore abrogante può anche decidere di dare effetto retro attivo all'abrogazione, ma in questa ipotesi si ricade nella problematica più generale delle leggi retroattive. L'istituto dell'abrogazione è sostanzialmente presupposto dalla Costituzione, che vi accenna in modo esplicito solo in riferimento all'art. 75 (<<Referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge»), mentre l'art. 15 delle disposizioni preliminari al Codice civile non fa altro che descrivere i tipi di abrogazione logicamente possibili. Si distinguono, infatti, tre tipi di abrogazione: l'abrogazione espressa, che si ha per dichiarazione espressa del legislatore che determina la nuova disciplina (o per decreto dichiarativo del Presidente della Repubblica nel caso di esito positivo di un referendum abrogativo), l'abrogazione tacita, che consegue all'adozione di una nuova disciplina incompatibile con la precedente, l'abrogazione implicita, che consegue ad una complessiva riforma della materia entro cui era la disposizione originaria, pur in assenza di una puntuale disciplina difforme. Sono evidenti i notevoli vantaggi dell'abrogazione espressa, poiché con essa anzitutto il legislatore è stimolato a prendere precisa consapevolezza dell'impatto della nuova normazione e poi si esclude la necessità di processi interpretativi e le possibili conseguenti incertezze. Certo però essa deve essere fatta in modo assai accurato e completo, salvo far nasce-re più complessi problemi interpretativi: infatti, in presenza di un errore per difetto in un'abrogazione espressa, si avrebbe una sorta di presunzione di vigenza del testo non abrogato espressamente e si potrebbe giungere a sostenere la presenza di un'abrogazione tacita solo in modo più arduo. Se poi si avesse un'abrogazione errata per eccesso, non vi potrebbero essere rimedi in via interpretativa, ma occorrerebbe attendere la correzione dell'errore da parte del legislatore. In ogni caso, sarebbe certamente auspicabile una vasta utilizzazione dell'abrogazione espressa ed anche la formazione di prassi opportune negli organi normativi per usare normalmente questo tipo di abrogazione. Infatti, totalmente inutile è la cosiddetta abrogazione innominata, non di rado utilizzata dal legislatore: La Corte costituzionale a partire dalla sent 376/2002, ha in questi casi optato per l'applicazione del principio di continuità, cioè ha inteso applicare rigorosamente il principio tempus regit actum, accettando di pronunziarsi solo con riferimento al parametro costituzionale vigente all'epoca del completamento del procedimento di formazione dell' atto impugnato. Secondo la Corte il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni può venire in rilievo solo quando le norme impugnate siano state adottate nell'ambito di quel riparto: in caso contrario, la strada per far valere le competenze "nuove" non sarebbe quindi quella del ricorso alla Corte, ma invece, più semplicemente, la relativa attivazione, ovvero il concreto esercizio da parte dei soggetti forniti di competenza nell'ambito del citato nuovo riparto (l'esito del giudizio, quindi, «non pregiudica l'ambito delle competenze rispettivamente dello stato e della Regione», in quanto l'eventuale lesione del nuovo riparto di competenze potrà essere fatto valere con un nuovo ricorso alla Corte). Questa giurisprudenza è stata oggetto di critiche. Innanzitutto, con la scelta di giudicare solo sulla base del vecchio parametro costituzionale ormai venuto meno, la Corte avrebbe lasciato aperta la porta alla possibilità che continuino a sopravvivere nell'ordinamento norme non più costituzionalmente legittime (in quanto adottate da soggetti non più competenti) o, al contrario, vengano caducate norme che sarebbero legittime alla luce del nuovo riparto (in quanto adottate dal soggetto divenuto competente) ma che non lo erano alla luce del parametro ormai venuto meno; il tutto con l'ulteriore conseguenza per cui le stesse disposizioni giudicate sulla base del vecchio riparto delle competenze nell'ambito di giudizi in via di azione, dovrebbero necessariamente essere giudicate con riferimento al nuovo quadro costituzionale nell'ambito di un giudizio incidentale. La sopravvenienza del parametro costituzionale è ovviamente un fenomeno poco frequente: ed infatti non è facile trovare precedenti al problema sopra prospettato, se non proprio nel dibattito che ha accompagnato la prima giurisprudenza della Corte costituzionale, relativamente al regime della legislazione precedente all'entrata in vigore della Costituzione. Come è stato da più parti rilevato, il vizio di incompetenza normativa può essere considerata sia vizio formale, in quanto si risolve in violazione di norme sulla produzione, sia vizio materiale, poiché l'atto emanato in sua violazione ha un contenuto che non può disciplinare. Peraltro, anche nella dottrina più recente sembra prevalere l'opinione che configura l'incompetenza come vizio formale, e quindi giustifica un'applicazione piena del principio tempus regit actum, accreditato dalla Corte costituzionale. Si fa però osservare, da un lato, che la riforma del Titolo V avrebbe dovuto indurre il giudice costituzionale ad utilizzare fin da subito il nuovo parametro in tutte le controversie e, non avendo il riparto delle competenze solo un aspetto formale, il relativo vizio comporta l'attribuzione di competenze altrui, mostrando quindi la natura di vizio materiale. La Corte costituzionale sembra però abbracciare, per il vizio di incompetenza, la natura di vizio formale, e ciò giustifica l'affermazione della relativa continuità delle leggi previgenti, fino a che i soggetti competenti non si "approprino" della nuova competenza: ciò implica evidentemente che per le norme aventi ad oggetto la competenza un problema di incostituzionalità sopravvenuta non si pone neppure. 3.4 La specialità come criterio che esclude l’abrogazione Esistono ipotesi nelle quali non può legittimamente verificarsi l'abrogazione: se è in gioco una fonte gerarchicamente superiore; se la fonte interessata, pur di pari livello gerarchico, è una fonte a competenza riservata; nel rapporto fra una fonte generale successiva rispetto ad una precedente legge speciale. In tutti questi casi è pertanto decisiva l'attività interpretativa ed in caso di conflitto intervengono le autorità giurisdizionali competenti. Lex posterior generalis non derogat priori speciali: alcuni lo vedono come un vero e proprio criterio ordinatore delle fonti. La Corte costituzionale ha escluso che esso abbia un rango costituzionale e può non trovare applicazione nei casi in cui la ratio della legge generale posteriore sia chiaramente quella di abrogare anche la legge speciale pregressa. La specialità però si atteggia assai diversamente dagli altri criteri ordinatori, nel senso che, mentre l'applicazione di questi ultimi conduce all'eliminazione di un atto (la fonte precedente, in caso di applicazione dell'abrogazione; la fonte di rango inferiore, in caso di applicazione del criterio cronologico; la fonte incompetente in caso di applicazione del principio di competenza) in favore di un altro, l'applicazione della specialità porta ad un esito diverso, nel rispetto della contemporanea vigenza di due atti (o di due disposizioni) giacché la specialità presuppone due atti (o due disposizioni) di cui uno comprende concettualmente l'altro. L'applicazione della specialità presuppone l'impossibilità di risolvere l'antinomia utilizzando gli altri criteri ordinatori. 3.5 segue: abrogazione e figure analoghe Deroga interviene quando si prevede, con una nuova disposizione, un’eccezione alla disposizione già in vigore sulla stessa materia: la disposizione derogata, quindi, non perde vigenza ma vede limitata la propria sfera di applicabilità. In questo senso, si può affermare che solo una regola generale può essere derogata, mentre l'abrogazione può colpire qualunque tipo di disposizione. La deroga può così riferirsi o ai soggetti cui si riferisce la disposizione da derogare, o alle circostanze in presenza delle quali la norma produce effetti o allo spazio geografico di applicazione o, infine, all'intervallo temporale entro cui la norma produce effetti. Qualora la deroga sia successivamente eliminata, l'originaria disposizione riespande in toto la sua efficacia, salvo che il legislatore successivo non disponga diversamente. Problematica è invece l'ipotesi in cui la norma generale sia successiva a quella eccezionale in quanto è necessaria un'attenta ricostruzione della ratio legis, potendosi sostenere in astratto sia che la nuova fonte, in quanto generale, abbia voluto espungere le eccezioni, sia, al contrario, che essa, non avendo disciplinato espressamente i propri rapporti con le fonti precedenti, abbia voluto mantenerle in vigore. Proroga interviene sui limiti temporali di applicazione di una disposizione, ovvero quando i termini di vigenza della disposizione non sono scaduti; viceversa, quando i termini sono scaduti si ha il differimento. Da un punto di vista tecnico, il differimento presuppone una qualche retroattività della disposizione, per poter coprire il periodo rimasto scoperto, a meno che non si tratti di un termine posto al Governo per l'emanazione di un atto. Il differimento può incontrare, pertanto, tutte le obiezioni di carattere generale in tema di retroattività delle fonti, e quelle connesse della certezza del diritto e della tutela dell'affidamento. Le disposizioni di differimento dovrebbero rendere chiara e trasparente la ratio che le giustifica. Sospensione interviene sull'applicazione di un atto o di una disposizione per un periodo determinato nel quale essi non sono efficaci. La sospensione produce la ripresa automatica di efficacia dell'atto sospeso una volta decorso il termine, non essendo necessaria una nuova dichiarazione di volontà; la permanenza in vigore dell'atto sospeso, che non potrà essere applicato proprio perché sospeso ma che continua a far parte del sistema. La sospensione si differenzia dalla deroga in quanto è comunque soggetta ad un termine, mentre la deroga è tendenzialmente a tempo indeterminato. La sospensione è disposta con un atto normativo idoneo. Diversa è la sospensione che può essere disposta da organi giurisdizionali chiamati a sindacare la legittimità di un atto normativo. Così, la l. 131/2003 prevede il potere di sospensiva delle leggi statali e delle leggi regionali in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale, affidato, come potere di ufficio, alla Corte costituzionale. Si tratta di un istituto sviluppatosi soprattutto in coincidenza col fatto che il controllo sulle leggi regionali da preventivo è diventato successivo. La sospensione è possibile in presenza di determinati presupposti, ossia quando ci sia il rischio di un irreparabile pregiudizio per l'interesse pubblico o per l'ordinamento giuridico della Repubblica o un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini. In caso di sospensione della legge statale o regionale si abbreviano i tempi della decisione della Corte: trenta giorni dalla sospensione per l'udienza di discussione e nei quindici giorni successivi il deposito del dispositivo. 3.6 La reviviscenza (cenni) Con la reviviscenza una disposizione abrogata riacquista la propria vigenza. La reviviscenza è istituto alquanto problematico: in linea di principio, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza tendono ad escludere che l'abrogazione di una norma abrogatrice costituisca reviviscenza, salvo che il legislatore non disponga espressamente in questo senso. Per far rivivere una disposizione non è sufficiente abrogare la disposizione abrogatrice ma sarebbe opportuno che il legislatore specificasse espressamente tale intento, abrogando la norma abrogatrice e richiamando esplicitamente la norma abrogata o, più semplicemente, abrogando la norma abrogatrice e riproducendo quella già oggetto di abrogazione. In ogni caso, la reviviscenza ha effetto ex nunc. Peraltro, quantomeno nel caso di norma meramente abrogatrice di una norma meramente abrogatrice, senza alcuna nuova disciplina, sembra difficile negare che si produca reviviscenza, dato che la prima sarebbe altrimenti, per così dire, inutiliter data. Viceversa nel caso di abrogazione tacita di una norma tacitamente abrogatrice non produce reviviscenza nella misura in cui, in questo caso, si ha la sostituzione di una nuova disciplina a quella previgente (che a sua volta sostituiva una disciplina ancora anteriore). Infine, in caso di annullamento di una norma abrogatrice, in linea di principio riacquistano efficacia le norme abrogate dalle disposizioni dichiarate incostituzionali. 3.7 Il principio di irretroattività Art 11 disposizioni preliminari al Codice civile «la legge non dispone che per l'avvenire : essa non ha effetto retroattivo». Il problema di garantire l'irretroattività si sposta a quei settori nei quali una disciplina irretroattiva sarebbe lesiva di specifici interessi. D'altra parte, anche prima della Costituzione, lo stesso art 11 era spesso contraddetto da leggi retroattive mentre, in quanto ritenuto principio fondamentale, vincolava il potere normativo secondario. Molto più rispettato era, invece, l'art 2, co1 del cp (“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”). Nella disciplina costituzionale consapevolmente non si è affermato in generale il principio della irretroattività delle norme, mentre una sola disposizione, art 25, co2, Cost, prescrive esplicitamente che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Le recenti sentt. 393 e 394/2006 hanno precisato che tale disposizione sancisce il divieto di disposizioni incriminatrici in peius ma non fonda, al contrario, l'ammissibilità di leggi retroattive in melius: la retroattività della norma più favorevole infatti «non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l'ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l'autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo» (sent. 394/2006). Il fondamento costituzionale del principio di retroattività in melius è rinvenibile nel principio di eguaglianza «che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto l'abolitio criminis o la modifica mitigatrice». Tuttavia, il fondamento costituzionale nel principio di eguaglianza fa sì che siano ammissibili «deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli»; deroghe, però, che la Corte è chiamata a valutare con rigore «non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole», dato che la retroattività in melius è principio comunque codificato in norme internazionali relative ai diritti fondamentali (art. 15 Patto internazionale sui diritti civili e politici) ed è stato riconosciuto dalla CGCE come principio fondamentale desumibile dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri (è stato codificato anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). La giurisprudenza costituzionale ed ordinaria sembrano concordare sul fatto che il principio di irretroattività sia un principio legislativo e non costituzionale, di modo che una legge od un atto con forza di legge può legittimamente derogarvi, salvo che in materia penale e a meno che vengano in gioco interessi puntualmente tutelati in Costituzione: in materia tributaria, in cui pur è possibile una legislazione retroattiva, va però tutelato il principio di attualità della capacità contributiva deducibile dall' art 53 Cost; ove venga in gioco una "cosa giudicata". è obiettato innanzitutto che essa presupporrebbe una sorta di generale riserva di legge relativa, che non renderebbe ragione dei casi puntuali di riserva di legge relativa previsti dalla Costituzione (Mortati). Come è stato sottolineato, «l'eguaglianza e l'imparzialità dell' amministrazione, la "raffrontabilità" e dunque l'effettiva giustiziabilità degli atti amministrativi, sono valori che non richiedono necessariamente una previa disciplina di legge, ma si prestano a esser tutelati da previe norme, sia pure sublegislative» (Paladin). Però, la Corte costituzionale sembra comunque non accontentarsi del rispetto della sola legalità formale: da un lato, infatti, spesso ha richiesto al legislatore di porre quantomeno un inizio di disciplina ma dall'altro, nella recente sent 307/2003, è sembrata muoversi nell'ottica della legalità sostanziale, laddove ha censurato una disposizione di una legge regionale che si era limitata ad autorizzare l'adozione di un regolamento, individuandone il solo oggetto. L’assetto della forma di governo parlamentare vede nella legge una fonte sovraordinata in tanto in quanto promana dall'unico organo direttamente legittimato dal corpo elettorale «i regolamenti [... ] possono presentarsi unicamente come proseguimento del processo di integrazione politica dopo la legge, nei casi e limiti da questa determinati» (Zagrebelsky). Corollario del principio di legalità è il principio di preferenza della legge, che sancisce la prevalenza della legge sul regolamento, nel senso che la disciplina regolamentare è in ogni caso e sempre "disponibile" per il legislatore e, viceversa, la disciplina legislativa è indisponibile per la fonte regolamentare. La preferenza della legge fa sì che ogni caso di contrasto tra legge e regolamento debba essere risolto con l'invalidità del secondo. Il fondamento di questo principio è rinvenuto nel combinato disposto degli artt. 70, 76 e 77 Cost e, ancora una volta, nel principio di "chiusura" delle fonti primarie. Tra legalità e preferenza della legge vi è un rapporto di complementarietà. 3.10 Principio di legalità e principio di costituzionalità (cenni) «l'estensione del principio di legalità al livello costituzionale si presenta come un completamento che deriva dalla crisi del principio di legalità tradizionale, della legge come parametro stabile di validità della variabile attività amministrativa. Se anche per la legge si richiede oggi una misura di validità è perché essa, nelle condizioni materiali odierne, non è più idonea a svolgere la funzione di un tempo» (Zagrebelsky). Il rapporto fra le fonti costituzionali e quelle primarie è analogo, ma non eguale, a quello fra fonti primarie e fonti secondarie: solo di rado si ha una vera e propria puntuale disciplina costituzionale riferibile ad una fonte primaria, mentre spesso il legislatore ordinario è largamente libero o vincolato solo in parte dalla disciplina costituzionale, mentre i regolamenti hanno comunemente un rapporto di accentuata dipendenza dalla legge che li prevede. La Costituzione è un limite esterno della legge, per cui il potere legislativo è un potere "libero nel fine" e, fino a quando non incontra limiti costituzionali, non è un potere di esecuzione della Costituzione nel senso proprio della parola, salvo eccezioni limitate - casi in cui la Costituzione condiziona la validità di certe leggi alla loro corrispondenza a certi fini o contenuti positivamente determinati (Zagrebelsky). L’attuazione della Costituzione è una delle missioni principali del legislatore ordinario ma ciò non significa che ogni legge sia attuativa della Carta fondamentale. Solo la legge esprime un potere normativo ordinario, mentre la Costituzione è espressione di un potere per sua essenza straordinario. La sovraordinazione del principio di costituzionalità rispetto a quello di legalità ha poi una proiezione processuale: mentre le leggi e gli atti con forza di legge sono sindacate, nel caso di vizi di costituzionalità, dalla Corte costituzionale (art. 134 Cost.), le fonti secondarie contrastanti con fonti di rango superiore (in ipotesi, anche con la Costituzione) sono invece soggette al sindacato del giudice amministrativo o a quello del giudice ordinario (che invece ha solo la possibilità di disapplicarle). 3.11 La riserva di legge La riserva di legge ricorre in tutti i casi in cui la Costituzione impone che la disciplina di un determinato ambito materiale sia demandata alla legge, escludendo, in tutto o in parte, le fonti secondarie. La ratio della riserva di legge è quella per cui l'attuazione della Costituzione, e in specie la disciplina dei diritti di libertà e delle sue limitazioni, è demandata alla fonte promanante dal Parlamento e quindi dall'unico organo costituzionale avente una diretta legittimazione democratica che vede in esso, oltre alla maggioranza, anche le minoranze. La legge, per sua natura, nasce quindi nel contraddittorio delle diverse posizioni politiche rappresentate in Parlamento, attraverso un procedimento caratterizzato in ogni fase da pubblicità. Ma ancora, la riserva di legge è, nella giurisprudenza costituzionale, chiamata a perseguire esigenze di eguaglianza e di garanzia giurisdizionale dei diritti. Con l'avvento della Costituzione repubblicana la riserva di legge non presenta più solo un aspetto negativo, consistente nel divieto di intervento nelle materie riservate delle fonti infralegislative, ma anche un aspetto positivo, consistente nell'obbligo per il Parlamento di disciplinare le materie stesse, dato che questo compito non è surrogabile, nemmeno temporaneamente, da fonti inferiori. La giurisprudenza ormai costante della Corte costituzionale ammette la possibilità che le materie riservate siano disciplinate, oltre che dalle leggi del Parlamento, anche da atti con forza di legge del Governo. In effetti, se per i decreti legislativi l'intervento del Parlamento si pone "a monte", attraverso la legge di delega, per quanto riguarda la decretazione d'urgenza, la legge interviene solo "a valle", in sede di conversione. In quest'ultimo caso, quindi, una materia riservata può essere disciplinata fino a sessanta giorni da un atto del Governo, così da vanificare, sia pure temporaneamente, le esigenze garantistiche tipiche dell'istituto in esame; né l'eventuale, mancata conversione del decreto vale a ripristinare del tutto l'ordine fisiologico delle competenze, dati i possibili, inevitabili effetti irreversibili del decreto stesso. La Corte costituzionale ammette che una materia coperta da riserva di legge possa essere legittimamente disciplinata da norme comunitarie (sent. 383/1998). Tradizionalmente, la riserva di legge è distinta in assoluta, quando essa non lascia alcuno spazio alle fonti secondarie (tranne forse, il caso di regolamenti di mera esecuzione) e in relativa nei casi in cui la legge può limitarsi a fissare criteri, limiti e controlli sufficienti a delimitare l'ambito di discrezionalità dell'amministrazione, o, quantomeno, nei casi in cui la concreta entità della prestazione imposta sia chiaramente desumibile dagli interventi legislativi che riguardano l'attività dell' amministrazione. Per le riserve assolute la Costituzione usa locuzioni assai stringenti, quali <<nei casi e modi previsti dalla legge» (art. 13, comma 2), per le riserve relative essa utilizza termini che lasciano intuire, anche in relazione all'oggetto, una minore determinatezza dei contenuti della legge (<<in base alla legge»: art. 23 Cost.; «secondo disposizioni di legge»: art. 97, co1, Cost.). In ogni caso, è da sottolineare che la riserva relativa esprime una facoltà del legislatore che ben potrebbe anche disciplinare la materia per intero, senza lasciare cioè alcuno spazio alle fonti inferiori. Non è invece un limite per il legislatore, giacché tale tesi presupporrebbe, accanto ad una riserva di legge, una riserva di regolamento che invece è estranea al nostro ordinamento. La Corte costituzionale ha sempre negato la sussistenza di una "riserva di amministrazione". La giurisprudenza costituzionale ha altresì affermato l'esistenza di riserve di legge implicite, in particolare a proposito della conformazione dell'iniziativa economica privata agli interessi pubblici menzionati nell'art. 41, comma 2, Cost (sent. 4/1962). Le riserve di legge, assolute e relative, sono definite rinforzate nei casi in cui la disposizione costituzionale predetermina, in parte, i contenuti o i fini della legge: si pensi all'art. 10, comma 2, che demanda la disciplina della condizione giuridica dello straniero alla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Eccezionalmente, l'attuazione della Costituzione passa anche attraverso la legge costituzionale (art. 96; art. 116, comma 1; art. 132, comma 1; art. 137, comma 1). In linea di principio, la ratio delle riserve di legge costituzionale è quella di evitare l'arbitrio della maggioranza ed anzi, da questo punto di vista, tale riserva, pur presentando il rischio di "irrigidire" la disciplina della materia, realizza pienamente la funzione, propria della riserva di legge, di limite alla maggioranza e di tutela delle minoranze. La ratio comune delle riserve di legge costituzionale è quella garantistica, le singole fattispecie rispondono anche ad esigenze diverse: consentire deroghe a quanto previsto in generale dalle disposizioni costituzionali, in altri casi, la riserva presuppone un intervento limitatamente "correttivo" del testo costituzionale, in altri casi, la legge costituzionale appare una sorta di "integrazione" o addirittura di "prolungamento" del testo costituzionale. Le leggi costituzionali sono quindi annoverabili tra le "altre leggi costituzionali" di cui all' art. 138 Cost, anche se probabilmente non ne esauriscono la categoria. 3.12 La cd riserva di legge formale Diversi dalle riserve di legge sono i casi delle c.d. riserve di legge formale nei quali è precluso, oltre che l'intervento del potere regolamentare, anche quello degli atti con forza di legge del Governo. La ratio di questi casi è però del tutto diversa da quella delle riserve di legge: in effetti, la limitazione alle sole leggi del Parlamento si spiega con il fatto che la riserva di legge formale allude a casi in cui il contenuto della legge è, almeno in linea di principio, di autorizzazione o di approvazione, cosicché l'eventuale intervento degli atti con forza di legge altererebbe quella alterità istituzionale, in questi casi da ritenere indispensabile, data la necessaria diversità tra il soggetto autorizzante e il soggetto autorizzato. I casi di riserva di legge formale sono i seguenti: a) delega legislativa al Governo b) conversione dei decreti legge (art. 77, comma 2, Cost.); c) sanatoria dei decreti legge (art. 77, comma 3, Cost.); d) deliberazione dello stato di guerra e conferimento al Governo dei poteri necessari (art. 78 Cost.); e) autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali (art. 80 Cost.); f) approvazione del bilancio preventivo e consuntivo ed autorizzazione all'esercizio provvisorio (art. 81, commi 1 e 2, Cost.). Non è quindi sostenibile che il fondamento della riserva di legge formale sia costituito dall'art. 72, comma 4, Cost che individua i disegni di legge per i quali è necessaria l'approvazione con il procedimento normale. 3.13 Il criterio della competenza Il criterio della competenza nel rapporto fra le fonti è tipicamente connesso alle Costituzioni lunghe e rigide, nelle quali si cerca di costruire fonti specializzate a competenza riservata di soggetti o di organi e mediante procedure diverse da quelle caratteristiche nel sistema gerarchico (Costituzione, legge, regolamento): si pensi, solo per accennare all'esempio quantitativamente più rilevante, alla convivenza di leggi e regolamenti statali e regionali (per non parlare dei regolamenti degli enti locali) dotati ormai di forza giuridica equivalente, a differenza che nel passato, allorché ad esempio i regolamenti governativi prevalevano su ogni altro tipo di regolamento amministrativo di altre autorità. Ma si pensi pure alle maggioranze particolari richieste per l'adozione di determinate leggi, o alle varie procedure aggravate al fine di permettere la particolare partecipazione di organi o soggetti ad alcune particolari procedure normative. Anche nei rapporti fra decreto legge e legge di conversione, come fra decreto legislativo e legge di delega o come nell' ambito della potestà legislativa regionale di tipo concorrente, emergono profili di competenza da rispettare in adempimento di quanto disciplinato negli artt 76, 77 e 117, comma 3, Cost. Da un punto di vista storico, l'affermazione del principio di competenza ha significato un ridimensionamento della legge statale, giacché ogni competenza normativa nuova è una relativizzazione del potere potenziale della legge, spesso nella logica della valorizzazione delle autonomie (territoriali o sociali) (Zagrebelsky). La fonte tradizionale di ogni livello gerarchico, pur ormai priva della competenza generale, anzitutto è la fonte competente ad intervenire nelle moltissime materie "residuali" e cioè in tutte le materie non assegnate alle fonti speciali. In una prima accezione vera e propria, il principio del riparto di competenza affida il potere normativo, in determinati settori, ad organi diversi da quelli che normalmente ne sarebbero titolari (si pensi agli statuti ed alle leggi delle Regioni) o instaura procedimenti nei quali devono necessariamente intervenire, in posizione di codecisione, anche soggetti diversi dal soggetto titolare del relativo potere normativo (norme di attuazione degli statuti speciali nella cui formazione devono intervenire commissioni miste tra Stato e Regione interessata). sono state apportate deroghe all'art. 138 Cost.; ebbene, tali fonti sono state adottate proprio ai sensi dell'art. 138 Cost (e non avrebbe potuto essere diversamente). Non è detto che la disciplina del procedimento di formazione di un atto normativo sia rinvenibile in un'unica fonte, potendo essere ripartita tra due o più fonti anche di rango diverso: così, solo per citare un esempio, la disciplina del procedimento legislativo è contenuta negli artt. 70 ss. Cost., ma, per quanto riguarda la fase deliberativa, l’art. 72 Cost rinvia, come è noto, ai regolamenti parlamentari, ponendo solo la disciplina apicale, mentre la disciplina della promulgazione e della pubblicazione è contenuta in atti con forza di legge (l. 839/1984; d.lgs. 1092/1985). Vi sono poi ipotesi in cui il procedimento di adozione delle fonti interne è, per così dire, condizionato ed integrato dal diritto comunitario: così, ad esempio, l'art. 88, par. 3, Trattato CE, in materia di aiuti di Stato, prevede l'obbligo di comunicazione alla Commissione dei progetti di atti anche normativi diretti a istituire o modificare aiuti. Se ritiene che il progetto sia incompatibile con il mercato comune, la Commissione inizia senza indugio una procedura di contestazione e lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle misure progettate prima che tale procedura abbia condotto ad una decisione finale. Il mancato rispetto dell'onere di preventiva comunicazione alla Commissione costituisce di per sé motivo di illegittimità insanabile dell'aiuto previsto, quand'anche l'aiuto stesso fosse compatibile con la disciplina comunitaria. È stato giustamente osservato che la compatibilità di queste previsioni con la Costituzione appare in qualche misura problematica laddove si ritenga che l'allocazione della funzione legislativa alle Camere costituisca un principio supremo dell'ordinamento costituzionale e, quindi, uno dei controlimiti all' efficacia delle norme comunitarie: e ciò non tanto in astratto (la prevalenza del diritto comunitario dovrebbe escludere una tale tesi) quanto per il fatto, come si è accennato, che la giurisprudenza della Corte di giustizia considera il mancato rispetto dell'obbligo di comunicazione o di differimento del tutto assimilabile a quello dell' approvazione di norme contrastanti con il diritto comunitario, anche se, in ipotesi questo contrasto in effetti non sussistesse: i giudici sono quindi tenuti a disapplicare queste norme e regole, a prescindere dal loro contrasto con il diritto comunitario. Tali forme di condizionamento sono ormai recepite anche negli statuti regionali. 4.2 Le singole fasi del procedimento Tradizionalmente, avendo di mira in particolare il procedimento di formazione della legge, la scansione procedimentale viene distinta in quattro fasi: a) iniziativa; b) fase preparatoria; c) fase deliberativa; d) fase integrativa dell'efficacia. Si tratta di una sequenza solo tendenziale, nel senso che per alcuni tipi di atti possono mancare la fase a) e la fase b) (si pensi al procedimento di formazione di atti di autorità monocratiche). Per tutte le fonti invece è essenziale la fase deliberativa (ovviamente) e quella integrativa dell'efficacia, quantomeno nella forma della pubblicazione legale. Tutto ciò non significa però che l'iniziativa e la fase preparatoria debbano essere espunte in generale dalla nozione di procedimento; perché per alcune fonti l'iniziativa è espressamente disciplinata e ciò dà luogo a due conseguenze diverse: l'atto non può che derivare da una iniziativa valida e, d'altra parte, l'atto di iniziativa non ha senso se non entro il procedimento. Anche la fase preparatoria deve essere tenuta distinta laddove in alcuni casi è espressamente disciplinata come fase autonoma con propri effetti giuridici. L’iniziativa e la fase preparatoria nel procedimento legislativo sono caratterizzate da una integrale pubblicità garantita dagli atti parlamentari. Viceversa, per quanto attiene alle fonti secondarie del Governo, nessuna pubblicità è garantita prima della pubblicazione degli atti sulla Gazzetta Ufficiale. Così, nel procedimento di formazione dei regolamenti della Banca d'Italia, della Consob, dell'Isvap e della Covip, l'art. 23 della l. 262/2005 impone che queste autorità tengano conto del principio di proporzionalità e, a questo fine, esse sono tenute a consultare, prima dell'adozione degli atti, gli organismi rappresentativi dei soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori. All'interno di ognuna delle fasi del procedimento di formazione dell'atto vi possono essere ulteriori scansioni che finiscono per arricchirlo o complicarlo. In alcuni casi, esse sono necessarie, in altri casi solo eventuali (così, il referendum all'interno del procedimento di formazione delle leggi costituzionali o degli statuti ordinari). Nel procedimento di formazione dell'atto, il cui completamento produce: a) l'immodificabilità del testo approvato (salvo l'eventuale riesame a seguito dell' eventuale fase successiva di controllo che potrebbe determinare l'espunsione di alcune disposizioni o il riesame dell' atto; b) la sua irretrattabilità anche da parte del soggetto decidente; c) l'obbligatorietà di tutte le fasi successive nel procedimento di formazione dell'atto. Nel procedimento di approvazione delle leggi, la fase di deliberazione parlamentare si conclude con il coordinamento del testo: sul punto, l'art. 90 del regolamento della Camera prevede che, prima della votazione finale della proposta di legge, il Comitato dei nove o il Governo possano richiamare l'attenzione dell'Assemblea sulle correzioni di forma che essa richiede e proporre le conseguenti modificazioni, che sono sottoposte alla deliberazione della Camera. L'assemblea può, se occorre, autorizzare il Presidente al coordinamento finale del testo. Più articolata è la disciplina contenuta nel regolamento del Senato: prima della votazione finale di un disegno di legge, il Presidente, il rappresentante del Governo o ciascun senatore possono richiamare l'attenzione dell'assemblea sopra le correzioni di forma e le modificazioni di coordinamento che appaiano opportune, nonché sopra quelle disposizioni già approvate che sembrino in contrasto tra loro o inconciliabili con lo scopo della legge e formulare le conseguenti proposte. Qualora, a tali fini, sia richiesto che il Senato rinvii la votazione finale ad una successiva seduta ed incarichi la Commissione di merito di presentare le opportune proposte, l'assemblea delibera per alzata di mano senza discussione. Indipendentemente da questi atti di impulso, quando nel testo di legge siano stati introdotti molteplici emendamenti, la votazione finale è differita alla seduta successiva, per consentire alla Commissione ed al Governo di presentare le proposte di correzione; tuttavia, in casi di particolare urgenza, il Presidente, apprezzate le Circostanze, ha facoltà di rinviare la votazione stessa ad una successiva fase della medesima seduta. La Commissione, nel termine fissato, presenta all'assemblea le proprie proposte, accompagnate, se necessario, da una successiva relazione. Sulle proposte in questione può intervenire non più di un oratore per ciascun gruppo parlamentare e la votazione ha luogo per alzata di mano. L'insieme delle disposizioni sopra riportate si applica anche nei casi di coordinamento in Commissione del testo dei disegni di legge discussi in sede deliberante. Per quanto concerne i disegni di legge esaminati in sede referente o redigente il coordinamento avviene, di norma, nella seduta successiva a quella nella quale la Commissione ha completato l'esame degli articoli e, in ogni caso, prima della designazione del Senatore incaricato di riferire all'Assemblea. Problematiche: da un lato, questa fase risulta essenziale ai fini della qualità del testo normativo, che in ipotesi potrebbe presentare problemi molto seri a causa di un'attività emendativa rilevante e, magari, caotica. Peraltro, l'aspetto forse più delicato di questa fase è che non sempre è facile distinguere un'attività di coordinamento di carattere formale (e quindi, per così dire, di carattere "tecnico") da interventi che finiscono per essere modificativi in senso sostanziale del testo approvato. Alcune notazioni debbono essere introdotte a proposito della fase integrativa dell'efficacia che, come si è accennato, è la fase che intercorre tra la deliberazione del contenuto normativo e l'entrata in vigore. Anche questa fase non è comune a tutti gli atti (tranne, come si dirà, quella della pubblicazione), presentandosi anzi differenze anche molto significative tra le singole fonti. Innanzitutto, alcune fonti presentano una diversificazione tra i soggetti competenti alla deliberazione e quelli competenti a dichiarare l'avvenuta deliberazione: è il caso delle leggi (costituzionali e ordinarie; statali e regionali) soggette alla promulgazione (art. 74 e 121, comma 4, Cost.) e degli atti normativi del Governo, soggetti all'emanazione (art. 87, comma 5, Cost.). Da questo punto di vista, proprio riguardo alla promulgazione, la dottrina si è divisa tra quanti ritengono che essa attenga all'integrazione dell'efficacia della legge, al pari della pubblicazione, ovvero alla parte terminale della fase deliberativa, come è sostenuto da quanti negano che la promulgazione consista in una funzione di controllo (che, secondo questa tesi, avviene in sede di promulgazione, attraverso il rinvio alle Camere, essendo però concettualmente distinta da essa), consistendo piuttosto nella solenne attestazione e documentazione della volontà del Parlamento (non a caso, la data della legge è quella della promulgazione). L'art. 73 Cost prevede che le leggi siano promulgate entro un mese dall'approvazione (comma 1) ma, se le Camere, a maggioranza assoluta dei componenti, ne dichiarano l'urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito (comma 2). Nella fase integrativa dell'efficacia è previsto talvolta un momento di controllo preventivo, affidato, naturalmente, ad un'autorità diversa da quella che ha deliberato l'atto: così, per le leggi ordinarie, il rinvio con richiesta di riesame da parte del Capo dello Stato (art. 74 Cost.); per gli statuti ordinari delle Regioni, l'impugnazione preventiva del Governo dinanzi alla Corte costituzionale; per i regolamenti governativi, dopo l'emanazione, e per i regolamenti ministeriali, dopo la loro adozione, il controllo da parte della Corte dei conti. 4.3 La pubblicazione delle fonti Assolutamente essenziale è la pubblicazione dell'atto normativo giacché da un lato essa costituisce condizione necessaria per l'esistenza dell' atto come normativo, e, dall' altro, fissa il testo ufficiale dell’atto perché tale è solo quello legalmente pubblicato. Dalla data della pubblicazione parte il calcolo della data da cui le fonti avranno efficacia giuridica. Una volta intervenuta questa pubblicazione, sussiste una presunzione assoluta di conoscenza del testo. L’antica regola secondo la quale ignorantia legis non excusat che fissa il principio secondo cui le norme, una volta entrate in vigore, devono essere comunque rispettate dai loro destinatari ha subito una solo parziale riduzione ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, che ha escluso la responsabilità penale nel caso di "ignoranza inevitabile" dell'atto. La Costituzione si occupa della pubblicazione delle leggi statali (disponendo che essa avvenga subito dopo la promulgazione: ar.t. 73, co3), e di quelle regionali, la cui disciplina è demandata agli statuti ordinari (art. 123, comma 1). La Gazzetta ufficiale della Repubblica, pubblica non solo gli atti normativi statali e quelli autonomi di organi costituzionali (ad esempio, i regolamenti parlamentari), ma anche le sentenze della Corte Cost (art 136 Cost.). Inoltre ripubblica gli atti normativi comunitari e quelli regionali (altre pubblicazioni ufficiali sono, per le rispettive fonti, la Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea ed i Bollettini ufficiali delle Regioni e delle Province autonome). Con la legge 839/1984 (rifluita in un apposito testo unico: d.lgs. 1092/1985) sono state aggiornate le formule di promulgazione delle leggi e di emanazione dei decreti presidenziali; al tempo stesso sono state indicate alcune possibili forme di documentazione da allegare ad alcuni testi pubblicati (il contenuto dei rinvii ad altre fonti, gli estremi degli atti parlamentari relativi alla elaborazione delle leggi) e alcuni possibili casi di ripubblicazione con effetto solo notiziale (i testi coordinati fra decreto legge e legge di conversione, i testi aggiornati fra un testo base e fonti successive che abbiano introdotto complesse modificazioni, i testi accompagnati da note esplicative delle diverse materie trattate quando vi sia stata una legge caratterizzata da articoli formati da moltissimi commi su oggetti eterogenei). In linea generale, le leggi sono pubblicate non oltre trenta giorni dalla promulgazione; gli atti aventi forza di legge dopo che sia stato apposto il "visto" da parte del Ministro della giustizia e del sigillo dello Stato; i regolamenti governativi e ministeriali subito dopo la registrazione da parte della Corte dei conti. Le novità più rilevanti apportate dal d.lgs. 1092/1985 sono due: si identificano tutte le categorie degli atti normativi statali da pubblicare, che sono elencati dall'art. 15, comma 1, del d.lgs. 1092/1985. Oltre alle leggi costituzionali, alle leggi ordinarie, agli atti con forza di legge, si parla di decreti del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio, dei Ministri, dei Comitati interministeriali «che siano strettamente necessari per l'applicazione di atti con forza di legge e che abbiano contenuto normativo»; quest'ultima categoria viene specificata da appositi decreti. Gli atti normativi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale vengono ripubblicati nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica. La pubblicazione è subordinata, dopo la promulgazione o l'emanazione dell'atto ad una verifica da parte del Ministro della giustizia, che può anche sospendere l'apposizione del visto e del sigillo dello Stato, ove incontri «qualche difficoltà riguardo alla forma esteriore della legge ovvero al tenore del decreto». In A tali fini, nel titolo dell'atto dovrebbe essere esplicitato l'oggetto principale dell'atto normativo e dovrebbero essere sconsigliate espressioni generiche o i c.d. titoli muti (come, ad esempio, "Modifiche all'art. x della legge xy"). Inoltre, il titolo: a) dovrebbe risultare sufficientemente rappresentativo dell'oggetto della regolamentazione, al fine di conseguire omnicomprensività e coerenza tra titolo e testo; b) dovrebbe contenere le stesse parole che si ritrovano nell'articolato; c) nel caso di una legge di modifica di un'altra legge, dovrebbe essere ripreso il titolo stesso della legge modificata; d) dovrebbe essere, per quanto possibile, politicamente neutro. Di fatto nella prassi queste direttive appaiono spesso, in tutto ci in parte, disattese. Diversamente da quanto avviene in altri ordinamenti, il titolo non è normalmente oggetto di approvazione parlamentare e ciò per una consuetudine ormai risalente: infatti esso, quale risulta dalla proposta di legge o quale risulta dalle modifiche da parte della Commissione parlamentare, si intende tacitamente approvato, salvo che vi sia espressa richiesta in senso contrario (il titolo è comunque variato laddove gli emendamenti alla proposta di legge incidano sui contenuti della stessa) - se il titolo è modificato in un ramo del Parlamento con un'espressa votazione, ciò comporta la navette. Peraltro, nulla impedisce (e meno che mai l'art. 72 Cost.) che anche il titolo, per la sua intrinseca rilevanza, possa essere oggetto di votazione e di attività emendativa da parte del Parlamento. È comunque da sottolineare che il titolo è formalmente parte del testo della legge e non può quindi essere modificato o alterato in sede di pubblicazione. Riguardo al valore giuridico del titolo, in caso di contrasto con l'articolato, la giurisprudenza ritiene prevalente quest'ultimo e solo in caso di dubbio interpretativo delle disposizioni il primo può essere utilizzato nella ricostruzione dell'esatto significato. Più in particolare, la giurisprudenza costituzionale esclude che la qualificazione del contenuto di una legge recata dal titolo vincoli l'interprete, dovendosi invece procedere all'interpretazione del testo della stessa. li titolo assolve ad una funzione particolare nei decreti legge: sul punto l'art. 15, comma 4, della l. 400/1988 afferma che essi «devono contenere misure di immediata applicazione ed il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». Si tratta di una previsione dettata allo scopo di contenere un' attività emendativa estranea alla materia del decreto ma nella prassi essa è stata sistematicamente aggirata, in primo luogo, da una prassi che vede titoli di decreti legge alquanto generici o ambigui. Eppure, il titolo, nonché, come si dirà, la motivazione delle circostanze di necessità e urgenza che legittimano l'intervento normativo, assurge ad una rilevanza importante ai fini del sindacato della Corte costituzionale sulla sussistenza dei presupposti costituzionali del decreto-legge: la presenza o meno dei requisiti della straordinarietà dei casi di necessità ed urgenza di provvedere è accertata alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci delle disposizioni impugnate e tra queste il titolo e il preambolo assurgono a elementi che la Corte valuta al fine di verificare la congruenza delle disposizioni stesse con la materia regolata dal decreto. 4.6 Il preambolo e la questione della motivazione degli atti normativi Il preambolo è costituito da quella parte dell'atto normativo che precede l'articolato e la cui funzione è quella di individuare i presupposti normativi, i presupposti di fatto e le fasi procedurali che ne hanno accompagnato l'adozione. Per comprendere la rilevanza del preambolo, occorre preliminarmente distinguere tra giustificazione e motivazione: la prima allude all'indicazione dei presupposti di fatto e di diritto a fondamento dell'atto normativo; la seconda attiene invece ai fini, agli obiettivi ed ai risultati che l'autore dell'atto si propone di conseguire con l'adozione dello stesso. In termini formali, si distinguono i "visto" e i "considerando". I primi consistono nei riferimenti ai testi normativi che costituiscono il fondamento di legittimità dell'atto normativo, nonché nei riferimenti alle fasi essenziali del procedimento di formazione; i secondi sono costituiti dalle motivazioni o dalle finalità dell'atto. Ad esempio, le leggi non hanno né giustificazione né motivazione, mentre, per quanto riguarda le leggi costituzionali, il d.PR. 1092/1985 impone che nel preambolo sia dato conto della maggioranza con le quali sono state approvate in seconda votazione nonché delle vicende relative al referendum oppositivo (se è stato richiesto, se è stato dichiarato illegittimo dall'Ufficio centrale per il referendum, se è stato celebrato ed ha avuto esito positivo). Diversa è la disciplina per quanto riguarda gli atti normativi del Governo: i decreti legislativi (art. 14, comma 1,1. 400/1988) ed i regolamenti statali e regionali nel preambolo recano l'indicazione (talvolta anche sovrabbondante) del fondamento legislativo nonché degli atti normativi rilevanti nella materia cui essi hanno riguardo. L'indicazione delle norme di rango superiore che attribuiscono il potere esercitato con il provvedimento normativo. Successivamente sono indicate, in ordine cronologico crescente, le disposizioni comunque interferenti nella regolamentazione della materia. Debbono, infine, essere indicati gli adempimenti dell'istruttoria prevista per l'emanazione dell'atto. Gli atti istruttori, in particolare i pareri, sono indicati secondo l'ordine cronologico. Sempre nel preambolo debbono essere menzionati eventuali concerti e intese, intendendo con i primi la concorde manifestazione di volontà tra più soggetti pubblici appartenenti allo stesso ente e con i secondi la concorde manifestazione di volontà tra soggetti appartenenti ad enti diversi. Infine, nella premessa deve essere indicata la determinazione conclusiva (in genere la deliberazione del Consiglio dei Ministri) e la formula, diversa a seconda del tipo di atto, che introduce l'articolato. La regola generale, a tale scopo, è che sia usata l'espressione "emana" quando l'atto è di un'autorità diversa da quella che ha predisposto l'atto, "adotta" quando l'autorità è la stessa. Per quanto riguarda i regolamenti, nel preambolo è motivata sinteticamente la mancata adesione al parere del Consiglio di Stato. Una previsione particolare è prevista per i decreti legge. Sul punto, l'art. 15 della l.400/1988 impone che essi nel preambolo debbano indicare le «circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l'adozione», ma tale previsione, come si è detto rilevante anche nell'ottica del sindacato della Corte costituzionale, è stata mortificata da una prassi normativa che vede tale giustificazione ridotta ad una mera trasposizione del titolo del decreto legge. Quindi il preambolo non è parte necessaria dell'atto e i suoi contenuti sono parzialmente diversi a seconda delle fonti. Il tema dei contenuti del preambolo richiama la più generale problematica della motivazione dell'atto normativo. Fino ad alcuni importanti recenti sviluppi normativi, era requisito tipico degli atti normativi l'assenza di motivazione. Ragioni storiche spiegano l'assenza della motivazione negli atti normativi e, in specie nelle leggi: per quanto riguarda i presupposti di diritto, il Parlamento, titolare della funzione legislativa, non dovrebbe essere tenuto ogni volta a indicare il fondamento del suo potere, che del resto è sempre il medesimo; per quanto riguarda i presupposti di fatto, il Parlamento è politicamente libero di intervenire o non intervenire; per quanto riguarda il procedimento, vale il principio degli interna corporis; per quanto riguarda i motivi, o questi sono incorporati come rationes legis nel corpo degli articoli, o, altrimenti sono ritenuti irrilevanti, in quanto riconducibili a quella sfera di discrezionalità sottratta a forme di sindacato ab externo. L'introduzione della rigidità costituzionale, che ha ridotto drasticamente la c.d. "sovranità del Parlamento", il ridimensionamento degli interna corporis nella giurisprudenza costituzionale (a partire già dalla sent 9/1959), il sindacato di ragionevolezza sulle leggi ad opera della Corte costituzionale sono tre fattori (e non i soli) che ridimensionano la portata dei fattori ora menzionati. Viceversa, l'introduzione della motivazione appare quantomai opportuna per diversi motivi. In primo luogo, l'inversione del criterio di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione, sembra rendere necessaria l'espressa indicazione del titolo in base al quale la legge interviene e l'individuazione della relativa base giuridica. Ancora, l'introduzione della motivazione si rivelerebbe utile, per quanto attiene sia alle leggi statali che alle leggi regionali, anche nell'ottica dell'art 118 Cost., che, come è noto, codifica i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza quali criteri di attribuzione delle funzioni amministrative: in questo senso, come è stato osservato, la motivazione consentirebbe di capire perché il legislatore regionale ha ritenuto non applicabile la regola generale dell' allocazione delle funzioni amministrative ai Comuni e, prima, alle autonomie funzionali o sociali. Ma ancora, anche al di là dei rapporti tra Stato e sistema delle autonomie territoriali e sociali, l'introduzione della motivazione sarebbe essenziale anche nell'ottica del sindacato sulla ragionevolezza delle leggi che proprio nella motivazione troverebbe un elemento importante per limitare la discrezionalità della Corte costituzionale in questo ambito. Infine, l'introduzione della motivazione appare utile anche nell'ottica della qualità della normazione, nell'ottica, cioè, della verifica dell' efficacia degli atti normativi: come è stato efficacemente sottolineato, «se, come sembra l'Air serve ad acquisire maggiori elementi conoscitivi prima di decidere, l'esplicitazione in legge dei motivi che hanno spinto il legislatore a cambiare le regole consente di verificare se l'Air è stata di fatto svolta, qual è stato il suo grado di approfondimento e, inoltre, agevola la successiva valutazione della conformità degli effetti prodotti rispetto a quelli sperati e quindi l'utilità delle c.d. clausole valutative e, più in generale, della valutazione di impatto della regolamentazione» (Carli). Ciò detto, è però innegabile che l'introduzione della motivazione è destinata a comportare anche una serie di inconvenienti e problemi non piccoli, individuabili nei seguenti: a) la problematica individuazione dei soggetti incaricati dell' elaborazione della motivazione, essendo ben diverso che si tratti di tecnici o di politici; b) la qualità delle motivazioni; c) l'intensità del vincolo che le motivazioni stesse pongono all'interprete; d) le conseguenze di eventuali incongruenze tra motivazione dell'atto e contenuto dell'articolato; e) l'emendabilità della motivazione. Si tratta però di inconvenienti e di problemi non tali da impedire l'eventuale introduzione della motivazione degli atti normativi (del resto in linea con quanto è previsto nell'ordinamento comunitario). Alcune recenti novità. La Corte costituzionale (sent. 379/2004) ammette espressamente che gli statuti regionali possano imporre la motivazione degli atti normativi. A livello statale, la recente l. 262/2005 ha imposto la motivazione con riferimento ai poteri normativi delle autorità indipendenti operanti nell'ambito dell'economia e della finanza e della Banca d'Italia (art. 23, comma 1). Non è un caso che proprio con riferimento agli atti di queste autorità il legislatore statale abbia rinnegato del tutto la tradizionale assenza di motivazione; tale innovazione deve essere messa in relazione con l'assenza di legittimazione democratica che caratterizza queste autorità. Il tema della motivazione degli atti normativi è destinato a conoscere ulteriori sviluppi. 4.7 Le partizioni del testo normativo: la scansione in articoli Riguardo alla necessità della scansione in articoli, il riferimento costituzionale più immediato è dato dall'art. 72, comma 1, Cost il quale prevede che «ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale». Tale disposizione ha una valenza fondamentale che va al di là dello stesso ambito del procedimento legislativo: tale disposizione, infatti, costituzionalizza il principio secondo cui di regola gli atti normativi debbono essere scanditi in articoli, con la conseguenza ulteriore per cui «non può essere trattato come atto normativo (o è addirittura del tutto illegittimo) quell'atto che, pur avendo contenuto normativo, non è stato diviso in articoli». L'unità di base dell'atto normativo è data dall'articolo, le cui disposizioni dovrebbero avere una propria autonomia concettuale alla luce del criterio della progressione logica degli argomenti trattati. In realtà, nella prassi sono frequenti leggi composte di articoli lunghissimi, dovuti al sempre più frequente ricorso all'approvazione delle proposte di legge attraverso l'utilizzazione della questione di fiducia su maxi- emendamenti. Il caso più eclatante è costituito dalle più recenti leggi finanziarie, costituite da un solo articolo e da centinaia di commi. Nonostante che anche il Capo dello Stato abbia più volte criticato questo modo di procedere, questo non si è affatto arrestato. Tali abnormi conglomerati normativi sono il frutto della non rara utilizzazione, a fini antiostruzionistici, della questione di fiducia, nell'esame parlamentare di questo tipo di leggi: dal momento che la fiducia deve essere posta su singoli articoli, per ridurre il numero delle questioni di fiducia, moltissime distinte disposizioni vengono trasformate in altrettanti commi di pochi lunghissimi articoli che disciplinano gli oggetti più diversi. Queste pronunce sono interpretate nel senso che il tema della qualità della normazione attenga alla stessa forma di Stato, nella misura in cui l'oscurità del testo normativo mette in discussione l'essenza stessa dello stato di diritto. Nello stesso senso, si possono ricordare anche alcuni rinvii presidenziali relativi a disegni di legge censurati anche per violazione della buona tecniche legislativa. Nel marzo 2002, il Presidente della Repubblica aveva rinviato una delibera legislativa di conversione di un decreto legge che aveva ampiamente modificato il decreto stesso, determinando «uno stravolgimento dell’istituto del decreto-legge non conforme al principio consacrato nel ricordato articolo 77 della Costituzione e alle norme dettate in proposito dalla legge n. 400 del 1988 che, pur essendo una legge ordinaria, ha valore ordinamentale in quanto è preposta all' ordinato impiego della decretazione d'urgenza e deve quindi essere, del pari, rigorosamente rispettata». Nonostante ciò, l'attenzione alle problematiche della qualità della normazione è piuttosto recente e non sembra ancora essersi sufficientemente radicata. Eppure, qualche importante novità deve essere sottolineata: a livello statale, alcune importanti novità sono state introdotte nelle modifiche del regolamento interno della Camera dei deputati approvate nel 1997, tra le quali la costituzione del Comitato per la legislazione, una speciale snella commissione paritetica fra i gruppi parlamentari della maggioranza di governo e dell'opposizione, incaricata di molteplici funzioni di tipo consultivo, indirizzate alle Commissioni permanenti ed all'assemblea plenaria, proprio al fine di migliorare la qualità normativa e la sua conformità alle disposizioni sulla produzione normativa. Successivamente, si debbono ricordare la l. 50/1999 con la quale si è previsto, tra l'altro, l'avvio, a titolo sperimentale, dell'analisi di impatto della regolamentazione (Air) in relazione agli atti normativi del Governo e, da ultimo, la l. 246/2005 (legge di semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005). Si prevedono la conclusione di accordi tra Governo nazionale, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano «per il perseguimento delle comuni finalità di miglioramento della qualità normativa». In attuazione di tale previsione, è stato concluso nel marzo 2007 un apposito «accordo tra Governo, Regioni e Autonomie locali in materia di semplificazione e miglioramento della qualità della regolamentazione». Infine, nel periodo più recente, si segnala la costituzione di strutture specificamente dedicate al tema della qualità della normazione quali il Comitato interministeriale, chiamato a elaborare ogni anno un apposito piano di azione per il perseguimento degli obiettivi del Governo in tema di semplificazione, riassetto e qualità della regolazione per l'anno successivo, avendo altresì il compito di verificare lo stato di realizzazione degli obiettivi e di svolgere funzioni di indirizzo, coordinamento, e, ove necessario, di impulso delle amministrazioni dello Stato nelle politiche di semplificazione, riassetto e qualità della regolazione. Presso la Presidenza del Consiglio è stata, altresì, istituita una unità per la semplificazione e la qualità per la regolazione, di cui fa parte il capo del dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio. Da ultimo, del Governo Berlusconi III, faceva parte un Ministro senza portafoglio per la semplificazione normativa. Questi era delegato ad esercitare le funzioni di coordinamento, di indirizzo, di promozione di iniziative, anche normative, di vigilanza e di verifica, nonché ogni altra funzione attribuita dalle vigenti disposizioni al Presidente del Consiglio, relative alla semplificazione normativa. A livello regionale, è da sottolineare che quasi tutti i nuovi statuti orDinari recepiscono principi, più o meno dettagliati, in tema di qualità della normazione; principi che però, in molti casi, attendono ancora un'adeguata attuazione a livello di legislazione ordinaria e di regolamenti interni dei Consigli regionali. Le tecniche legislative possono essere distinte in vari gruppi che in questa sede possono essere ricostruite solo in estrema sintesi. A) Un primo livello attiene a quell'insieme di regole finalizzate alla buona redazione del testo normativo, dal punto di vista del linguaggio e della redazione del testo normativo. In questo gruppo rientrano innanzitutto le regole di drafting, ovvero quelle finalizzate alla redazione tecnica dei testi normativi, a cominciare dal complesso di regole stilistiche e grafiche necessarie per una corretta redazione degli atti normativi. Le regole di drafting non pongono rimedio alla cattiva legislazione, ma solo alla loro cattiva redazione formale (Carli). Le partizioni della circolare “Guida alla redazione dei testi normativi” sono una sorta di sintesi ideale degli ambiti relativi alla redazione degli atti normativi: 1) il linguaggio normativo; 2) la struttura dell' atto normativo; 3) i rapporti tra gli atti normativi; 4) gli aspetti sostanziali di redazione e contenuto tipo dell'atto; 5) le regole peculiari per particolari atti. B) Un secondo livello è quello dell'analisi tecnico-normativa (Atn), una definizione della quale è rinvenibile nell' art. 79 del regolamento della Camera dei deputati, modificato nel novembre 1997, il quale, tra l'altro, ha introdotto l'obbligo per le Commissioni parlamentari di realizzare un'istruttoria legislativa sui disegni di legge. Tale disposizione stabilisce: «Nel corso dell'esame in sede referente, la Commissione provvede ad acquisire gli elementi di conoscenza necessari per verificare la qualità e l'efficacia delle disposizioni contenute nel testo. L’istruttoria prende a tal fine i seguenti aspetti: a) la necessità dell'intervento legislativo, con riguardo alla possibilità di conseguirne i fini mediante il ricorso a fonti diverse dalla legge; b) la conformità della disciplina proposta alla Costituzione, la sua compatibilità con la normativa dell'Unione europea ed il rispetto delle competenze delle Regioni e delle autonomie locali; c) la definizione degli obiettivi dell'intervento e la congruità dei mezzi individuati per conseguirli, l'adeguatezza dei termini previsti per l'attuazione della disciplina, nonché gli oneri per la pubblica amministrazione, i cittadini e le imprese; d) l'inequivocità e la chiarezza del significato delle definizioni e delle disposizioni, nonché la congrua sistemazione della materia in articoli e commi». Tale previsione è però ancora ampiamente disattesa nella prassi. Eppure l'Atn, in quanto valutazione ex ante di tipo, per così dire "giuridica", si rivela uno strumento prezioso perché mira, da un lato, a valutare i profili di legittimità per violazione della competenza di altri enti, e dall'altro, a valutare la necessità dell'atto o la possibilità di conseguire i fini con fonti di rango inferiore. Sul punto, l'accordo tra Stato e Regioni del marzo 2007 propone una definizione arricchita dell'Atn. Essa, infatti, dovrebbe dare conto «della correttezza delle definizioni e dei riferimenti normativi contenuti nel te- sto della normativa proposta, nonché delle tecniche di modificazione e abrogazione delle disposizioni vigenti, riportando eventuali soluzioni alternative prese in considerazione ed escluse». L'analisi è condotta «anche alla luce della giurisprudenza esistente, della pendenza di giudizi di costituzionalità sul medesimo o analogo oggetto e di eventuali progetti di modifica della stessa materia già in corso di esame». C) Un terzo livello è dato dall'Analisi di impatto della regolamentazione (Air) che è un'analisi ex ante di tipo non giuridico: come è previsto nell'art 14, comma 1, della l.246/2005, essa «consiste nella valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo ricadenti sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull'organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, mediante comparazioni di opzioni alternative». Si tratta quindi, come del resto è specificato, forse inutilmente nel comma 2, di un supporto alle decisioni dell'organo politico di vertice dell'amministrazione in ordine all' opportunità dell'intervento normativo. Il successivo comma 5 demanda ad un successivo regolamento i criteri generali e le procedure dell'Air, compresa la fase della consultazione; le tipologie sostanziali, i casi e le modalità di esclusione dell' Air. Alla redazione dell'Air provvedono le singole amministrazioni competenti a presentare l'iniziativa normativa, con comunicazione dei dati al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio, che assicura il coordinamento delle amministrazioni in materia. Come viene specificato nell'Accordo tra Stato e Regioni del marzo 2007, gli elementi da considerare nell'Air sono: a) descrizione degli obiettivi del provvedimento e delle opzioni alternative; b) individuazione dei soggetti destinatari; c) valutazione dei costi e dei benefici; d) disponibilità di bilancio per l'attuazione dell'intervento; e) valutazione della c.d. "opzione zero", cioè dell' alternativa di lasciare immutata la situazione esistente. L'Air è uno strumento di valutazione ex ante che si pone a monte della stessa redazione del progetto di legge: essa ha ad oggetto ipotesi di intervento normativo la cui necessità e opportunità deve essere esaminata avendo quindi come esito possibile anche la già richiamata c.d. opzione zero. L'Air è quindi uno strumento complesso che assai difficilmente potrebbe essere generalizzato. Peraltro, mentre a livello statale, l'Air è ancora uno strumento sostanzialmente inattuato, a livello regionale essa è sperimentata in alcune Regioni (Toscana; Friuli) ma solo con riferimento a progetti di legge ritenuti rilevanti. Per questo, l'Air dovrebbe presupporre una programmazione dell'attività normativa (di legislatura o quantomeno con un orizzonte sufficientemente lungo), del tutto assente a livello statale ed allo stato iniziale in alcune Regioni. D) Un quarto livello è dato dalla valutazione di impatto della regolamentazione (Vir), che, ai sensi dell'art. 14, comma 3, della l. 246/2005, consiste nella valutazione «anche periodica, del raggiungimento delle finalità e nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull'organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni». La Vir è applicata dopo il primo biennio dalla data di entrata in vigore della legge oggetto di valutazione e, successivamente, è effettuata periodicamente a scadenze biennali. Lo stesso D.p.c.m. attuativo delle procedure di Air dovrà fissare altresì anche i criteri generali e le procedure, nonché l'individuazione dei casi di effettuazione. La Vir è quindi uno strumento di analisi ex post che costituisce, per così dire, l'altra faccia dell' Air: una legge già vigente ha bisogno di un'attività di monitoraggio per verificare se le sue disposizioni rispondono sempre alle finalità ed al rapporto costi-benefici. La procedura di Vir dovrebbe essere pensata in correlazione con quella di Air «è abbastanza evidente che, se la Vir viene fatta bene e periodicamente, essa starà alla base di qualunque modificazione degli atti normativi che sono stati oggetto della valutazione, e cioè starà alla base anche dell'Air così come l'Air starà alla base delle domande e delle investigazioni della Vir, in modo tale che tra le due indagini e metodiche si deve stabilire un circolo virtuoso». E) Infine, un ultimo livello è quello della divulgazione dell'atto normativo pubblicato. Si tratta di un aspetto importante nell’ottica stessa del principio democratico, giacché la naturale complessità degli atti normativi rende necessaria un'opera di volgarizzazione dei testi A livello statale, una prima legge in materia è la l. 150/2000, che prevede che dette attività siano dirette anche a «illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative, al fine di facilitarne l'applicazione». A livello regionale si deve ricordare l'art. 43, comma 2 dello Statuto toscano ai sensi del quale «la legge prevede altre forme dirette a favorire la conoscenza e l'applicazione delle leggi e dei regolamenti». Si tratta di una disposizione che si propone di favorire la migliore "leggibilità" e diffusione degli atti normativi, nell'ottica dello stesso principio democratico. In questo senso, l'art. 43, co2, dello Statuto toscano si pone in linea innanzitutto con l'art. 73 dello stesso Statuto che fissa il dovere di informazione quale strumento di partecipazione nonché con l’art 1 co5, lett a), della già citata l. 150/2000 che riconduce alle attività di informazione e di comunicazione quelle rivolte ad «illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative, al fine di facilitarne l'applicazione». «Poiché tale funzione di divulgazione non può essere compito dell'esecutivo per gli evidenti rischi di informazione partigiana o con formalità autocelebrative, sarà compito degli uffici consiliari provvedere a tale comunicazione». Infine, occorre chiedersi quali siano le conseguenze di eventuali discrepanze tra il testo dell'atto pubblicato sul Bollettino ufficiale e quello eventualmente diffuso ai sensi dell'art. 43, co2, dello Statuto. Starà al legislatore ordinario disciplinare queste forme di pubblicità "secondarie" . Discutibilmente, la riforma della disciplina del Bollettino ufficiale non fa rifluire queste forme di pubblicità nello stesso organo competente alla pubblicazione legale degli atti normativi della Regione. 4.11 I testi unici e le codificazioni Un prezioso alleato della qualità della normazione è il processo di consolidazione normativa. dichiara incostituzionale non una disposizione ma una norma che si ricava da essa, cosicché questa non viene espunta dall'ordinamento ma non è più possibile ricavare da essa l'interpretazione censurata. B) Vi sono poi casi di norme senza disposizione e ciò in due casi: - nei casi di combinato disposto, allorché, cioè, una norma è ricavata da una pluralità di disposizioni tra loro combinate e quindi non corrisponde ad una sola disposizione; - nei casi di norme implicite o inespresse, che derivano non da più disposizioni ma sono desunte o da altre norme espresse (come nel caso dell' analogia) o dall'ordinamento giuridico nel suo complesso (si pensi ai principi generali dell' ordinamento giuridico di cui all' art. 12 delle preleggi: si pensi, solo per citare un esempio, alla rilevanza del principio della tutela dell'affidamento) o da un insieme organico di norme: in questi casi, è fondamentale ricordare il ruolo fondamentale dei principi costituzionali quali sono desunti dalla giurisprudenza costituzionale ma ormai, come si dirà in seguito, anche dalla giurisprudenza comune. 5.2 L’interpretazione: il superamento delle disposizioni sull'interpretazione contenute nelle disposizioni sulla legge in generale Appaiono sicuramente superati, in quanto abrogati implicitamente, gli artt. 12, 13 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale che sono premesse al codice civile, che pur contengono il riferimento ad alcuni criteri di logica giuridica ancora utilmente utilizzati (ad esempio, l'iniziale primato dell'interpretazione letterale e logica del testo, i problemi per colmare le lacune, il rapporto fra norme generali e speciali). L’art 12 presenta anch' esso la necessità di essere interpretato. Al di là di questo, va detto che queste disposizioni preliminari hanno ormai solo valore storico, essendo espressive dell'antica diffidenza verso l'autonomia degli interpreti rispetto alla volontà del legislatore. Ciò ha alle sue spalle l'affermazione del primato delle assemblee legislative, unici soggetti legittimati a interpretare la volontà generale, e presuppone, più comunemente, la limitata autonomia dal potere politico degli organi giudiziari, non di rado destinatari perfino di circolari direttive da parte degli organi di governo. A dimostrazione di quanto questa disposizione attiri ancora oggi l'attenzione della politica e del legislatore statale, si deve ricordare che la recente l. 150/2005, di riforma dell'ordinamento giudiziario, afferma che non può dare luogo a responsabilità disciplinare dei magistrati «l'attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all' art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale». Con la Costituzione repubblicana cambia tutto anche sul versante dell'interpretazione: anzitutto, per effetto della rigidità costituzionale, che origina anche l'impugnabilità delle leggi per asseriti contrasti con il dettato costituzionale, non solo la legge non è più la fonte sovrana, ma deve essere anch'essa interpretata; inoltre, il primato della Costituzione origina anche una naturale forte tendenza a rendere compatibili ad essa le altre fonti, ove ciò sia possibile. Si consideri, in primo luogo, che dall'art. 12 fuoriesce ormai l'interpretazione della fonte suprema del nostro ordinamento, ovvero proprio la Costituzione; e ciò per il fatto che essa, per sua natura, non può certo essere assoggettata agli angusti canoni interpretativi di tale disposizione. Non è un caso, allora, che la Corte costituzionale non abbia mai fatto uso dell' art. 12 nella propria giurisprudenza. Inoltre, la stessa Costituzione, fonte gerarchicamente superiore alla legge, impone un mutamento profondo del ruolo del giudice nell'interpretazione delle fonti subordinate, e il superamento di una concezione tutta "politica" della formazione del diritto; il ruolo del giudice, infatti, diviene decisivo sia nell' ottica del rispetto dei principi costituzionali, sia nell'attuazione dei principi stessi. Si determina quindi un sistema continuamente "in movimento", perché soggetto non soltanto ai mutamenti di carattere normativo ma anche all'intrinseco mutamento degli indirizzi interpretativi e applicativi, ovviamente nel rispetto della Costituzione. La giurisprudenza comune ha in effetti assecondato questo mutamento: basti pensare, innanzitutto, ai non pochi casi di applicazione diretta del testo costituzionale in tutti i casi in cui esistono nelle fonti legislative clausole generali da specificare o veri e propri vuoti normativi da colmare, e, ancora, all'espansione dell'interpretazione conforme a Costituzione che costituisce oggi un canone ermeneutico assolutamente rilevante e ormai espressamente richiesto dallo stesso giudice delle leggi: in effetti, in più occasioni la Corte costituzionale ha affermato che il giudice, di fronte a più possibili interpretazioni, ha l'obbligo di scegliere quella che rende la disposizione legislativa coerente con il dettato costituzionale, scartando le altre; ed anzi, si è ormai affermato nella giurisprudenza costituzionale il principio per cui una legge non può essere dichiarata incostituzionale solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali ma lo deve essere solo quando è impossibile darne interpretazioni costituzionalmente conformi (Romboli). In tal modo, la Corte costituzionale valorizza i poteri interpretativi dei giudici comuni, tanto che la previa dimostrazione dell'impossibilità di un'interpretazione conforme a Costituzione è ormai, in via giurisprudenziale, una condizione per la stessa promovibilità delle questioni di costituzionalità in via incidentale. L'art. 117, co1, Cost impone poi un'interpretazione delle leggi in modo conforme alle disposizioni internazionali, nei limiti in cui ciò sia permesso dai testi delle norme. A ciò si aggiunga la valorizzazione dei giudici a seguito della realizzazione dell'ordinamento comunitario: il potere di disapplicazione delle disposizioni interne configgenti con il diritto comunitario, il rinvio pregiudiziale, e la conseguente affermazione di canoni interpretativi delle disposizioni interne che le rendano coerenti con l'ordinamento UE sono altrettanti fattori che rendono l'art. 12 delle preleggi ormai niente più di un retaggio storico. Il superamento dell'art. 12 disp. prel. c.c. si può altresì argomentare dalla scelta della Costituzione repubblicana per diffuse e vaste autonomie amministrative e per il conferimento di ampie discrezionalità professionali: non viene certo meno il dovere di rispettare le leggi, correttamente interpretate, ma l'interpretazione spetta al soggetto o all'organo competente e l'eventuale giudizio sulla sua correttezza spetterà eventualmente ad autorità giudiziarie. I criteri interpretativi elencati nell'art. 12 sembrerebbero essere posti in rigida alternanza tra loro, mentre, in realtà, i primi risultati di ogni processo interpretativo devono sempre essere sottoposti a verifiche critiche tramite gli altri possibili criteri interpretativi che siano correttamente utilizzabili. Non di rado si passa dall'interpretazione letterale a quella in varia misura correttiva (restrittiva, estensiva, evolutiva, sistematica) quando con l'esito dell'interpretazione letterale entra in contraddizione la voluntas legislatoris (o volontà del legislatore che storicamente ha adottato la disposizione) o la ratio legis (o significato che la disposizione assume all'interno del complessivo settore giuridico entro cui si colloca), o la norma dedotta dall'interpretazione appare irragionevole o incostituzionale, o se nel frattempo si è verificato un profondo mutamento del contesto giuridico o della "realtà delle cose". Con tutto ciò è ovvio che l'interpretazione letterale o dichiarativa è la prima e più importante, perché da essa si parte nel procedimento interpretativo. Essa peraltro non è sempre pacificamente conseguibile e inattaccabile, poiché già il significato "proprio" delle parole, così come il significato delle loro connessioni, sono più opinabili di quanto si possa credere. Anzitutto nelle disposizioni normative vengono addirittura utilizzati linguaggi tra loro parzialmente diversi (linguaggio comune, linguaggio giuridico nazionale ed ora anche europeo, linguaggi tecnici) e per di più anche mutevoli nel tempo: significativo delle evidenti difficoltà che possono verificarsi è il fatto che nella normazione dell'UE, ed ora in parte anche nella normazione italiana che ne deriva, si inserisca all'inizio del testo normativo un'apposita disposizione che definisce il significato delle espressioni più ricorrenti nello stesso testo. Alcune espressioni sono volutamente aperte per permettere l'adattamento della legislazione al mutamento del contesto sociale, territoriale o del passaggio del tempo, ma alcune parole ed espressioni giuridiche sono oggettivamente imprecise e vaghe, altre sono ambigue, mentre in altri casi l'ambiguità deriva da imprecisioni sintattiche. Addirittura la l. cost 3/2001, modificando il Titolo V della seconda parte della Costituzione, ha con il comma 1 dell'art. 114 dato un significato ai termini Repubblica e Stato diverso da quello utilizzato nelle residue disposizioni costituzionali, tanto che in futuro, interpretando la Costituzione, occorrerà tener ben presente questi diversi significati, pur presenti nel medesimo testo costituzionale. Attualmente, specie con le circolari della Presidenza del Consiglio sulla redazione e formulazione tecnica dei testi normativi, si registra la tendenza a far prevalere un linguaggio giuridico tecnico e "normalizzato" e ad utilizzare per le fonti che modificano in parte testi precedenti la tecnica della novellazione; se sono evidenti i vantaggi che in prospettiva possono derivare per la migliore redazione dei testi normativi, esistono però fondati dubbi che questo linguaggio e questa tecnica normativa siano agevolmente comprensibili da parte dei cittadini comuni, a riprova dell'oggettiva difficoltà dei processi interpretativi di sistemi normativi molto ampi e specializzati. Un altro criterio interpretativo contenuto nel comma 1 dell'art. 12, ma da considerare largamente superato, è la "intenzione del legislatore": con questa espressione ci si riferiva alla cosiddetta voluntas legislatoris e cioè alla finalità normativa perseguita dal legislatore che ha adottato la fonte. Già esistono alcune difficoltà di fatto nell'individuarla a causa della difficoltà a dimostrare questa volontà per vasti organi collegiali (si pensi soprattutto al Parlamento) o per la molto ridotta documentazione che accompagna gli atti con forza di legge, mentre, come si è detto, anche i regolamenti non sono neppure sommariamente motivati. Comunque, la conoscenza - per quanto possibile - delle diverse fasi di elaborazione dei testi normativi può essere di sicura utilità per aiutare a comprendere il significato della disposizione o per sottoporre a verifica l'esito dell'interpretazione letterale. Ma soprattutto già in passato si era giunti ad interpretare (in modo assai evolutivo rispetto al significato originario, perché si tratta in realtà di un criterio interpretativo totalmente diverso) il riferimento alla intenzione del legislatore anche come ratio legis e cioè come necessità di tener conto del senso oggettivo che la nuova disposizione assume nell'ambito della preesistente legislazione, settoriale o complessiva, entro cui va ad inserirsi: in tal modo si considera l'insieme delle fonti come un'unità coerente, addirittura capace di omogeneizzare a sé le nuove produzioni normative (ovviamente ove sussistano dubbi interpretativi e non si sia, invece, dinanzi ad una chiara deroga della normazione precedente). Si considerino, ad esempio, i molti limiti impliciti esistenti (per giudizio unanime) addirittura per varie fonti normative, malgrado che le disposizioni costituzionali contengano altri limiti espressi: si può pensare ai molteplici limiti impliciti enucleati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale nei giudizi di ammissibilità delle richieste referendarie ai sensi dell'art. 75 Cost.; ma può anche pensarsi ai molti limiti impliciti di materia enucleati in sede dottrinale per i decreti legislativi ed i decreti legge, malgrado il silenzio sul punto degli artt. 76 e 77 Cost. Inoltre, come detto, dopo l'adozione della Costituzione, fonte giuridica superiore e ricca anche di norme di principio o espressive di valori, un'analoga importante funzione interpretativa delle nuove fonti normative di grado inferiore viene spesso svolta utilizzando la stessa fonte costituzionale, in modo da ridurre gli eventuali conflitti e comunque nel presupposto (salvo sicura prova contraria) che tutte le fonti inferiori alla Costituzione debbano essere conformi ad essa. 5.3 Segue: l’interpretazione analogica Il comma 2 dell' art. 12 si riferisce alle lacune ed alle tecniche giuridiche per colmarle, individuando la norma applicabile. Si tratta di una disciplina corrispondente all'applicazione di alcuni corretti canoni logici, ma che appare almeno in parte superata dall' attuale disciplina costituzionale. La disposizione si riferisce alle sole lacune interne all'ordinamento giuridico vigente: queste si hanno allorché manca una disciplina giuridica per determinati rapporti o situazioni, ma si consegue la certezza che quei rapporti o quelle situazioni rientrano nell' area del giuridicamente rilevante. Lacuna esterna si avrebbe, invece, in relazione a fenomeni che non sono disciplinati neppure in via generale per scelta consapevole o perché considerati irrilevanti per l'organizzazione collettiva o relativi a fenomeni del tutto nuovi e diversi rispetto a quelli disciplinati nel complessivo ordinamento (ad esempio, la mancanza di ogni disciplina in tema di nuove forme stabili di convivenza diverse dal matrimonio). In casi del genere nel nostro ordinamento dovrebbe essere negata ogni possibilità di intervento degli organi giudiziari. Ma anche l'individuazione di una norma che colmi una lacuna interna è operazione di grandissima delicatezza, perché in realtà arriva a produrre e a far rispettare una norma che prima non esisteva, sulla base di un'analogia con un caso simile (ma diverso) o, addirittura, applicando al caso di specie un principio generale dell' ordinamento giuridico dello Stato. Tutto ciò dovrebbe inoltre presupporre la coerenza e la tendenziale completezza della legislazione e dello stesso complessivo ordinamento giuridico, in un'epoca nella quale - invece - si ha la sensazione che questo non sia più un dato scontato. Tutto ciò non è possibile nei casi in cui è obbligatoria una stretta interpretazione di alcune leggi, che quindi non possono fungere da riferimento in un processo analogico, soprattutto nell'area delle sanzioni penali. Inoltre esiste il dubbio se una tecnica del genere sia compatibile con le molte prescrizioni costituzionali che prevedono riserve di legge. Parte della dottrina anche contemporanea (Pace) ha messo in discussione il fatto che tale Costituzione fosse stata concepita dal re Carlo Alberto come flessibile, ritenendo, al contrario, che essa fosse stata pensata come assolutamente immodificabile. A sostegno di questa tesi sono stati addotti argomenti sia di carattere letterale sia di carattere sistematico. In particolare, si è sostenuto: 1) le Costituzioni ottocentesche come lo Statuto albertino pretendevano di essere giuridicamente vincolanti, nonostante la loro maggiore genericità rispetto alle Costituzioni del XX secolo: in questo senso, deve essere inteso il preambolo allo Statuto laddove si parla di Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia; 2) la superiorità giuridica della Costituzione e la sua rigidità sarebbero due facce della stessa medaglia, in quanto «non è che una costituzione sia rigida, perché non può essere modificata dal Parlamento: è che non può essere modificata dal Parlamento, perché è rigida» (L. Rossi); 3) la rigidità sarebbe caratteristica naturale delle Costituzioni scritte, come si evince anche dalla famosa sentenza Marbury vs. Madison del 1803, che, come è noto, segna l'inizio del controllo diffuso di costituzionalità delle leggi negli Stati Uniti d'America; 4) la rigidità non sarebbe desumibile né dalla previsione espressa di un procedimento speciale di revisione costituzionale (assente, infatti, nello Statuto) né dalla sindacabilità giurisdizionale delle leggi: se infatti il procedimento di revisione è previsto per consentire la modifica di Costituzioni che, altrimenti, sarebbero state immodificabili, la sindacabilità giurisdizionale delle leggi costituisce una forma (fondamentale) di garanzia della Costituzione e non il fondamento della sua rigidità; 5) traccia inequivocabile della tesi della assoluta immodificabilità dello Statuto: pur derogato in epoca liberale ed addirittura svuotato nel periodo fascista, non è mai stato formalmente modificata. Rimane il fatto che lo Statuto albertino fu considerato come Costituzione flessibile. La distanza tra le costituzioni assolutamente immodificabili e quelle flessibili finisce per essere limitata nella misura in cui le prime finiscono per essere fragili sul piano politico e tali da non arginare fenomeni di revisione costituzionale extra ordinem anche in via legislativa. Lo Statuto esprimeva un compromesso tra la monarchia e i gruppi dirigenti liberali che segnava un punto di non ritorno ma solo rispetto alle pretese assolutistiche del sovrano concedente, e proprio in funzione di barriera verso il passato fu quindi intesa la natura di «Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia» e quindi il nucleo assolutamente immodificabile dello Statuto. Però, l'assenza di un procedimento di revisione costituzionale e della previsione di forme di controllo di costituzionalità delle leggi furono interpretate nel senso di consentire al Parlamento anche di modificare la Carta statutaria, nell'esercizio del potere legislativo ad esso (ed al Re) assegnato. Tesi enunciata da Cavour: intravedeva che nelle monarchie costituzionali il potere costituente spettasse al Parlamento «cioè il Re e le Camere». In tal modo «seguendo quel modello, che prevedeva la necessaria alleanza tra monarchia e rappresentanze politiche, Cavour fu in grado di chiarire che di 'perpetuo' ed 'irrevocabile' nello Statuto vi era solo il patto stesso, che funzionava in questo senso in entrambe le direzioni: la monarchia non avrebbe più potuto fare a meno del Parlamento, compreso il suo ramo liberamente eletto, e le Camere, a loro volta, non avrebbero più potuto proporsi in senso costituente, come rappresentanza esclusiva della nazione, al di là e senza la monarchia. Dentro questi confini, le singole clausole del patto avrebbero potuto essere riviste progressivamente, da un Parlamento composto di 'tre rami', con il necessario consenso congiunto delle Camere e della monarchia». Questa costruzione finiva per essere funzionale agli interessi dei gruppi liberali e della borghesia che stava progressivamente assumendo un ruolo egemone; in questo senso, assai pericolose erano le proposte di costituzione di un' Assemblea costituente, che avrebbero finito per assecondare istanze democratiche. Sul piano tecnico-giuridico la natura flessibile dello Statuto fu poi ulteriormente spiegata sia alla luce della natura "elastica" e talvolta generica delle sue disposizioni, sia alla luce di una consuetudine innovativa delle regole sulla produzione normativa che avrebbe reso possibile la modifica o la deroga anche delle norme statutarie da parte del legislatore ordinario. Sul piano della produzione normativa, le conseguenze della flessibilità dello Statuto, unita alla vaghezza ed alla genericità della gran parte delle sue disposizioni, furono, da un lato, il sostanziale svuotamento delle sue disposizioni da parte del legislatore successivo e, dall'altro, sul terreno della forma di governo, l'affermarsi di convenzioni e di consuetudini costituzionali non solo integrative ma anche derogatorie e modificative della Costituzione albertina. Nello Statuto la riserva di legge era concepita come un istituto avente una natura garantistica, nella misura in cui demandava a leggi del Parlamento, e quindi al consenso dei rappresentanti degli interessati, anche la disciplina dei diritti di libertà, ivi compresa quella delle limitazioni agli stessi diritti. Vaghezza delle disposizioni statutarie e natura flessibile dello Statuto contribuirono a trasfigurare la ratio della riserva di legge: sul primo piano, fu notato acutamente che lo Statuto non concede diritti all'individuo, ma semplici presunzioni di diritti: mentre l'esistenza giuridica e il vero contenuto dei diritti subiettivi individuali dipendono dalle leggi che specificamente ne trattano, ed è in queste che bisogna ricercarli (Racioppi-Brunelli). Sul secondo piano, stante la flessibilità dello Statuto, la legge spesso non si limitò all'attuazione delle disposizioni costituzionali ma si atteggiò quale fonte derogatoria, discostandosi nella sostanza dai principi in esse contenuti; che pure rimanevano formalmente intatti. Non solo, ma il Parlamento in non pochi casi si limitò a "trasferire" la disciplina in questione a successivi regolamenti governativi, con ciò vanificando la ratio stessa della riserva di legge. D'altra parte, come detto, la flessibilità dello Statuto, la conseguente assenza di un sistema di giustizia costituzionale, e l'estrema genericità delle disposizioni costituzionali rendevano tali prassi del tutto legittime sul piano giuridico. Sul terreno della forma di governo, le previsioni statutarie, anche in questo caso generiche e non prive di ambiguità su aspetti essenziali furono assai presto integrate (e forse superate) in via di prassi dalla progressiva emersione di un modello di monarchia parlamentare che certo trovava nella Carta albertina un fondamento quantomeno incerto: in via di prassi si sviluppò l'istituto della fiducia parlamentare così come sempre in via di prassi emerse, nell'ambito del Governo, la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri. Viceversa il regime fascista avrebbe seguito la via del superamento delle disposizioni statutarie, praticamente sulla generalità dei suoi contenuti, con una serie di leggi ordinarie che riguardarono anche la materia della produzione normativa. 6.2 Le fonti sulla produzione normativa in epoca statutaria L'analisi delle disposizioni statutarie si giustifica perché, fino dal Code Napoléon fu considerato punto fermo il fatto che il tema delle fonti costituisse una tipica (secondo alcuni la tipica) materia costituzionale. Lo Statuto albertino dedicava al tema della produzione normativa poche e disorganiche disposizioni, mancando una compiuta elencazione e, più in generale, l'individuazione di un sistema delle fonti. Tra queste le più importanti erano costituite dall'art. 3, che attribuiva congiuntamente al Rè e alle due Camere del Parlamento l'esercizio del potere legislativo, e dall'art. 6, che sanciva l'inderogabilità delle leggi da parte delle fonti normative secondarie, in primis dei regolamenti. Altre disposizioni significative erano relative al procedimento di formazione delle leggi e all'interpretazione autentica delle leggi stesse, attribuita in esclusiva al legislatore. Il fatto poi che l'art. 5 attribuisse al Sovrano in esclusiva il potere esecutivo fu inteso nel senso dell'attribuzione ad esso del potere di adottare altri tipi di norme giuridiche la cui natura e la cui legittimità furono oggetto di ampio dibattito. Secondo parte della dottrina, tra queste vi erano le fonti c.d. "di prerogativa regia", prefigurate da alcune disposizioni statutarie, che furono interpretate da una parte della dottrina come una vera e propria riserva di regolamento. Il quadro costituzionale delle fonti, e tra queste del potere regolamentare, risultava quindi appena abbozzato. Per di più il carattere flessibile dello Statuto consentì ampie (e potenzialmente illimitate) deroghe ai suoi disposti. Flessibilità = inidoneità di tale Carta a porsi quale vincolo giuridico per il legislatore futuro = il sistema delle fonti non poté essere efficacemente governato a livello costituzionale. Durante il regime fascista, la disciplina della produzione normativa, le regole sull'interpretazione, i criteri per la risoluzione delle antinomie furono regolate nelle disposizioni preliminari al codice civile del 1865 e ancor più in quelle al codice civile del 1942. Essa si spiega alla luce del rilievo sostanzialmente costituzionale dei codici in genere e, in primis, del codice civile, considerato come una sorta di Carta fondamentale della borghesia. Le preleggi al codice civile del 1865, pur non recando, come quelle al codice del 1942, una disciplina tendenzialmente organica sulle fonti, contenevano però la disciplina della promulgazione, della pubblicazione e dell'entrata in vigore delle leggi, la disciplina relativa all'efficacia nel tempo, all'interpretazione. La rilevanza di queste disposizioni era accresciuta non solo dalle lacune e dall'estrema flessibilità dello Statuto ma anche dalla solo relativa indipendenza delle magistrature. Si tratta di una disciplina che sarebbe stata ampiamente ripresa nelle preleggi al codice del 1942. Per quanto riguarda l'assetto delle fonti prefigurato dalle preleggi al codice civile del 1865, da esse emerge con chiarezza la progressiva emarginazione del diritto consuetudinario in favore di una concezione "legicentrica": esse non disciplinano espressamente le consuetudini ma l'art. 48, comma 1, delle disposizioni transitorie affermando che «nelle materie che formano soggetto del nuovo codice, cessano di aver forza dal giorno dell'attuazione del medesimo tutte le altre leggi generali o speciali, come pure gli usi e le consuetudini, a cui il codice stesso espressamente non si riferisca», sembrava condannare il fenomeno delle consuetudini c.d. praeter legem. Questa concezione esasperatamente giuspositivistica, pur non pienamente accolta nel codice di commercio del 1882, giunse all' apice con le preleggi al codice civile del 1942 che sancirono la definitiva sconfitta del diritto consuetudinario, ridotto al rango di fonte residuale dell'ordinamento. 6.3 Le trasformazioni del sistema delle fonti in epoca statutaria: la disciplina degli atti con forza di legge del Governo La flessibilità delle disposizioni statutarie consentì la progressiva emersione di innovazioni in via di prassi sul terreno della produzione normativa. Tali innovazioni riguardarono in particolare gli atti normativi del Governo, a proposito dei quali lo Statuto era sostanzialmente reticente, fatta eccezione per il già ricordato art. 6. Se quindi la disposizione in questione sembrava escludere la possibilità per il Re (e quindi per l'Esecutivo) di adottare atti con forza di legge, consentendo solo l'emanazione di fonti regolamentari di esecuzione la prassi normativa andò in tutt'altra direzione. Infatti, al di fuori di una disciplina esplicita, si affermarono, già nei primi anni di vigenza dello Statuto, atti con forza di legge del Governo, così come tipologie regolamentari diverse da quella di esecuzione, testualmente prevista nell'art. 6 dello Statuto. Iniziando dagli atti con forza di legge, già a partire dal 1848 emerse la prassi delle leggi attributive dei pieni poteri. Si trattava in sostanza di leggi con le quali il Parlamento trasferiva al Governo la pienezza di poteri legislativi ed esecutivi per tutta la durata della guerra di indipendenza. Non si trattava quindi di deleghe puntuali ma di un vero e proprio trasferimento in bianco all'Esecutivo della titolarità del potere legislativo, senza sostanziali limiti di contenuto. Infatti, proprio attraverso le leggi di autorizzazione di questo tipo, furono varate riforme importanti e complesse, anche del tutto scollegate dalla regolazione dello stato di guerra. In non pochi casi, infatti, i governi utilizzarono le deleghe in questione anche per aggirare gli ostacoli derivanti dai fragili equilibri parlamentari: basti pensare, solo per citare un esempio, alle leggi con le quali si completò l'unificazione amministrativa del Regno e si delegò il Governo ad adottare i codici civile, di procedura civile, di commercio e della marina mercantile. Accanto all'istituto del conferimento dei pieni poteri si sviluppò la delega legislativa, anche se in forme assai diverse da quelle dell'attuale art. 76 Cost.: si trattava di leggi non solo prive di principi e criteri direttivi ma spesso caratterizzate da un oggetto assai ampio ed indeterminato. Nonostante l'estraneità della delega legislativa dalllo Statuto, la giurisprudenza della Cassazione affermò l'incompetenza del giudice ordinario a sindacare le scelte del legislatore anche nei casi in cui il decreto delegato violasse la legge di delega, trattandosi, in quest'ultimo caso, di un mero sindacato politico. Oltre alla delega, si sviluppò la prassi della decretazione d'urgenza che fu considerata legittima dalla dottrina maggioritaria. I decreti legge erano normalmente presentati alle Camere per la conversione in legge; tuttavia, poiché essi si erano sviluppati nella prassi, a prescindere quindi da un espresso fondamento in una fonte sulla produzione, non era chiaro né il termine entro i quali sarebbe dovuta intervenire la legge di conversione né le conseguenze della mancata conversione. Peraltro, sia pure con alcune eccezioni, la giurisprudenza negò la possibilità di sindacare i decreti legge, ritenendo che la valutazione sulla effettiva necessità e urgenza spettasse solo al Parlamento, trattandosi di un giudizio esclusivamente politico. riferita alle sole leggi anteriori alla l. 100/1926, presupponendo quindi la facoltà per il legislatore successivo non solo di intervenire in materia di organizzazione ma anche di rilegificare quanto già disciplinato dai regolamenti con l'effetto, in entrambi i casi, di inibire il successivo intervento delle fonti secondarie. Di tali possibilità la legge si servì ampiamente, se è vero che la l. 1547/1940 estese la delegificazione anche alle leggi successive alla l. 100/1926. Tuttavia, si trattò di un intervento tardivo, intervenuto a guerra già iniziata e quindi destinato a trovare applicazioni solo sporadiche. Del resto, quelli descritti non erano i soli limiti dell' art. 1 della l. 100/1926. Infatti, la disciplina in esso contenuta non si dimostrò né esaustiva (ad esempio, non si chiarivano i rapporti tra regolamenti governativi e regolamenti di altre autorità e nulla era previsto circa la validità e l'efficacia delle fonti regolamentari), né esclusiva (nella prassi, infatti, continuarono ad essere utilizzate tipologie ignorate dalla tale legge). Probabilmente, però, questi limiti si spiegano alla luce della ratio stessa della l. 100/1926 che era quella di legittimare a livello generale una competenza normativa del Governo ormai radicata nella prassi statutaria, lasciando a livello di prassi quelle manifestazioni del potere regolamentare (ad es i regolamenti delegati e ministeriali) per le quali era ritenuta necessaria un'espressa autorizzazione legislativa. Di fatto, la "rivoluzione promessa" dalla l. 100/1926 a proposito del potere regolamentare non si realizzò nella prassi: infatti nonostante la quantità di atti legislativi non diminuì in modo apprezzabile, e ciò probabilmente sia per le resistenze burocratiche rispetto all'utilizzazione del potere regolamentare, sia perché, con un Parlamento ormai fascistizzato, il ricorso alle leggi ed agli atti con forza di legge era assai agevole. L'art. 3 disciplinava per la prima volta espressamente la delega legislativa e la decretazione d'urgenza. Per quanto riguarda la delega legislativa, la disposizione si limitava ad imporre che il Governo adottasse il decreto delegato entro i limiti di una legge di delega, e quindi non faceva altro che codificare la prassi anteriore. Viceversa, più innovativa era la disciplina della decretazione d'urgenza. In primo luogo si prevedeva che «il giudizio sulla necessità e sull'urgenza non è soggetto ad altro controllo che a quello politico del Parlamento». Non era previsto l'obbligo dell'immediata presentazione del decreto alle Camere per la conversione (era infatti previsto l'obbligo di presentazione ad una delle Camere non oltre la seduta dopo la sua pubblicazione). Il termine per la conversione in legge era assai lungo (ben due anni dalla pubblicazione) e la sanzione in caso di mancata conversione era la decadenza del decreto ma solo con efficacia ex nunc: in tal modo, il decreto legge diveniva una fonte del tutto assimilabile a quella legislativa, solo condizionata da un termine di vigenza, decorso il quale si produceva solo una sorta di effetto abrogativo. Infine, era consentita la conversione con emendamenti, ma l'efficacia di questi decorreva dalla pubblicazione della legge di conversione (ma nulla era detto circa l'applicabilità o meno della vacatio). Nel complesso, la ratio della l. 100/1926 era quella di una razionalizzazione e di un rafforzamento dei poteri normativi del Governo e, in particolare, del potere regolamentare e della decretazione d'urgenza. Ma essa non riuscì pienamente a realizzare questi due obiettivi. Sul primo versante, la l. 100/1926 non riuscì nell'intento di disciplinare l'universo dei poteri normativi dell'Esecutivo: rimasero infatti fuori atti con forza di legge, quali i decreti di stato d'assedio e i bandi militari. Sul versante del potere regolamentare, l'art. 1 della legge si limitò a disciplinare i soli regolamenti governativi ma ciò non valse a limitare affatto una produzione ingente di regolamenti ministeriali o di autorità amministrativa sottostanti al Ministro. Inoltre, la l. 100/1926 non contribuì certo a chiarire le non poche incertezze sussistenti riguardo all'individuazione degli atti normativi del Governo: decreti legge, decreti legislativi e regolamenti erano emanati e pubblicati come "regi decreti", previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, e questo creava non pochi dubbi circa l'esatta identificazione degli atti: tali incertezze sono rimaste in piedi fino all'entrata in vigore della l.400/1988. 6.6 La progressiva instaurazione dell’ordinamento corporativo Un'ulteriore importante novità introdotta durante il regime fascista fu la progressiva instaurazione dell'ordinamento corporativo che tuttavia non fu mai pienamente realizzato. Prima dell'avvento del fascismo, la contrattazione collettiva si era sviluppata in forma spontanea e fu inquadrata prevalentemente nell'ambito della libertà contrattuale e nella facoltà di stipulare contratti innominati, con efficacia limitata alle sole parti stipulanti, ai sensi del cc del 1865. Non era mancato però in dottrina il tentativo di riconoscere ad essi un'efficacia erga omnes, sul presupposto che questi atti avessero sì «la forza del contratto, ma l'anima della legge» (Carnelutti). Il quadro normativo cambia dopo l'avvento del Fascismo. Il punto di partenza è la l. 563/1926 che riconobbe efficacia erga omnes ai contratti collettivi a condizione che presentassero determinate caratteristiche alla cui osservanza erano preposte autorità governative. Peraltro, il riconoscimento legislativo dell'efficacia erga omnes alla contrattazione collettiva avvenne nello stesso momento in cui in pratica la libertà sindacale era stata soppressa. I punti fondamentali della l. 563/1926 e del regolamento di attuazione erano in sintesi, oltre al conferimento dell'efficacia erga omnes ai contratti collettivi: a) la trasformazione dei sindacati fascisti in persone giuridiche pubbliche; b) l'attribuzione alla magistratura del lavoro della competenza a risolvere le controversie collettive; c) il riconoscimento a tali pronunce giurisdizionali della stessa efficacia dei contratti collettivi, d) l'attribuzione agli organi centrali di collegamento tra le corporazioni del compito di dettare «norme generali sulle condizioni del lavoro nelle imprese» aventi anch'esse efficacia erga omnes. Successivamente, le ll. 206/1930 e 163/1934 completarono la realizzazione dell'ordinamento corporativo. Alle corporazioni fu attribuita l'emanazione di ordinanze corporative, in materia di disciplina collettiva dei rapporti di lavoro, di regolamentazione collettiva dei rapporti economici e di disciplina unitaria della produzione, ciò che avrebbe teoricamente potuto estendere la competenza delle corporazioni anche ad una regolamentazione pubblica di alcuni settori economici. Di fatto, però, nella prassi questa competenza fu esercitata solo sporadicamente. 6.7 La legge sul Gran consiglio del Fascismo e l'introduzione delle leggi di carattere costituzionale Il consolidamento del regime fascista fece balenare ad alcuni dei suoi esponenti l'idea di una "Costituzione fascista" che sostituisse lo Statuto albertino, ormai di fatto svuotato dei suoi contenuti dopo l'avvento della dittatura. Di tale progetto, che compiutamente non si tradusse in un nuovo testo costituzionale sostitutivo della Carta albertina, anche per l'opposizione della Monarchia, vi è una traccia precisa nella l. 2693/1928 che disciplinò l'ordinamento e le attribuzioni del Gran consiglio del Fascismo. In particolare, l'art. 12 di tale legge prevedeva che, per iniziativa del Capo del Governo, dovesse essere acquisito il parere del Gran Consiglio «su tutte le questioni aventi carattere costituzionale», tra le quali, necessariamente, le proposte di legge concernenti: 1) la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; 2) la composizione e il funzionamento del Gran Consiglio e delle due Camere; 3) le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo; 4) la facoltà del Governo di emanare norme giuridiche; 5) l'ordinamento sindacale e corporativo; 6) i rapporti tra Stato e Santa Sede; 7) i trattati internazionali che importino variazioni del territorio e delle Colonie, ovvero rinuncia all'acquisto di territori. In dottrina si discusse circa l'interpretazione di tale disposizione. Secondo alcuni, infatti, essa avrebbe introdotto una nuova fonte del diritto, la "legge costituzionale" ormai sovraordinata, in ragione del suo procedimento di adozione, alla legge ordinaria, così da avere introdotto, almeno in qualche misura, una sorta di rigidità a livello costituzionale. Secondo altri, invece l'art. 12 in questione non avrebbe alterato il sistema delle fonti fino ad allora vigente. Tale tesi si basava sul fatto che il parere del Gran consiglio era collocato all'interno della fase dell'iniziativa legislativa (a monte della stessa), per cui «non poteva in alcun caso assumere una portata direttamente determinante nei confronti del contenuto dell'atto normativo, non essendo vincolante, né per il Governo che doveva valutare se esercitare l'iniziativa, né per le camere che successivamente avessero deliberato sul progetto di legge, e dalla circostanza che nessun controllo che non fosse di tipo puramente politico era previsto per sanzionare l'eventuale inosservanza dell'obbligo di richiedere il parere»: non è un caso, del resto, che la disposizione in esame non prevedeva alcuna sanzione nel caso di violazione del procedimento di adozione delle leggi costituzionali. Nella prassi, l'interpretazione dell'art. 12 non dette luogo a problemi di sorta fino alla caduta del fascismo e alla conseguente soppressione del Gran consiglio. Sempre riguardo al tema di una possibile codificazione, in una materia materialmente costituzionale, nel periodo fascista, si debbono ricordare alcuni atti normativi di principio, cui, secondo parte della dottrina, avrebbe dovuto attribuirsi natura analoga a quella delle dichiarazioni di diritti. Tra questi si deve ricordare, in particolare, la Carta del lavoro (l. 2832/1928) la cui dichiarazioni, ai sensi della l. 14/1941, costituivano «principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato e danno il criterio direttivo per l'interpretazione e l'applicazione della legge». La l. 14/1941 si inseriva, peraltro, in un più vasto programma di riforma che avrebbe dovuto culminare nell'emanazione di una Carta del diritto, ovvero in un'opera di una definizione dei principi generali dell'ordinamento giuridico fascista, destinata a coronare, tra l'altro, l'opera di codificazione intrapresa fin dall'inizio degli anni trenta con l'emanazione del codice penale e del codice di procedura penale e culminata all'inizio degli anni quaranta con il codice di procedura civile e con il codice civile (nel quale è stato trasfuso anche il codice di commercio). Tali principi avrebbero dovuto assumere, nell'intento del Ministro della giustizia, Grandi, una posizione peculiare nel sistema delle fonti del diritto. Di fatto, la mancata adozione di tale Carta lasciò anche la l. 14/1941 priva di un adeguato riferimento ordinamentale, cosicché l'efficacia giuridica dei principi della Carta del lavoro rimase incerta, essendo oggetto di diverse ricostruzioni dottrinali. Infine, un'ultima traccia, del tutto peculiare, del tentativo di "irrigidire" il panorama delle fonti primarie è dato dalla l. 4/1929, in materia di repressione delle violazioni delle leggi penali finanziarie. In particolare, la legge prevedeva che “le disposizioni della presente legge, e in quanto questa non provveda, non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiarazione espressa del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate o modificate”. Limite per il legislatore futuro garantito dal fatto che il giudice non poteva dichiarare la inapplicabilità di norme penali contenute in leggi concernenti i singoli tributi, se prima non avesse promosso la decisione della Corte di cassazione. A tal scopo il giudice disponeva con ordinanza, anche d'ufficio, la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla corte medesima. Questa deliberava a SU e la sentenza costituiva giudicato irrevocabile sul punto da essa deciso. Si tratta di una previsione che costituisce una sorta di "antefatto" del controllo incidentale di costituzionalità che è stato introdotto dopo l'avvento della Costituzione repubblicana. 6.8 Il procedimento legislativo dopo l'istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni La disciplina del procedimento legislativo subì una drastica riforma con l'istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni e la contestuale soppressione della Camera dei deputati. La Camera dei fasci e delle corporazioni non era eletta dal corpo elettorale, poiché era formata dai componenti del Consiglio nazionale del partito fascista e dai componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni. La stessa durata della legislatura era rimessa ad un'apposita determinazione del Capo del Governo. Questa Assemblea era un docile strumento nelle mani del Capo del Governo, che poteva disporne la convocazione per l'esercizio dell'ordinaria funzione legislativa e nominava il Presidente. La Camera dei fasci e delle corporazioni era quindi la tipica espressione dell'avversione della dittatura verso l'istituzione parlamentare: le Camere non avevano nemmeno la titolarità formale della funzione legislativa. La disciplina del procedimento legislativo era conseguente a questa ratio di fondo: i progetti di legge erano approvati direttamente dalle Commissioni legislative delle due Camere in un termine brevissimo (un mese dalla presentazione di ciascun disegno di legge, salvo proroga accordata dal Capo del Governo), trascorso il quale il Governo era abilitato ad adottare un decreto legge (si trattava quindi di una fattispecie peculiare di decretazione d'urgenza). Facevano eccezione, e quindi erano approvati dalle due Camere nella loro composizione plenaria, solo i disegni di legge di maggiore importanza sul piano istituzionale (leggi costituzionali; deleghe legislative di carattere generale; disegni di legge di bilancio e rendiconti consuntivi dello Stato, delle aziende autonome di Stato e degli enti amministrativi di qualsiasi natura, di importanza Con la caduta del fascismo inizia un periodo costituzionale provvisorio che si concluderà con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. li Governo Badoglio procedette con una serie di decreti legge alla c.d. "defascistizzazione" dello Stato, in particolare con la soppressione del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo, degli organi corporativi, cui si accompagnò la soppressione dell'ordinamento corporativo [ma si fecero salvi, salvo le successive modifiche, tutti i contratti stipulati dalle organizzazioni fasciste, perché non si volle privare i lavoratori delle tutele ivi previste], ma soprattutto, con lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, si prevedeva l'elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra. Era quindi evidente in quest'ultimo atto il tentativo del Governo e della Corona di ripristinare la legalità statutaria e di non assecondare ipotesi costituenti che inevitabilmente avrebbero posto in discussione la Corona, accusata a ragione di aver favorito e sostenuto la dittatura. In questo primo periodo la defascistizzazione dello Stato avvenne attraverso decreti legge adottati formalmente ai sensi della l. 100/1926: per un paradosso della storia, quindi, la defascistizzazione fu attuata utilizzando proprio una delle leggi "fascistissime" che sul terreno della decretazione d'urgenza aveva visto una forte valorizzazione dell' attività normativa del Governo. Il fondamento offerto dalla l. 100/1926 era però solo apparente: essendo ormai paralizzato il Parlamento con lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni (il Senato del Regno non poteva funzionare, stante l'art. 46 dello Statuto, che vietava «ogni riunione di una Camera fuori del tempo della sessione dell'altra»), era ormai impossibile immaginare la conversione in legge; si consideri poi che la defascistizzazione incideva chiaramente nella materia costituzionale che la l. 2693/1928 riservava non certo alla decretazione d'urgenza ma a leggi costituzionali. In altre parole, i decreti legge in questione erano ormai fonti extra ordinem il cui fondamento era dato dall'effettività, o, secondo altri, dalla necessità come fonte del diritto; tesi, quest'ultima, sostenibile, dato il peculiare contesto in cui versava l'ordinamento italiano. Ad ulteriore dimostrazione dell'originalità di tali fonti, si deve ricordare che il d.lgs.lgt. 185/1944 sancì una sorta di "sanatoria" degli stessi, laddove stabiliva che «i decreti legge, che, a causa degli avvenimenti successivi al 25 luglio 1943, non siano stati presentati al Parlamento per la conversione in legge [' .. J conservano la loro efficacia, ma debbono essere presentati agli organi legislativi entro sei mesi dalla conclusione della pace», cessando altrimenti di avere vigore, se non convertiti in legge entro un anno dall'inizio del funzionamento delle nuove Camere. In attuazione del decreto in esame intervenne una legge generale di conversione nella prima legislatura repubblicana. B) Il sistema delle fonti cambiò nuovamente con il d.lgs.lgt. 151/1944 con il quale fu recepito il c.d. "Patto di Salerno" tra il Sovrano e i partiti del C.l.n., superando lo stallo derivante dal rifiuto di questi ultimi di qualunque forma di collaborazione governativa con la monarchia, senza che fosse intervenuta prima l'abdicazione di Vittorio Emanuele II. In sintesi, l’accordo prevedeva che il Re non abdicasse ma si ritirasse irrevocabilmente a vita privata, nominando il figlio Umberto luogotenente generale del Regno al momento della liberazione di Roma; da parte loro, i partiti del C.l.n. si impegnavano ad entrare nel Governo, lasciando impregiudicate le questioni istituzionali fino alla convocazione di una futura Assemblea costituente. Il d.1gs.1gt. 151/1944 riprodusse fedelmente i contenuti di questo accordo. Prevedeva la futura convocazione di una Assemblea costituente, eletta a suffragio universale, per deliberare la nuova Costituzione dello Stato e la sua forma istituzionale. Ai componenti del Governo era vietato di compiere, fino alla convocazione dell'Assemblea costituente, atti che comunque pregiudicassero la soluzione della questione istituzionale. Fino all'entrata in funzione del nuovo Parlamento, il Governo restava titolare della pienezza della funzione legislativa attraverso decreti legislativi luogotenenziali, deliberati dal Consiglio dei Ministri e sanzionati e promulgati dal Luogotenente generale del Regno. Il Governo rimaneva poi ovviamente titolare del potere regolamentare. I decreti legislativi luogotenenziali in pratica sostituivano temporaneamente la legge del Parlamento, i decreti legge ed i decreti legislativi. Anche queste fonti erano del tutto estranee alla l. 100/1926, come era evidente nello stesso nomen iuris ("decreto legislativo luogotenenziale"). Si trattava infatti di una fonte di nuovo conio, giustificabile in relazione al peculiare assetto dei poteri costituzionali, data la perdurante assenza dell'organo parlamentare. Si trattava, in altri termini, di una sorta di autoassunzione del potere legislativo da parte del Governo in un contesto nel quale era ormai impossibile ritenere vigente lo Statuto albertino: al contrario, dato che esso prefigurava la convocazione di un'Assemblea costituente, la dottrina ha giustamente definito il d.lgs.lgt. 151/1944 come la prima Costituzione provvisoria che sarebbe stata superata successivamente. Nel procedimento di formazione dei decreti legislativi luogotenenziali in materia di bilanci, di imposte (salvo i casi di urgenza), di elezioni, fu imposto il parere della Consulta nazionale, assemblea composta da membri nominati dal Governo su designazione dei maggiori partiti politici, o fra ex parlamentari antifascisti, o fra appartenenti a categorie ed organizzazioni sindacali, culturali e di reduci. Il d.lgs.lgt. 151/1944 fu convertito in forza della XV disposizione transitoria della Costituzione (<<Con l'entrata in vigore della Costituzione si ha per convertito in legge il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, sull'ordinamento provvisorio dello Stato»). Non si deve dimenticare però che, dato il particolare regime di occupazione militare del territorio nazionale, in questo periodo accanto alle fonti interne ebbero grande rilevanza gli atti del Governo militare alleato, la cui giuridicità fu stabilizzata dal Trattato di pace. Nei territori occupati dall'esercito tedesco, in cui si era formata la Repubblica sociale italiana, la produzione normativa fu riservata al Duce attraverso atti variamente denominati (decreti legislativi del Duce del fascismo, del capo dello Stato nazionale repubblicano ecc.), ai singoli ministri (decreti ministeriali) ma, soprattutto, ad atti dell'esercito tedesco occupante (prevalentemente attraverso bandi militari). Il d.lgs.lgt. 249/1944 provvide a dichiarare tali atti privi di efficacia giuridica, salvo alcune marginali eccezioni. C) Il d.lgs.lgt. 98/1946, alla vigilia delle elezioni dell'Assemblea costituente, determinò una ulteriore articolazione del sistema delle fonti In primo luogo, come è noto, esso trasferì ad un referendum la decisione circa la forma istituzionale dello Stato; referendum che segnò l'inizio del processo costituente culminato con l'approvazione della Costituzione nel dicembre 1947 nella quale la sua portata di fonte fu in definitiva assorbita. In secondo luogo, il d.lgs.lgt. 98/1946 dovette sciogliere una rilevante questione istituzionale che aveva visto divisi i partiti del c.l.n., ovvero quella dei poteri della Assemblea costituente: mentre infatti i partiti di sinistra avrebbero preferito una Costituente pienamente sovrana e quindi titolare non solo del potere di varare la nuova Costituzione ma anche del potere legislativo ordinario, la Dc e i liberali avrebbero voluto mantenere il potere legislativo ordinario nelle mani del Governo, onde tenere la Costituente al riparo di possibili divisioni politiche su questioni di rilievo infracostituzionale. La questione fu risolta dall'art. 3, commi 1 e 2, del d.lgs.1gt. 98/1946, per cui il potere legislativo ordinario restava delegato al Governo tranne: a) la materia costituzionale; b) le leggi elettorali; c) le leggi di approvazione dei trattati internazionali; d) qualunque altro argomento ad essa rimesso dal Governo. In queste materie rinasceva la legge quale fonte del diritto italiano. In tal modo, i rapporti tra legge e decreto legislativo venivano descritti dal principio di competenza, data la riserva alla prima delle materie sopra elencate. Questo assetto fu sostanzialmente confermato dall'Assemblea costituente, sia pure riaffermando la propria sovranità e quindi la non soggezione formale al d.lgs.lgt. del 1946. Del resto, la stessa previsione della durata in carica dell' Assemblea costituente, fissata in otto mesi dalla prima riunione, fu prorogata più volte dalla stessa fino al31 dicembre 1947 (l. costo 1 e 2/1947). Gli atti legislativi del Governo continuarono ad essere denominati decreti legislativi luogotenenziali fino al 9 maggio 1946, allorché Vittorio Emanuele III, violando la tregua istituzionale, allo scopo di favorire la monarchia nell'imminente referendum, abdicò in favore del figlio Umberto che così divenne il quarto Re d'Italia ma solo per un breve periodo. Dal 10 maggio 1946 al 18 giugno successivo gli stessi atti assunsero quindi il nomen iuris di Regi decreti legislativi. Con la partenza del Re per l'esilio e la provvisoria assunzione della carica di Capo dello Stato da parte del Presidente del Consiglio gli stessi furono denominati Decreti legislativi del Presidente del Consiglio dei Ministri (19-28 giugno 1946). Con l'elezione di De Nicola a capo provvisorio dello Stato da parte della Costituente, i decreti in questione furono denominati Decreti legislativi del Capo provvisorio dello Stato (10 luglio 1946-31 dicembre 1947) e con l'entrata in vigore della Costituzione e prima dell'insediamento del primo Parlamento repubblicano Decreti legislativi del Presidente della Repubblica (1 gennaio-7 maggio 1948). Come nel periodo precedente il Governo rimase titolare anche del potere regolamentare. Tra il 1945 e il maggio 1946 con l'istituzione di due Regioni, la Valle d'Aosta (d.lgs.lgt. 545/1945) e la Sicilia (r.d.1gs. 455/1946), il panorama normativo si arricchì di nuove fonti, tra l'altro rompendo il monopolio delle fonti legislative in capo al Parlamento nazionale che costituiva una sorta di "dogma istituzionale" fino dallo Statuto albertino. Il d.lgs.lgt. 545/1945 istituiva la "circoscrizione autonoma" della Valle d'Aosta al cui Consiglio si prevedeva la futura attribuzione di una sorta di potere regolamentare delegificante in determinate materie. Molto più significativo risultò lo Statuto siciliano emanato alla vigilia delle elezioni della Costituente. Non solo esso istituiva l'ente "Regione" ma ad essa erano attribuiti estesi poteri legislativi, addirittura qualificati come "esclusivi" in numerose materie e concorrenti in un altrettanto vasto elenco di settori materiali. La Regione si vedeva poi attribuito un potere regolamentare di esecuzione delle leggi regionali. Non solo, ma a garanzia del riparto delle competenze legislative gli artt. 24 ss. istituivano una Alta Corte per la Regione siciliana, ovvero una sorta di Corte costituzionale regionale, composta da sei membri nominati in pari numero dal Parlamento nazionale e dall' Assemblea regionale, competente a giudicare sulla conformità allo Statuto delle leggi regionali e delle leggi e dei regolamenti statali. La costituzionalità di questo atto fu contestata dalla Corte dei conti sul presupposto che lo Statuto andasse a regolare una materia costituzionale, riservata in quanto tale all'Assemblea costituente: per questo il Governo dovette chiedere la registrazione con riserva. D) Come si è detto, con l'entrata in funzione dell'Assemblea costituente il sistema delle fonti primarie viene articolandosi nelle leggi e nei decreti legislativi. Nel 1947 però la Costituente adottò tre leggi costituzionali, due per prorogare il termine di durata di cui al d.lgs.lgt. 98/1946, una (l. cost 3/1947) per sopprimere anche formalmente il Senato regio. Cinque furono invece le leggi costituzionali adottate dalla Costituente nel 1948 ai sensi della XVII disposizione transitoria della Costituzione, comma 1, la quale prevedeva che entro il 31 gennaio 1948 l'Assemblea costituente fosse convocata dal suo Presidente per deliberare, tra l'altro, gli statuti speciali. Di fatto, non fu possibile l'adozione dello Statuto speciale del Friuli Venezia Giulia, data la perdurante, irrisolta questione dello status di Trieste. Sul piano tecnico, non era chiaro se tale disposizione, che si riferiva ad un'Assemblea ormai privata del potere costituente (esaurito con l'entrata in vigore della Costituzione) avesse un carattere tassativo (cosicché nel periodo in questione la Costituente avrebbe potuto approvare soltanto le leggi espressamente previste dalla XVII disp. trans.) ovvero meramente esemplificativo (cosicché gli adempimenti previsti sarebbero stati, per così dire, necessari ma non esclusivi). Come è noto, prevalse la seconda soluzione, che peraltro si fondava formalmente anche sul comma 2 della stessa XVII disp. tras. (ai sensi del quale «fino al giorno delle elezioni delle nuove Camere, l'Assemblea costituente può essere convocata, quando vi sia necessità di deliberare nelle materie attribuite alla sua competenza dagli articoli 2, commi primo e secondo, e 3, comma primo e secondo, del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98») e che più in generale si basava sul fatto che, diversamente, l'attuazione della Costituzione (tranne che per le leggi espressamente previste al comma 1) sarebbe transitata, in definitiva, nelle mani del Governo. In tal modo, la Costituente poté adottare anche la l. cost 1/1948, con la quale si posero le norme relative alle forme di impugnazione delle leggi dinanzi alla Corte costituzionale e le garanzie di indipendenza dei propri membri. Eppure, autorevole dottrina, proprio sulla base del disposto del comma 1 della XVII disp. trans., dubitò della legittimità della l. cost 1/1948 (così, Lavagna), dettata con l'intento di rendere possibile l'immediato insediamento della Corte. La tesi del "depotenziamento" dell' Assemblea costituente dopo l'entrata in vigore della Costituzione fu accolta dalla Corte costituzionale nella sent 6/1970 a proposito dello Statuto siciliano. In tale sentenza, la Corte ricostruì i poteri della Costituente dopo l'entrata in vigore della Costituzione, ritenendoli limitati, in
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