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In cammino con i ragazzi in difficoltà di Santamaria, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto del libro

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

In vendita dal 19/10/2015

chiarabrusadin1
chiarabrusadin1 🇮🇹

4.8

(12)

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Scarica In cammino con i ragazzi in difficoltà di Santamaria e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! IN CAMMINO CON I RAGAZZI IN DIFFICOLTÀ di Santamaria Cap.1: Partiamo da loro 1.1. Perché li definiamo minori (di età) La lingua italiana non contempla un termine che possa tradurre efficacemente la parola inglese “child”, indicante la persona di età compresa tra zero e diciotto anni. Alla definizione corrisponderebbe infatti la parola “minore”, ma il suo utilizzo è considerato scorretto per l’accezione semantica negativa (minore in quanto inferiore, di minor valore o importanza). Sono quindi entrate nell’uso, soprattutto degli studiosi e dei professionisti del settore, definizioni più articolate come “bambini e adolescenti” o “bambini e ragazzi”, spesso declinate anche nella versione maschile e femminile, nel rispetto della differenza di genere. Poiché la parola minore rimane però nell’uso comune, si è cercato di temperarne il significato accompagnandola con la specifica “di età”. Per “minore di età” si intende, dunque, in accordo con l’art. 1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, la persona che non ha compiuto il diciottesimo anno di età. La precisazione non è ovvia, poiché in altri Paesi del mondo il raggiungimento dell’età adulta può avvenire prima o dopo. D’altra parte fino al 1975 anche in Italia si diventava maggiorenni più tardi, all’età di 21 anni. Il riferimento all’età sul piano giuridico il principale criterio per l’attribuzione al soggetto di molti (non tutti) diritti e responsabilità. Gli aspetti più importanti dello status di minore Il minore di età è innanzitutto soggetto dotato di capacità giuridica, ossia può essere titolare di diritti e di doveri (art. 1 codice civile). Questa capacità si acquista con la nascita e si estingue con la morte. Pur essendo titolare di diritti, il minore non è di norma in grado di esercitarli e necessita pertanto di un rappresentante legale. La rappresentanza compete ai genitori (art. 320 codice civile) e, solo qualora questi non ci siano perché deceduti, scomparsi o lontani, o siano stati privati della potestà genitoriale, viene nominato un tutore legale (articoli 343 e seguenti codice civile). La capacità giuridica viene acquisita da tutti i cittadini, senza alcuna discriminazione, conformemente al principio di uguaglianza (art. 3, Costituzione). Con il conseguimento della maggiore età, il soggetto acquista poi la capacità di agire, ossia l’idoneità a compiere atti giuridicamente rilevanti e incidenti sui propri interessi (art. 2, codice civile). Ne consegue che gli atti giuridici compiuti da un minorenne sono annullabili. La capacità di agire viene meno con la morte o per effetto di una pronuncia giudiziaria di interdizione o inabilitazione. Quindi, il minore di età è soggetto di diritto, titolare in concreto di diritti soggettivi perfetti, autonomi e azionabili, ma solo con i diciotto anni acquista la capacità di determinare legalmente i propri interessi. Si assume che i diciotto anni siano l’età in cui il soggetto può essere considerato pienamente capace di intendere (comprendere il valore e le conseguenze delle proprie azioni) e di volere (scegliere in maniera consapevole e responsabile). Ovviamente la maggiore età è un traguardo stabilito convenzionalmente, ma è evidente che la maturazione del soggetto è graduale. La crescita è non solo un percorso di sviluppo progressivo ma anche personale, caratterizzato quindi da tappe e tempi soggettivi. Il principio di riferimento, utilizzato anche nella normativa sia nazionale che internazionale, è la capacità di discernimento, collegata da un lato all’età, dall’altro alla maturità, criterio oggettivo il primo, soggettivo il secondo. La stessa normativa prevede espressamente profili di autonomia del minore, in ragione di tale capacità di discernimento. Importantissimo è l’art. 12 della citata Convenzione internazionale, che riconosce al “fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa” e specifica che tali opinioni saranno prese in considerazione tenendo conto dell’età e del grado di maturità. Vi sono poi atti che il minore, quattordicenne o sedicenne a seconda dei casi, può compiere autonomamente e validamente come, ad esempio, deve obbligatoriamente essere sentito per la fissazione della residenza, nel caso di contrasto tra i genitori nell’esercizio della potestà. Il minorenne può inoltre chiedere la nomina di un curatore che lo rappresenti per promuovere determinate azioni legali. Rileva poi la capacità del minore di età in ambito lavorativo. Al quindicenne è infatti riconosciuta la possibilità di lavorare, seppure con alcuni limiti imposti da esigenze di tutela (ad esempio divieto di lavori pesanti o di lavoro notturno), anche se non può autonomamente firmare il contratto di lavoro, amministrare i guadagni (ad esempio aprire e gestire un conto corrente) o agire in giudizio. Infine, va ricordato che il minore di età può acquisire la capacità di agire, seppure in forma ridotta, contraendo matrimonio e conseguendo così il cosiddetto stato di emancipazione. La possibilità di contrarre matrimonio è riconosciuta solo al minore ultrasedicenne e in casi eccezionali. Secondo il disposto del codice penale, infatti, nessuno può essere punito per aver commesso un fatto previsto dalla legge come reato se al momento del fatto non era imputabile (art. 85 codice penale). L’imputabilità è uno status personale e dipende dalla capacità di intendere e di volere posseduta al momento del verificarsi del fatto. La legge prevede espressamente e tassativamente le cause che escludono o incidono sulla imputabilità, come l’età e lo stato di maturità morale e sociale connesso all’età. La legge, quindi, stabilisce che il minore di 14 anni, in ragione della sua età, debba sempre essere considerato non imputabile e quindi non possa essere punito per il reato commesso. Per il minore ultraquattordicenne, invece, l’imputabilità è direttamente legata alla capacità di intendere e di volere posseduta dal soggetto al momento della commissione del reato, ossia, al suo grado di maturità. Si rende quindi necessario per il giudice procedere a specifiche indagini, avvalendosi del supporto del personale specialistico, per una valutazione completa del minore. 1.2 Un’attenzione specifica agli adolescenti Rispetto alle diverse età della vita che l’espressione “minore di età” comprende, la scelta fatta nel testo è di privilegiare l’adolescenza, in quanto età oggi particolarmente al centro dell’attenzione per la complessità che essa presenta e per l’ arco temporale che ricopre; essendo formata sia da preadolescenza (11-14 anni) che da l’adolescenza vera e propria (15-18/19 anni). La complessità del tema ha coinvolto numerosi studiosi di diverse discipline: psicologi, antropologi, sociologi, pedagogisti. L’adolescenza pare essere una storia quasi tutta nuova, come se fosse apparsa all’improvviso e in forma del tutto nuova agli occhi degli adulti poiché fino a qualche decennio fa si attendeva semplicemente che questo momento evolutivo si chiudesse quanto prima, dando vita a un adulto capace di assumersi le responsabilità che per convenzione gli appartengono. L’adolescenza veniva considerata un periodo di crisi che viene e va e l’adolescente un individuo alle prese con le proprie esplosioni pulsionali. La questione veniva liquidata spesso con l’etichetta “crisi adolescenziale” che non sempre rimandava a contenuti chiari ed espliciti. La situazione attuale è diversa. L’adolescenza è descritta come una fase della vita in cui vengono affrontati compiti evolutivi specifici, determinati dai prepotenti cambiamenti della crescita. La rivoluzione adolescenziale tocca la sfera fisica, la sfera cognitiva e la sfera sociale; cambia il corpo, cambia la mente, cambia il modo di rapportarsi agli altri e questi cambiamenti vengono osservati con attenzione. Oggi l’adolescenza è un tempo dalla durata non chiara; sempre più forte è il richiamo all’adolescenza prolungata, all’impossibilità, da parte di molti adolescenti, di entrare nell’età giovanile-adulta nei tempi previsti, con tutto ciò che ne consegue sul piano sociale. Forse gli adolescenti attirano l’attenzione perché non sembrano fare molte richieste, sembrano invisibili, non fanno troppe contestazioni; per le generazioni precedenti questo silenzio risulta inquietante perché indecifrabile e poco vicino alle proprie esperienze. Attualmente sembra che la rabbia giovanile appartenga solamente a contesti di marginalità, dove assume connotazioni francamente devianti e distruttive. Mentre in contesti di normalità dove è mediata da domande evolutive ed espressa in forme partecipative, è più difficile che si presenti. Ma forse, dietro l’apparente silenzio le domande sono tante e variegate, il punto è saperle recepire e tollerare di non avere risposte convincenti e risolutive. Oggi l’adolescenza è un grande tema da affrontare con delicatezza e competenza, ma senza falsi “buonismi”, perché il rischio è di cercare una vicinanza intrusiva che permette di controllare ma non di comprendere. Lo sguardo degli educatori L’adolescenza emerge dai racconti di esperienze dirette da parte degli educatori, che non sono mai solo “esperienze del fare”, ma semmai “esperienze di relazione”. Ciò significa partire da ciò che accade dentro un incontro che è quello tra un adolescente (spesso con il suo gruppo di appartenenza) e un adulto che con questo adolescente vuole lavorare. Da questo punto di osservazione l’incontro risulta davvero difficile: da un lato un soggetto adolescente che per età e compito evolutivo deve “sganciarsi” dagli adulti, dall’altro un soggetto adulto che intende “agganciare” l’adolescente. Emerge a questo punto un aspetto: lavorare con gli adolescenti non richiede solo una conoscenza specifica in materia poiché implica, anzitutto, avere in mente quelli che sono i propri obiettivi impliciti, che non sempre hanno un legame con gli obiettivi del lavoro. Significa quindi lavorare sulle proprie rappresentazioni dell’adolescenza, della funzione educativa, del proprio ruolo di adulto significativo; significa elaborare in modo chiaro la propria posizione all’interno del sistema istituzionale in cui si opera. Emerge il profilo di un adolescente che chiede presenze forti e vicinanze affidabili, senza che questo significhi attivare invasioni di campo e confusioni generazionali. L’adulto è adulto, per un adolescente, e tale deve rimanere se vuol fare bene il suo mestiere; non sono ammessi adulti che pur di avvicinarsi fanno gli adolescenti e confondono i livelli di rapporto. La ricerca di senso Pare importante soffermarci, a questo punto, su un aspetto centrale e cioè sull’adolescente come “cercatore di senso”. Alcuni autori sottolineano la correlazione esistente tra la costruzione dell’identità in adolescenza e la ricerca di senso, evidenziando come quest’ultima si trovi all’interno del più ampio dinamismo della costruzione dell’identità. Gli autori mettono in rilievo, inoltre, il fatto che le esperienze sono il luogo primo in cui l’adolescente attua la ricerca di senso. La ricerca di senso permette di attribuire significato a ciò che si vive e ciò contribuisce a chiarire il concetto che si ha di sé. Da quanto evidenziato, sembra allora che una buona parte degli adolescenti richieda la presenza di un adulto con il quale instaurare una relazione che non rimandi necessariamente a dimensioni conflittuali. L’adulto non pare essere colui contro il quale opporsi a tutti i costi per potersi sentire autonomi; se percepito come “competente”, sembra invece poter essere garante di un percorso di crescita significativo. La competenza dell’adulto sembra essere la capacità di esserci (la pedagogia della presenza), senza voler rappresentare un riferimento insostituibile. La competenza sta anche nella capacità di sostenere i ragazzi nella loro ricerca di significati dentro le esperienze. Una lettura pedagogico-fenomenologica Inizia ad apparire evidente, allora, che la relazione tra adulto e adolescente è una relazione possibile nella misura in cui da entrambe le parti esiste questa disponibilità. Ciò che viene richiesto a un adulto è di essere un adulto competente, dove ciò non significa essere differenze, comparare, ipotizzare accadimenti, ragionare usando la nozione di cambiamento; a livello relazionale saper interagire e ascoltarsi, saper giocare insieme, saper inventarsi sintesi tra culture diverse. Prima di tutto l’apprendimento, perché possa divenire un momento fecondo all’interno di un gruppo classe, deve essere dotato di significato per ogni bambino che ne partecipa ma, oltre a tener conto del suo aspetto motivazionale, l’insegnante deve tener conto anche dell’aspetto affettivo e di quello psicologico; dimensioni che nel caso dei minori immigrati sono già messe alla prova, perché essi fanno uno sforzo enorme per adattarsi alla nuova realtà, ma oltre a quella attuale se ne portano dentro un’altra ricca di legami, di ricordi e di sofferenza. Con tale modo di procedere sarà incoraggiata la motivazione più profonda, la motivazione di tipo intrinseco, quella che l’individuo trova dentro di sé ed è ricollegabile ai suoi desideri più profondi e alle sue caratteristiche/interessi/bisogni individuali. Altra caratteristica fondamentale dell’apprendimento in un’ottica interculturale è l’aspetto cooperativo tra soggetti che abitano la stessa comunità scolastica. Collaborando attraverso l’aiuto reciproco, si valorizza un aspetto importante dell’educazione interculturale, che è quello di leggere l’eterogeneità, i punti di vista diversi dal proprio, le abilità cognitive, sociali, culturali e linguistiche diverse ecc. come elementi che stimolano la crescita e il successo apprenditivo e relazionale. Tutte queste caratteristiche di concretezza, di importanza del quotidiano, di essenzialità delle piccole cose, dei piccoli gesti, dei principi di cooperazione e di aiuto reciproco, che rimandano a valori più alti come la solidarietà, la cura per l’altro e il senso di vicinanza, sono la strada attraverso la quale la pedagogia interculturale si traduce in una educazione attenta anche alle più piccole cose: la scuola in quest’ottica deve ripensare agli atteggiamenti e i comportamenti educativi, aggiustando le strategie, le metodologie e gli strumenti didattici, adattandoli alle diversità presenti e alla complessità e alla varietà di meccanismi psicologici e cognitivi con cui i soggetti apprendono. La centralità di colui che apprende Il principio di pensare l’azione e di agire tenendo sempre al centro colui che apprende deve (dovrebbe) rappresentare una linea guida di ogni educatore; egli infatti deve sempre tener presente che davanti a lui c’è un soggetto irripetibile, diverso da tutti gli altri, originale”(Bertolini) e che anche l’educazione, tenendo conto di tale variabilità, deve essere individualizzata. L’insegnamento individualizzato è il metodo che consente di tener conto dei condizionamenti di ciascun soggetto e dei suoi particolari bisogni. L’educatore deve considerare ogni soggetto che ha davanti come un io unico e particolare ma, soprattutto, un educatore che fa propri i principi di un agire interculturale deve accettare per prima cosa la diversità e fare uno sforzo ulteriore di impostare un’azione educativa che possa far esprimere al meglio ogni soggetto, tenendo conto dei ritmi, dei meccanismi diversi che sottostanno in ognuno. Un agire interdisciplinare Si tratta di operare all’interno della scuola costruendo progetti, e attivando percorsi che, attraverso un obiettivo comune, puntino sul senso di cooperazione, sulla considerazione dei punti di vista differenti, sull’ incentivare la competenza comunicativa tesa all’ascolto e alla comprensione dell’altro. Si tratta di un agire educativo che promuove l’interdisciplinarietà: non è una semplice sovrapposizione o un affiancamento di discipline diverse, ma di un ben più impegnativo e più serio tentativo di impostare l’intero iter didattico. Infatti Bertolini ritiene che l’interdisciplinarietà acquisti un valore formativo se parte dalla prassi scolastica, della realtà fattuale, quindi dalla pratica che al suo interno è sempre problematica e complessa; così facendo le discipline diventeranno per gli insegnanti degli strumenti di lavoro, non solo dei settori rigidi e predefiniti della conoscenza. Apprendere attraverso il gioco “Nel gioco e con il gioco, certamente il bambino cerca il piacere, ma nel medesimo tempo impara a sentirsi libero, ad affermare il proprio Io esercitando le sue facoltà psichiche e fisiche, ed esercitando il suo diritto ad essere in un certo modo che può benissimo non corrispondere alle indicazioni predate dagli adulti e dalla società di riferimento.” (Bertolini) Nei cortili, nelle aule, durante l’attività sportiva, non è raro sentir pronunciare frasi come “smettila di giocare, è ora di lavorare”, “adesso fai il bravo e smettila di giocare”, oppure “non è possibile che tu stia sempre a giocare”. Il gioco sembrerebbe così rappresentare quell’attività che distingue il mondo degli adulti da quello dei bambini e dei ragazzi, un fare che i primi rimpiangono e che ai secondi è ancora concesso, un tempo da dedicare allo svago e al divertimento garantito solo a chi non ha ancora raggiunto l’età delle responsabilità. Il senso comune definisce gioco anche quell’attività di cui beneficiano gli adulti poiché i minori, nel momento in cui si dedicano all’attività ludica, riducono le richieste di attenzione e cura e, contemporaneamente, prediligono la relazione fra i pari, sperimentandosi nella socialità e accrescendo le competenze relazionali. Perché parlare di gioco in un testo di pedagogia che si interessa di bambini e ragazzi con storie difficili? Il gioco, inteso come quell’attività spontanea ed istintiva dell’infanzia. È lo strumento e l’agire attraverso cui i bambini e i ragazzi (e gli adulti) possono fare esperienza del mondo e conoscerlo: gli studi di antropologia e dell’età evolutiva ci dicono come i processi di socializzazione e acculturazione del soggetto avvengono attraverso il gioco, strumento privilegiato per “fare come se”, ossia per riprodurre, in un andamento circolare fra fuori e dentro di sé (gioco simbolico), ciò che osservano accadere nel mondo adulto. Questa riproduzione non è necessariamente una registrazione comune del mondo, sia umano che materiale, ma può divenire una opportunità di nuova significazione, ossia di nuova attribuzione di senso e di significato da parte del soggetto, sulla base dei suoi vissuti via via esperiti nel tempo e costitutivi di una sua personale visione del mondo. E’ questo l’elemento fondante un approccio pedagogico, poiché il gioco così inteso ha le caratteristiche per essere considerato “strumento” educativo con il quale favorire la scoperta della propria soggettività (Bertolini) e in una prospettiva fenomenologica, è data la capacità di intenzionare, ossia di dare senso e significato a se e al mondo. Immaginiamoci quindi un ragazzo, con un vissuto di abbandono e disagio rispetto al mondo adulto: il gioco simbolico, le tecniche teatrali, l’animazione, i giochi d’interazione per la dinamica dei gruppi etc. permettono di sperimentare la reazione che ha sugli altri il proprio essere se stessi, con la facilitazione che il gioco è un’”isola incerta”, ossia uno spazio separato dalla realtà comune e che consente di percepirsi senza i rischi del “fare sul serio”, riducendo al minimo il possibile disagio derivante dal giudizio degli altri. Da qui il bisogno di ripensare ai momenti di gioco come a dei momenti di possibile ed efficace interazione fra l’educatore e la persona a lui affidata, in qualsiasi forma questa si concretizzi (animazione, contesto comunitario, doposcuola, assistenza domiciliare ecc.): il gioco può assumere così la veste del “facciamo finta che”, attivando competenze comunicative nuove e adeguate (es. l’ironia ) all’immaginare e al ri–creare spazi, tempi e situazioni, per poterle sperimentare, vivere ed eventualmente apprezzare. I giochi di ruolo, le tecniche del teatro dell’oppresso, i giochi all’aria aperta, i giochi di squadra e tanti altri, assumono una nuova dignità, perché consentono l’osservazione reciproca e, insieme, la possibilità di proporsi in modo diverso (si pensi ad esempio alla valenza del contatto fisico nel gioco), nell’ipotesi che, finito di giocare, quanto è stato vissuto possa essere traslato nella “vita reale”. E’ questione del nostro tempo che il gioco abbia lentamente ridotto la sua funzione educativa e sia stato relegato al tempo della “distrazione” : le scienze sociali si sono ampiamente dedicate allo studio del gioco e dei giochi, arricchendo la bibliografia sull’argomento,affrontandolo dalla prospettiva antropologica, psicologica e pedagogica, pervenendo alla conclusione che sembrerebbe urgente una nuova alfabetizzazione al gioco, che investa sul pensare a questo come un momento verso cui accrescere attenzioni e di cui vengano rese nuovamente esplicite le funzioni di sviluppo e apprendimento, senza limiti di età. Ristabilire la giusta dignità del gioco, non è solo una responsabilità dell’adulto verso il bambino/ragazzo, ma vuol dire anche riconquistare un modo conosciuto e spesso abbandonato per esperire e vivere la propria vita emotiva, attraverso le logiche e le regole del gioco, parallele alla realtà quotidiana. Nel linguaggio comune si usa l’espressione “mettersi in gioco”, intendendo la scelta di affrontare una situazione, utilizzando le proprie conoscenze e, insieme, le proprie caratteristiche di personalità in modo nuovo o diverso. Questo linguaggio figurato ben si presta per la pratica educativa, dove “il gioco” della relazione produce nuove esperienze e consapevolezze: la pratica ludica va conosciuta, compresa, apprezzata e utilizzata ed è questa una scoperta che può stimolare la creatività di ogni educatore che voglia esplorare strategie, tecniche e metodi che usino il linguaggio del possibile. Apprendere dall’esperienza Gli adolescenti (e in buona misura anche i bambini) sono dei “cercatori di senso” che chiede di incontrare eventi, persone, progetti capaci di saturare i vuoti e accendere sogni. E’ la vita stessa, con le sue esperienze di gioia e di dolore, di amore e di morte, di gioco e di impegno, a costituire per gli adolescenti un insostituibile laboratorio di senso. Il principio del “fare esperienze” esprime la necessità di operare con i giovani sempre in modo concreto e rispettoso della sperimentabilità delle proposte, facendo quasi toccare con mano ciò a cui si sollecita educativamente. Il “fare esperienza” è la strategia principale attraverso cui il minore di età ricerca e costruisce la sua identità. L'esperienza nuova funziona, nella sua ricerca, come elemento perturbatore e/o conflittuale. Quando la situazione personale e ambientale si evolve, il soggetto elabora nuove attese, nuovi bisogni, nuove domande. A tutto ciò risponde destrutturando gli equilibri precedenti e attivando una nuova ricerca, mediata anzitutto dall'azione (e dalla riflessione che questa si porta dentro) e quindi da nuove esperienze. Ma l'esito non è scontato. Dall'esperienza conflittuale/perturbatrice l'adolescente può uscire arricchendo la sua identità, oppure con esiti di frammentazione delle varie sfere di vita, difficili poi da ricomporre in un quadro sostenibile. L'esperienza, per essere educativa, implica alcune componenti essenziali, riconducibili a quattro fattori: 1. Il contatto immediato: L'esperienza è anzitutto qualcosa di immediato, che si tocca con mano. Ciò che si è sperimentato si mostra, è evidente a chi ne fa l'esperienza. Ci sono naturalmente diversi gradi di consapevolezza del contatto che si ha con un qualcosa. Non sempre, ad esempio, l'adolescente è direttamente consapevole di quel che succede nell'esperienza, anche se influisce su di lui. Solo un intervento educativo permette di riprenderla, liberarla e portarla alla coscienza. Non si deve confondere tuttavia esperienza con materialità. Il dato immediato di ciò che è stato sperimentato non deve essere affatto ridotto a dato puramente sensibile ( vedere, toccare, udire...). 2. Il rapporto con il mondo storico-culturale attraverso il linguaggio: Esiste esperienza se esiste un linguaggio che permetta di dirla, rappresentarla, interpretarla. Soltanto nel linguaggio le nostre esperienze si manifestano. Il fatto che il linguaggio sia sempre il mediatore tra noi e la nostra esperienza non annulla l'immediatezza del fare esperienza, ma la qualifica dandole un orientamento, un senso. Nel fare esperienza l'adolescente si radica, attraverso il gioco fra contatto immediato e linguaggio che lo manifesta, in una data cultura e ambiente. 3. La riflessione: La presenza del linguaggio introduce una terza dimensione dell'esperienza cioè la riflessione e interpretazione del vissuto. Secondo la concezione comune del termine, la riflessione sembra totalmente opposta alla immediatezza dell'esperienza, perché mediante la riflessione cerchiamo di raggiungere proprio ciò che non ci è dato di percepire immediatamente nel suo significato. Non è in questo modo che si vuol parlare di riflessione sull'esperienza. La riflessione è l’azione di svelamento e di illuminazione di ciò che è già presente, per liberarlo anzitutto dal suo essere nascosto. Senza un’adeguata riflessione non c’è esperienza formativa. La riflessione a cui dunque l'adolescente va abilitato è una riflessione sul vissuto, sulle cose e sui fatti, sulle motivazioni e sulle attese, sugli atteggiamenti con cui si è vissuto, sui risultati e sulla responsabilità personale. 4. Ciò che si è sperimentato non diventa esperienza reale, nel senso pieno del termine, nel momento in cui appare e in cui si apre alla riflessione, ma solo nel momento in cui ciò che si è sperimentato “colpisce” l'adolescente, producendo una qualche destrutturazione nel modo di pensare e di fare e, di conseguenza, apre nuove possibilità di pensiero e di azione, nuove progettualità, nuove decisioni sul presente e sul futuro. 5. La trasformazione del soggetto: L’esperienza è apprenditiva quando il soggetto, attraverso la sua rielaborazione, se ne è “riappropriato” in termini di consapevolezza rispetto a sé, agli altri, al mondo (D. Demetrio). Solo un'esperienza coinvolgente e trasformante è autentica. L'adolescente che “ha fatto esperienza” comincia a diventare un altro rispetto a quello che era prima e comincia a considerare il suo mondo e si comporta verso il suo mondo in modo diverso. Le “apicalità esperienziali” D. Demetrio ha individuato alcuni fatti che possono rendersi attivatori di sguardi consapevoli e inediti nella vita dei ragazzi. Si tratta di apicalità esperienziali, che si trasformano in pedagogiche nel momento in cui il soggetto le scopre come luoghi natii (coscienziali) e il suo interlocutore – educatore, insegnante -, ha una parte significativa in questo processo. Solo alcune circostanze quindi si mostrano favorevoli al lavoro pedagogico e, anzi, è proprio il lavoro pedagogico a renderle efficaci, a crearle e ad utilizzarle. Quelle che lo studioso propone sono: • L’eccezione: L’eccezione è l’esperienza del nuovo, dello straordinario, dell’incredibile, del meraviglioso, del sorprendente. Ciò che stupisce diventa per l’adolescente fatto importante, da raccontare. Lo stupore è una dinamica interiore eccezionale. L’adolescente è più propenso a cogliere le novità che si presentano ai suoi occhi con un’accelerazione che difficilmente si ripresenterà nel corso della vita successiva. Un “attivatore di stupore” è pedagogico nella misura in cui pone il soggetto nella condizione etica, estetica, erotica di non provare soltanto meraviglia per l’iniziazione a qualcosa che prima non conosceva, non aveva percepito con i sensi. Esso si rende tale nel momento in cui accresce la cognizione di sé. Soltanto se l’eccezionale consente al soggetto di ri-conoscersi e cioè di interrogarsi su quanto va vivendo, tale esperienza assume una valenza pedagogica; non si limita ad essere uno svago più interessante del solito, ma pur sempre effimero. • La regola: La regola è la ripetizione, il “giorno dopo giorno”, la costanza, il limite, il quotidiano. Non si cresce solo compiendo viaggi eccezionali, unici, incancellabili. L’adolescente si forma anche grazie all’esperienza della noia (sui banchi di scuola, nei riti domestici, facendo e rifacendo compiti…ecc.). La consuetudine, giorno dopo giorno, induce comportamenti che forniscono al soggetto il senso del limite e della norma sociale: struttura modi di essere che sono “impalcature personali” di importanza “apicale”, quanto l’esperienza dello straordinario. L’attivatore pedagogico si rivela tale nel momento in cui da solo o grazie a qualcuno l’adolescente scopre il valore, anche rassicurante, di affidarsi a delle regole. Valore che gli si disvela nella misura in cui le regole gli appaiono finalizzate. Dal momento che l’adolescente appare oggi “defuturizzato” si rende ancora più urgente una mediazione pedagogica che lo aiuti ad avere fiducia nelle regole verso una meta che solitamente è percepita come incerta e confusa. • L’esemplarità: L’esemplarità è data da un modello di riferimento, una proposta convincente, un consigliere. Si tratta di uno dei motivi più ricorrenti in fatto di formazione adolescenziale. Rappresenta un “universale” della mente per gli adolescenti, ma anche per gli adulti. L’esemplarità diventa un attivatore pedagogico quando l’“eroe” stimola forme di volontà di uguagliamento o, addirittura, di superamento. Deve cioè generare il gusto della sfida e della ricerca. • Le altre dimensioni sono complementari a quelle “portanti” appena commentate.  Il sogno: Il sogno è l’ energia auto-realizzativa e, soprattutto, prefigurazione di un’altra età da raggiungere. E’ imparare la nozione di “corso della vita” e quindi è gioco cognitivo di pre-vedersi adulti, diversi da ciò che si è.  La trasgressione: La trasgressione è implicazione dell’eccezione e della ricerca dello stupore che deriva dall’intraprendere percorsi di avventura, costellati di rischi e imprevisti. Trasgredire è porre una sfida alle regole sociali. E’ una sorta di compito di sviluppo che però non può essere programmato dall’educatore.  Il successo e l’ostacolo: L’ostacolo e il successo sono, infine, momenti che non possono mancare e devono essere programmati lungo il tragitto pedagogico attivato. E’ un compito educativo caratteristico quello di prevedere quali ostacoli l’adolescente sia in grado di affrontare con qualche possibilità di successo. La peculiarità pedagogica consisterà nella specifica attenzione per le strategie cognitive che il soggetto deve imparare a dominare, esercitandole, per entrare nella vita adulta. E queste vengono educate grazie alle esperienze concrete che al soggetto è dato sperimentare. Una strategia cognitiva non è mai solo una dinamica di tipo mentale; quanto più l’adolescente ha la possibilità di “pensare facendo”, tanto più si confronta con ostacoli e successi come se operasse per emozioni oltre che per concetti. Compito dell’educatore è quello di facilitare le saldature, gli incontri, i momenti di comunicazione tra comportamenti cognitivi e comportamenti emozionali. 1.5 I minori stranieri non accompagnati Il fenomeno dell’immigrazione clandestina minorile, il processo d’integrazione in un Paese dai riferimenti culturali sconosciuti, la realtà sommersa nella quale vivono questi ragazzi in bilico tra lecito e illecito, da sempre suscitano un profondo interesse in tanti educatori. Le diverse nazionalità presenti nel mondo sono 197; nelle scuole italiane, ritroviamo ben 194 di queste nazionalità! L’Italia è un paese a tutti gli effetti multietnico-plurietnico. In questi ultimi decenni il nostro Paese, alla pari di altri Paesi europei, ha visto crescere la presenza di immigrati stranieri sul territorio: all’interno di questi flussi migratori il numero di minori stranieri è andato aumentato con ritmo sostenuto. Vi sono minori stranieri che arrivano in Italia per ricongiungersi con la famiglia, oppure immigrati assieme ai loro familiari. Tra questi non accenna a diminuire il numero di giovanissimi che arrivano clandestinamente nel nostro paese, soli, sprovvisti di documenti. Le domande che ci poniamo sono queste: chi sono i minori stranieri non accompagnati? quale significato assume l’adolescenza per questi ragazzi stranieri? Una circolare ministeriale stabilisce che per minore straniero non accompagnato si intende “il minorenne non avente cittadinanza italiana o di un altro Stato dell’Unione europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano”. suo posto, secondo una dinamica di reciprocità. 2.2 I minori come soggetti Il termine soggetto è un termine chiave e, probabilmente, il vocabolo centrale nell’ambito della riflessione pedagogica sui ragazzi difficili, in particolare appartiene al vocabolario della pedagogia fenomenologica. Il fatto di considerare un bambino/un ragazzo un soggetto non significa soltanto – banalmente e superficialmente – che egli è un individuo, un essere umano; vuol dire molto di più, poiché egli va visto come colui che è portatore di capacità di pensiero, di riflessione, di elaborazione delle esperienze, di interpretazione della vita. Anche un bambino è portatore di intenzionalità, della capacità di attribuire un significato alle cose viste, alle esperienze fatte, alle emozioni vissute, alle relazioni che ha abitato. Ciò naturalmente è vero in relazione alla sua età e ai suoi livelli di maturazione ma, in ogni caso – sia un bambino che a maggior ragione un adolescente – esprimono la capacità di pensare, di introiettare schemi mentali e criteri di giudizio e di tradurre tutto ciò in comportamenti. È come dire, in altre parole, che l’agire di un soggetto non è mai casuale, poiché è connesso strettamente alla sua personale elaborazione di quanto accaduto e vissuto precedentemente. Il fatto, ad esempio, che un bambino decida di fare il bullo o che un ragazzo commetta un furto o che, più semplicemente, egli non abbia voglia di studiare, dipende molto raramente – per non dire quasi mai – da un capriccio del momento, da una svogliatezza colpevole, da indolenza o noncuranza. I suoi comportamenti sono sempre sintomi di un disagio pregresso, sono legati alla sua personale biografia, ai suoi attuali bisogni, alle sue delusioni e alle sue speranze e a molto altro. Mettere al centro del lavoro educativo la soggettività ha conseguenze fondamentali sul piano educativo. Vuol dire: riconoscere che un bambino e un ragazzo non sono delle tabulae rasae o un contenitore da riempire, ma soggetti con una storia, con un patrimonio di emozioni, di sentimenti, di paure, di aspettative, di competenze, cui va data la possibilità di esprimersi e di essere ascoltato; riconoscere la sua responsabilità; riconoscere i loro diritti . Sul piano degli interventi educativi, consegue da quanto detto che l’agire dell’educatore non è mirato direttamente ai comportamenti, quanto alla sua coscienza intenzionale, vale a dire alle sue convinzioni, ai suoi schemi mentali. L’adulto deve avviare un processo di accompagnamento e di supporto del minore, capace di favorire la sua presa di consapevolezza dei suoi modi di pensare e di fare e del fatto che questi possano essere modificati. Il minore di età da oggetto di protezione a soggetto di diritti Il minore di età è un soggetto giuridico, titolare di diritti propri, riconosciuti dalla legge. Tali diritti rappresentano il riconoscimento giuridico dei bisogni specifici espressi dal minore, in quanto persona umana. La soggettività giuridica del bambino si è affermata gradualmente nel diritto internazionale dei diritti umani ed è, tutto sommato, una conquista relativamente recente. La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo (1989) - che riconosce al minore una lunga serie di diritti – rappresenta di fatto un vero e proprio spartiacque e segna il passaggio alla moderna concezione giuridica del minore di età. Se sul piano giuridico era già senza dubbio riconosciuta la capacità giuridica al minore in quanto persona, è stata la Convenzione a determinare l’effettivo superamento dell’idea che il bambino non fosse un soggetto giuridico a tutti gli effetti, ma partecipasse alla vita sociale solo indirettamente, come appendice dell’adulto, in ragione della sua “minorità”, della sua incompiutezza, del suo essere persona in divenire o, meglio ancora, “in potenza”. Benché sia indiscutibile che il minore necessiti di essere accompagnato, accudito, protetto, educato poiché, per ragioni di maturità, è incapace di prendersi cura e di tutelarsi da sé, non può però essere considerato solo come oggetto di tutela. Porre l’accento sulla sua soggettività giuridica consente allora di dare il giusto valore ai suoi specifici bisogni e diritti, di restituire al minore la sua individualità, svincolandolo da una posizione di appartenenza ad altri soggetti adulti o a gruppi (la famiglia, innanzitutto, ma anche, ad esempio, il gruppo etnico), i cui interessi venivano fatti prevalere. Con la Convenzione internazionale viene rovesciata la prospettiva e il minore è riconosciuto innanzitutto come un soggetto autonomamente titolare di diritti. Benché non sia ancora soggetto autonomo sul piano giuridico, poiché privo della capacità di agire, gli viene riconosciuta una sua autonomia sul piano degli interessi soggettivi. Questo ribaltamento rappresenta un cambiamento innanzitutto culturale, poiché il bambino non è più considerato come un soggetto “minore”, in attesa di compiersi, di divenire adulto, ma acquista completa dignità di esistere. Ne consegue che l’infanzia, la preadolescenza e l’adolescenza con le loro peculiarità, cessano di essere la semplice anticamera dell’età adulta per diventare a pieno titolo età della vita umana, cui va dato il giusto spazio e valore. Riconoscere soggettività giuridica al minore (di età) ha, quindi, sostanziali implicazioni non solo sul piano giuridico, ma più in generale sulla visione dell’infanzia, della famiglia, dell’educazione, delle politiche di protezione e tutela. Il bambino/il ragazzo non è proprietà indiscussa della sua famiglia. La sua tutela è attuata in forza di scelte compiute sulla base del suo superiore interesse e non di quello degli adulti che lo accompagnano o in nome della famiglia. L’educazione non è pratica di trasferimento di nozioni, regole, corretti comportamenti, contenuti appropriati all’insegna della moralità, ma un agire consapevole che tiene conto delle inclinazioni e aspirazioni del bambino e promuove la sua attiva partecipazione al proprio processo di crescita. 2.3 La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza L’atto normativo che contiene il più completo riconoscimento dei diritti dei minori di età è la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata a New York dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 e recepita nell’ordinamento italiano due anni dopo, con la legge n. 176 del 1991. La Convenzione ha visto la luce dopo un lungo processo di elaborazione e un’articolata negoziazione, durati un ventennio, che hanno influito sull’esito finale. Il testo approvato presenta, infatti, diverse soluzioni di compromesso, nate dai tentativi effettuati di mediare tra le diverse visioni culturali. Ciò nonostante, il trattato – grazie al contributo dei Paesi più innovativi e delle organizzazioni non governative che operano per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza - rappresenta un passo avanti importante, tanto da segnare, come sopra anticipato, uno spartiacque rispetto a due diverse concezioni sul minore e la sua tutela. Nell’intera Convenzione si percepisce in realtà la ricerca del giusto equilibrio tra l’istanza di riconoscimento dell’autonomia dei bambini e del loro diritto di esprimersi e autodeterminarsi e il contrapposto dovere dei genitori di proteggerli e guidarli. La credibilità e sostenibilità della Convenzione si gioca tutta sulla necessità di conciliare queste due legittime e contrapposte esigenze. I diritti previsti dalla Convenzione sono riconosciuti alle persone che hanno un’età compresa tra gli 0 e i 18 anni, escludendo così il nascituro e individuando tale età per il conseguimento della maggiore età. Ovviamente l’effettivo godimento dei diritti riconosciuti è fortemente influenzato dalle oggettive condizioni del Paese di appartenenza del minore di età. La Convenzione si suddivide in tre sezioni: la prima dedicata ai diritti riconosciuti, la seconda al previsto sistema di garanzie, la terza contiene alcune norme attuative. L’elenco dei diritti è piuttosto lungo e articolato (41 articoli su 54). Molti sono diritti già riconosciuti in altri atti internazionali con riferimento a tutte le persone e nella Convenzione vengono ripresi e adattati alla condizione peculiare del minore di età; in altri casi, invece, si tratta di diritti specificatamente legati all’infanzia e all’adolescenza, come ad esempio il diritto alla famiglia, al gioco, all’educazione. Inoltre la Convenzione riporta diritti di prima e seconda generazione, cioè sia diritti civili che economici e sociali, mentre restano esclusi i più recenti diritti di terza generazione legati alla pace, allo sviluppo, all’ambiente e alla bioetica. Nella Convenzione vi sono alcuni principi cardine che ne orientano la lettura e l’interpretazione, ne sintetizzano lo spirito e ne rappresentano al tempo stesso gli aspetti più innovativi:  Il principio di non discriminazione (art. 2), in base al quale i diritti sono riconosciuti a tutti i bambini e ragazzi, “senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza”.  Il “best interest”, in base al quale in tutte le decisioni relative ai minori di età, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, “l'interesse prevalente del fanciullo deve essere una considerazione preminente” (art. 3). Il che non significa che le decisioni adottate debbano essere orientate ad attuare la volontà del minore. Anzi, a volte i bambini devono essere protetti proprio dalla loro volontà, che può essere significativamente lontana dal loro reale interesse. La valutazione del migliore interesse del minore non può che passare attraverso l’ascolto dello stesso e, quindi, attraverso il riconoscimento del diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa (art. 12).  Il diritto alla partecipazione è il terzo principio cardine, che riassume l’essenza stessa della Convenzione. La nuova personalità giuridica del minore è determinata non solo dal fatto che gli sono riconosciuti una serie di diritti soggettivi, ma anche dal prevedere un suo ruolo attivo, dinamico nel processo di protezione e tutela. Il minore di età deve essere messo nelle condizioni di poter partecipare, non come spettatore ma da protagonista, nelle situazioni che lo interessano direttamente, ovviamente compatibilmente ai limiti dettati dalla sua età e dal suo grado di maturità. 2.4 Il diritto all’ascolto Il diritto del minore a essere ascoltato Il diritto del minore ad essere ascoltato è sancito dall’art. 12 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989, che stabilisce anche il diritto del minore ad esprimere la sua opinione sulle questioni di suo interesse e a vederla presa nella dovuta considerazione. Si tratta di due facce complementari: a. Una che vede il minore come parte attiva nell’esercizio del diritto riconosciutogli, che si concretizza nella manifestazione di un pensiero, di una volontà, di un desiderio; b. L’altra che coglie il minore in una dimensione più passiva, in quanto destinatario dell’attenzione dell’adulto. Complessivamente considerati, i due aspetti costituiscono la modalità principale con la quale il minore partecipa ai contesti di vita in cui è inserito: la famiglia, la scuola, il mondo dell’associazionismo, la comunità, la società di cui è riconosciuto cittadino a tutti gli effetti, etc. La tutela di tutti i diritti riconosciuti al minore passa innanzitutto attraverso un’effettiva implementazione dell’art. 12 nei suoi due aspetti costitutivi, poiché è solo attraverso la garanzia al minore che i suoi bisogni reali, e non presunti, possono essere conosciuti da quanti detengono nei suoi confronti responsabilità educative, di cura e di rappresentanza. L’ascolto diventa così uno strumento essenziale per l’individuazione del miglior interesse del minore, che è sì frutto dell’interpretazione dell’adulto, ma a partire anche dal punto di vista del minore, del suo sentire, dai suoi bisogni concreti, specifici, legati al suo essere e alla sua storia. La corretta pratica dell’ascolto consente quindi all’adulto educatore di instaurare con il minore una relazione feconda, generativa, nella quale le parti abbiano pari dignità, pur nel rispetto dei diversi ruoli e responsabilità. Solo in una relazione costitutivamente educativa potrà realizzarsi quel rapporto di giusta vicinanza che non vede il prevaricare di una delle due parti, ma il realizzarsi di un equilibrio – seppure in continua evoluzione – che consente all’adulto di accompagnare e non di sostituirsi, e al bambino/ragazzo di imparare gradualmente l’esercizio delle responsabilità che deriva dalla progressiva acquisizione di una reale autonomia. L’ascolto del minore come valore sociale L’attuazione del diritto del minore a essere ascoltato passa, in primo luogo, attraverso l’affermazione di una cultura dei diritti dei minori di età che promuova il rispetto della dignità del bambino-persona, la sua inclusione a tutti i livelli e una certa idea di migliore interesse del minore di età. Vi è la necessità, quindi, di una reale condivisione sul piano dei valori, affinché le pratiche siano avvalorate e sostenute da una dimensione etica forte e non da riferimenti teorici a principi che abbiano solo il sapore della retorica. Si tratta di creare una forma mentis, un atteggiamento verso l’infanzia fondato sui principi universali dei diritti umani e della democrazia. E’ necessario promuovere il più possibile la diffusione dello spirito e della logica dell’ascolto autentico, affinché diventi elemento centrale nella relazione con il minore, a tutti i livelli, penetrando nei diversi contesti di vita di bambini e ragazzi. Questa azione di promozione culturale richiede l’attivazione da parte degli Stati e, più specificatamente, delle loro amministrazioni locali, per la predisposizione di un ampio piano di formazione rivolto a famiglie, insegnanti, educatori, operatori sociali e sanitari, funzionari e amministratori pubblici, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine. Dovrà essere una formazione orientata alla trasformazione del pensiero sull’infanzia e, quindi, degli atteggiamenti, poiché solo cambiando la visio della società, a partire dalle categorie che svolgono in essa ruoli strategici, si potranno generare prassi nuove e sufficientemente condivise per potersi radicare. Le condizioni per implementare il diritto di ascolto A seconda del contesto, delle finalità e della situazione del minore coinvolto, l’ascolto può presentare un diverso livello di complessità e richiedere specifiche e diverse competenze tecnico-professionali. Tutte meritevoli della stessa attenzione. Le specifiche competenze professionali consentono non solo di affinare attitudini e curare il setting, ma anche di trattare correttamente i contenuti raccolti, di interpretarli adeguatamente. Tuttavia, vi sono alcuni elementi che dovrebbero caratterizzare ogni processo di ascolto, attraversando le diverse pratiche. Si tratta di alcune condizioni e caratteristiche dell’ascolto che il Comitato sui diritti del bambino ha indicato nel General Comment n. 12 del 2009, finalizzato a fornire agli Stati alcuni orientamenti interpretativi dell’art. 12 della Convenzione. Il Comitato individua un procedimento di ascolto articolato in cinque passi, che – debitamente adattati – sono suscettibili di essere applicati a tutti i contesti di vita del bambino. In generale, dovrebbe esserci: • Una fase preparatoria, dedicata a fornire al minore tutte le informazioni fondamentali: come si svolgerà l’ascolto, cosa succederà e chi sarà coinvolto; • Ascolto vero e proprio, che dovrebbe svolgersi possibilmente in forma riservata ed essere quanto più possibile autentico, garantendo al minore una piena libertà di espressione, senza condizionamenti esterni; • Solo successivamente, alla luce del grado di maturità appurato proprio attraverso l’ascolto, verranno valutate le opinioni del minore e verrà deciso quale peso attribuirvi. Alla valutazione dovrebbe seguire una restituzione al minore rispetto all’interpretazione e al peso attribuiti alle sue opinioni. Al minore dovrebbe quindi essere riconosciuta la possibilità di contestare sia l’interpretazione che le implicazioni pratiche derivare. • Infine, dovrebbe essere prevista la possibilità di un reclamo a un’istanza esterna, qualora si ravvisi che il minore non è stato affatto ascoltato o che la sua opinione non è stata tenuta in nessuna considerazione. Il Comitato individua anche una serie di caratteristiche che dovrebbero avere ascolto e sulla base delle quali poterne valutare il grado di effettività. L’ascolto deve essere: • Trasparente, nel senso che al minore deve essere chiaro il come e perché viene coinvolto; • Volontario, perché il minore non deve essere obbligato ad esprimersi; • Rispettoso del punto di vista del bambino; • Significativo ai suoi occhi, perché riguarda questioni che lui ritiene importanti; • Condotto con modalità appropriate all’età del bambino e non discriminatorie; • Sostenuto da adulti adeguatamente preparati; • Sicuro, cioè non suscettibile di esporre il minore a rischi e conseguenze negative; • Valutabile, non tanto in termini di efficienza con cui è stato condotto, ma di efficacia per i risultati che ha prodotto. 2.5 Il tema della partecipazione Implementare la partecipazione dei minori di età Dall’art. 12 della Convenzione si evince che per il minore partecipare significa essenzialmente poter portare all’attenzione degli adulti il proprio punto di vista sulle questioni giudica di suo interesse e vedere tale opinione presa debitamente in considerazione. Il bambino, fin dalla nascita, entra in relazione con il mondo e con gli altri ed è naturalmente predisposto a portare il suo punto di vista all’attenzione degli adulti, manifestando bisogni, emozioni, sentimenti. Più attenzione e incoraggiamento riceverà, tanto più sentita, desiderata, rivendicata sarà la sua partecipazione agli altri e alle cose. Ovviamente tale partecipazione si farà nel tempo più articolata e il ruolo esercitato dal minore diverrà più complesso, man mano che egli acquisterà competenze e autonomia. Dalla partecipazione come condivisione di emozioni ed esperienze  si passerà a una partecipazione da protagonista con la possibilità di avere un ruolo nei processi decisionali e, ad un livello ancora successivo, alla partecipazione come assunzione di responsabilità. una volta raggiunta la consapevolezza della propria incapacità a vivere in modo autentico. Non si tratta come nei casi precedenti di una reazione immediata e superficiale: lo stesso ragazzo è consapevole e capace di comprendere se stesso, anche se non riesce ad andare oltre questa comprensione. I comportamenti riconducibili a questa “iper-svalorizzazione” di sé sono essenzialmente di due tipi: quando il ragazzo possiede una sufficiente carica vitale egli tenderà a “precipitarsi” nella vita, cercherà di distrarsi dalla scomoda consapevolezza della propria insufficienza, impegnandosi in imprese capaci di offrire un brivido (es. atti di teppismo); quando al contrario, per varie ragioni, il ragazzo non possiede la carica vitale necessaria a questa reazione, può dar vita a gesti di autoannullamento, fino al suicidio. Un comportamento piuttosto comune negli adolescenti caratterizzati da assenza di intenzionalità è la tendenza ad unirsi ad altri coetanei mettendosi a loro completa disposizione. Gli esiti di queste aggregazioni hanno spesso il carattere dell’antisocialità nei confronti di tutto ciò che è esterno al gruppo. La distorsione dell’intenzionalità: la disperazione di voler essere se stessi Per altri minori si tratta di una distorsione dell’intenzionalità: un eccesso dell’io, una volontà assoluta di affermare se stessi, con un posto centrale ed esclusivo nella costruzione della realtà che paradossalmente rivela una fondamentale incapacità di comunicare con l’altro, destinato a diventare un esclusivo mezzo di affermazione di sé. Il soggetto cioè si rapporta al mondo attraverso una pratica di “fagocitazione” totale dell’oggetto, poiché egli si ritiene onnipotente. Manca la capacità di riconoscere i limiti oggettivi imposti dalle cose e dagli altri, quindi questi “ragazzi difficili” ritengono di poter disporre e fare di tutto. A questa visione del mondo che ruota attorno ad un eccesso dell’io possono essere ricondotti molti comportamenti centrati su manifestazioni di disobbedienza che giungono alla ribellione, di aggressività che si trasforma in violenza, di assenza di autocontrollo e di irresponsabilità. Quando l’altro non è riconosciuto come soggetto dotato delle stesse capacità dell’io, della stessa dignità e dello stesso valore, si arriva ad un suo totale rifiuto, ad una vera e propria incapacità di comunicare con l’altro. Secondo Bertolini le difficoltà cui questi ragazzi vanno incontro sono fondamentalmente di due tipi: 1. Quando la realtà quotidiana contraddice quel senso di tronfia sicurezza e onnipotenza il ragazzo si sente vacillare in uno stato di profondo abbattimento. Il mondo gli appare “contro”, ingiusto e ostile. Si tratta di una vera e propria disperazione esistenziale che, se non è tanto pericolosa a livello sociale, lo è invece per chi la vive. 2. Quando invece lo scarto tra l’idea di onnipotenza e i limiti della realtà interessa adolescenti carichi di vitalità, allora può emergere un vero e proprio desiderio di cambiamento e uno slancio a rivedere la propria condizione. Se però tale latente desiderio di cambiamento non incontra tempestive e opportune azioni educative, i soggetti rischiano di ricadere nel loro abituale modo di approcciare il mondo e, a volte, di esasperare i comportamenti antisociali fino a veri e propri atti delinquenziali. C’è ancora un altro tipo di atteggiamento che scaturisce da una visione del mondo centrata su una onnipotenza dell’io. Si tratta dell’atteggiamento maturato da quei ragazzi che stabiliscono mete troppo alte rispetto alle loro reali capacità. Lo scarto tra sé ideale e sé reale può provocare una sorta di paralisi dell’agire: l’adolescente diventa incapace di perseverare nello sforzo necessario a raggiungere quella meta, ma anche di riformularla e, in un certo senso, di ricominciare da capo. Come nei ragazzi privi di intenzionalità, anche questi caratterizzati da una distorsione dell’intenzionalità cercano nella compagnia, nell’aggregazione con altri coetanei una soluzione ai loro problemi. Dietro questi incontri non c’è però una vera apertura alla dimensione sociale: l’altro è essenzialmente uno spettatore del proprio esibizionismo narcisista. Differenze di genere A creare preoccupazione generalmente sono più i ragazzi di sesso maschile rispetto alle femmine, perché i loro comportamenti si manifestano maggiormente sul versante trasgressivo dell’attacco alla norma, della contestazione all’autorità. In ogni caso la sofferenza maschile tende ad essere espressa attraverso azioni, piuttosto che tramite sintomi interiori. Le ragazze costruiscono silenziosamente, lentamente nel tempo le forme più insidiose della manifestazione del dolore, della solitudine, della sofferenza e dell’angoscia: basti pensare ai disturbi della condotta alimentare, che rimangono a lungo silenziosi, latenti e si notano spesso in ritardo. Si nota ancora la differente declinazione ed interpretazione che maschi e femmine attribuiscono al processo di elaborazione della generatività, vale a dire all’acquisizione di competenze materne e paterne, che nelle ragazze sono evidenti, spettacolari, producono molteplici pensieri e fantasie, sogni e che nei ragazzi sono assolutamente silenziose e latenti perché essi non pensano in modo così esplicito alla paternità. Tale competenza rimane silenziosa, mentre nelle ragazze stimola una serie di pensieri e di preoccupazioni che le costringono anche a condotte di verifica e di collaudo a volte molto rischiose. Quindi maschi e femmine nella loro adolescenza, attualmente, seguono percorsi diversi e producono modalità differenti di espressione della sofferenza e del disagio. Sfiducia di base, vergogna, ritiro possono essere le dotazioni in negativo accumulatesi via via. Il giusto equilibrio relazionale tra genitori e figli viene alterato sia dallo stabilirsi di una eccessiva distanza interpersonale, sia dalla pratica di un iperprotettività invischiante. L’esperienza della vita in famiglia si rivela particolarmente problematica per una parte di ragazzi che vi trovano una fonte di accentuazione del proprio disagio. 3.2 La categoria della “difficoltà” L’esistenza di tali minori – definiti ragazzi difficili (è il titolo del libro di P. Bertolini non più disponibile) - è costellata da ostacoli, da difficoltà che sono tali per loro (è la personale interpretazione delle cose che vale) e che, di riflesso, fanno sì che essi siano considerati difficili dagli altri. Le difficoltà traggono origine da caratteristiche di personalità del soggetto, dalle esperienze familiari vissute, dagli ambienti di vita frequentati, dal contesto sociale, culturale, economico ma tutti questi fattori non hanno un carattere deterministico, altrimenti vorrebbe dire che tutti i ragazzi che vivono determinati problemi (personali, familiari, legati al contesto di vita) mettono in atto comportamenti devianti. NON È AFFATTO COSÌ, per cui ciò che è decisivo è la personale coscienza intenzionale, è la soggettiva elaborazione delle esperienze vissute; è l’insieme di significati attribuiti alle esperienze presenti e pregresse che inducono il ragazzo a ritenere che un determinato comportamento – quello considerato deviante – rappresenti una risposta adeguata alle sue istanze, ai suoi bisogni. La difficoltà è quindi la categoria chiave per comprendere pedagogicamente i fenomeni di marginalità e di devianza minorile. E’ la difficoltà a diventare soggetti: gli ostacoli che si sono incontrati e la personale interpretazione delle difficoltà sperimentate (i problemi, le possibilità, le chiusure, le aperture…). Essa è tale per il fatto che è stata superata quella determinata soglia di problematicità, al punto da richiedere un intervento esterno. Vuol dire che quel ragazzo si trova invischiato in una situazione dalla quale non è capace di sortirne da solo con le sue forze e neppure i genitori sono in grado di offrire un supporto utile. Necessita quindi un aiuto di carattere educativo, nelle diverse forme in cui ciò è possibile. 3.3 Alcuni concetti base Devianza Nel linguaggio scientifico, il termine devianza si riferisce ad un insieme molto ampio di comportamenti che prevedono la violazione delle norme sociali in una direzione disapprovata dalla comunità e con una intensità tale da superare il limite di tolleranza approvato dalla comunità stessa (Bertolini). Il concetto di devianza è oggetto di studio delle scienze umane da molto tempo; nel passato sono state soprattutto la psichiatria e la sociologia, basandosi su linee interpretative diverse, a dimostrare un certo interesse nei confronti delle persone che deviano; attualmente anche la pedagogia ha affrontato questa tematica fornendo contributi di notevole rilievo. All’inizio è stata utilizzata per indicare quell’insieme di comportamenti che infrangono il complesso dei valori riconosciuti come validi e fondanti, ma che non ancora violano il codice penale; in seguito si è incominciato a comprendere con essa anche quelle infrazioni che violano una norma del codice penale, cioè i reati per i quali è prevista una pena. Si parla di comportamento deviante non solo quando esso si oppone alle norme del codice vero e proprio, ma anche quando esce dal quadro di riferimento culturale; perciò il concetto di devianza è relativo, va correlato non solo con le leggi ufficialmente codificate dalla società ma anche con il complesso di convincimenti morali, costumi, idealità, valori che caratterizzano l’orientamento esistenziale di quella medesima società e che nel tempo sono destinate a mutare, così come idee diverse di ciò che è deviante variano da società a società, pur nel medesimo momento temporale. Per questo motivo la devianza non è un comportamento definibile in modo assoluto, ma in funzione del contrasto tra determinati comportamenti e le regole sociali vigenti in una comunità. La condotta deviante varia quindi nel tempo e nello spazio, perché dipende dal momento storico e dal contesto sociale in cui viene osservato il fenomeno; basta pensare per esempio al fatto che l’incesto, normale o tollerato in determinate epoche storiche, sia diventato in altre un reato gravissimo, o al fatto che il consumo di droga, punito in alcuni Paesi, sia consentito in altri. E’ relativo non solo alle leggi ufficialmente codificate dalla società, ma anche al complesso di convincimenti morali, costumi, idealità, valori che caratterizzano gli orientamenti di vita di quella medesima società. Cambia nel tempo, nello spazio. I comportamenti devianti assolvono a svariate funzioni: di riconoscimento, di individuazione, di strutturazione del tempo, di senso. Essi rispondono cioè a dei bisogni, a delle esigenze che le persone avvertono. La personale elaborazione/significazione che un bambino/ragazzo fa di tali bisogni si traduce in comportamenti socialmente inaccettabili che danno risposta a tali esigenze e ciò avviene a causa di una coscienza intenzionale distorta o assente. Molti sono stati gli studi sul tema della devianza (minorile e non), che hanno dato luogo a paradigmi interpretativi che utilizzano diversi approcci. Tali paradigmi tentano di interpretare i comportamenti devianti, di trovare una spiegazione, allo scopo poi di individuare azioni e modalità di intervento. Ad esempio: • L’approccio biologico: individua come spiegazione i tratti somatici, le configurazioni cromosomiche del soggetto deviante; • L’approccio psichiatrico e psicoanalitico: tratti della personalità, del carattere; • L’approccio psicologico-sociale: importanza delle condizioni ambientali di vita; • L’approccio ecologico: intreccio fra fattori individuali e sociali, culturali, economici, politici; • L’approccio sociologico: considera l’influenza dei rapporti di potere esistenti, le contraddizioni della società. Le caratteristiche principali di tali paradigmi sono le seguenti: • Sono caratterizzati dalla ricerca di una spiegazione causale, completa, rigorosa e predittiva della devianza: c’è sempre un nesso causa-effetto fra i fattori personali, o familiari, o ambientali, o sociali e gli agiti del soggetto; • Sono figli di un approccio deterministico (dottrina filosofica secondo la quale per tutti i fenomeni vi è una causa precisa, rispetto alla quale la volontà del soggetto non ha alcun potere); • Hanno lasciato una traccia profonda sul piano del senso comune (spesso gli eventi vengono giudicati con molta superficialità, individuando dei “colpevoli” e le “cause certe” dei loro comportamenti). Il paradigma pedagogico della devianza minorile Tra le varie teorie esplicative del comportamento deviante risulta particolarmente interessante quella pedagogico-fenomenologica di P. Bertolini, che ha influenzato in modo decisivo gli studi e le ricerche in tema di devianza minorile perché riconsidera il ruolo attivo del soggetto nell’itinerario deviante. Ciò che accomuna ragazzi in disagio, delinquenti, violenti, criminali, devianti ecc. è la difficoltà a diventare soggetti, a strutturare in modo adeguato la visione di sé e di sé ne mondo. Sul piano pedagogico tuttavia le differenze di comportamento che motivano le classificazioni non sono significative: sono classificabili i comportamenti antisociali, ma i bambini e i ragazzi NO!!! Possiamo quindi definire tali soggetti come soggetti difficili, così definiti perché difficile è la loro storia, ardua la costruzione della propria identità, problematica la valorizzazione della propria soggettività. La categoria pedagogica della difficoltà individua infatti quelli condizioni in cui la soglia della problematicità viene superata, provocando difficoltà tali da richiedere appropriate strategie di intervento. Tale categoria sottrae bambini e ragazzi a processi di etichettamento, guarda alle loro potenzialità evolutive e apre lo spazio all’intervento educativo. La lettura pedagogica della devianza minorile mette al centro il soggetto (il bambino, il ragazzo). Ogni bambino/ragazzo infatti ha la capacità di attribuire significati alla realtà (è chiamata intenzionalità). In altre parole, ogni bambino/ragazzo costruisce una propria, personalissima visione del mondo, poiché è un attivo e permanente elaboratore di significati. Egli elabora emozioni, relazioni, esperienze, incontri ed esprime tale elaborazione in comportamenti, che sono sempre l’esito di un processo personale di significazione della realtà, sulla base del quale il soggetto ritiene che quel determinato comportamento sia la risposta adeguata alla sua personale interpretazione delle cose Quindi riconoscere la soggettività del bambino/ragazzo ha delle conseguenze decisive sul piano del lavoro educativo, poiché significa che: • Lo sviluppo della persona è legato al tipo di rapporto che egli instaura con il mondo attraverso l’attività intenzionale della coscienza; • La sua crescita perciò non dipende solo da fattori interni o esterni che lo condizionano deterministicamente, ma dal suo attribuire un significato piuttosto che un altro a ciò che vive; • Egli è, almeno in parte, responsabile delle sue azioni; • È evidente che i fattori interni (tratti di personalità) e quelli esterni (familiari, ambientali, socioculturali) hanno la loro rilevante influenza; • Ma, in ultima analisi, è il soggetto che “decide” di mettere in atto un comportamento piuttosto che un altro in relazione al significato che egli attribuisce (spesso inconsapevolmente) alle cose, all’elaborazione che egli ha fatto delle esperienze pregresse e di quelle che sta vivendo. La sua interpretazione (la sua soggettività, il suo punto di vista) è decisiva! Marginalità Sul piano scientifico, risultano numerose le teorie che sono state formulate nei confronti della marginalità. Tali analisi sono state condotte inizialmente sul piano economico e solo in un secondo momento, grazie soprattutto al dibattito sulla crisi del welfare state, si è verificato un approfondimento a livello culturale e sociale che ha portato ad aggiungere sfumature e precisazioni a questa importante concezione. Il termine indica lo stato di colui che: - Si trova ai bordi, agli estremi della vita sociale; - È o che si sente secondario, non importante, escluso dai centri di interesse e di vita di una comunità. Lo stato di marginalità affettiva e relazionale è spesso fonte di sofferenza soprattutto per i bambini o gli adolescenti. Esso può produrre vissuti di non accettazione, abbandono e un profondo senso di svalorizzazione di sé. La marginalità sociale è considerata un fattore di rischio nello sviluppo dell’individuo a causa della eventuale presenza di altri fattori: • Esposizione a modelli di comportamento devianti; • Carenza di modelli o strutture educative; • Povertà di stimoli e di esperienze, di modelli vari e alternativi di vita; • Difficoltà di accesso al mondo del lavoro. Da questo punto di vista, uno stato di marginalità può trasformarsi (se perpetrato e non elaborato) in un processo di stigmatizzazione il cui valore simbolico può tradursi nella progressiva costruzione di sé come individuo marginale, ossia in un processo di costruzione identitaria che conferma l’altrui attribuzione o collocazione di sé in uno stato di marginalità. Bisogna sottolineare che per la riflessione pedagogica l’accezione più interessante di marginalità concerne l’esclusione dalla vita sociale, nel senso di non partecipazione alle decisioni importanti per la comunità locale o nazionale. P. Bertolini affronta il tema della marginalità ricollegandosi al concetto di “non partecipazione”; utilizza il termine “marginale” in riferimento a quegli individui che si trovano ai bordi, agli estremi della società e che conseguentemente si sentono secondari, non importanti, esclusi dai centri di interesse e di vita di una comunità. Afferma inoltre che lo stato di marginalità può essere considerato anche rispetto alla posizione di un individuo nei confronti di un gruppo; in questo senso, l’individuo marginale è colui che non partecipa, per una scelta deliberata o imposta dagli altri, alla vita di quel gruppo. Nel tempo in Italia il principio dell’istituzione totale e della gerarchia verticale è stato messo progressivamente in discussione: negli anni 60, primo in Italia, Franco Basaglia (medico psichiatra goriziano) ha attivato le prime sperimentazioni di “comunità terapeutica”, al fine di riorganizzare in modo orizzontale i rapporti interni alle istituzioni, portando sullo stesso piano i bisogni degli ospiti e le competenze degli operatori. Questa rivoluzione culturale, ha portato alla legge 180 del 13 maggio del 1978, comunemente chiamata legge Basaglia, che ha riformato l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, proponendo il superamento della logica manicomiale e promuovendo i diritti dei pazienti. La legge 180 ha contribuito all’espansione delle comunità terapeutiche che operano non solo nell’ambito psichiatrico ma anche in quello della tutela ai minori, della devianza, delle dipendenze e del disagio sociale in genere. Per passare dall’istituzione alla comunità terapeutica e/o educativa, si è riconsiderato il ruolo dell’ospite, non più quindi solo paziente; inoltre la permanenza in comunità è ripensata in funzione del superamento del disagio vissuto e non “per sempre”. Il fine della comunità è infatti quello di permettere alla persona accolta l’accoglimento e l’attraversamento della situazione problematica in cui è coinvolto, sia come soggetto attivo (si pensi alle dipendenze, ai disturbi psichiatrici etc.), sia come soggetto da tutelare (si pensi ai bambini allontanati dai nuclei famigliari originari per inadeguatezza della competenza genitoriale o per particolari condizioni in essere). Alcune caratteristiche ricorrenti delle comunità sono: • Essere attenti all’accoglienza. La comunità accoglie la persona, sospendendo il giudizio sulle sue condotte o su quanto può aver favorito il collocamento. In comunità si attiva l’esercizio dell’ascolto attivo che richiede apertura e ricettività dell’altro. Tutto questo implica un atto di disponibilità che a un insieme di azioni da parte dell’educatore e di un gruppo (l’equipe di educatori, ma anche l’insieme degli ospiti della struttura) tese a migliorare il benessere di un'altra persona riducendone lo stato di sofferenza e, quindi a migliorare le relazioni. • Coltivare la speranza. La comunità è in grado di vivere la quotidianità, spesso fatta di ripetitività di gesti, agganciando ciò che avviene a una prospettiva, ossia al futuro, senza aspettarsi cambiamenti eclatanti e miracolosi in tempi brevi. Il tempo è percepito come necessario per un cambiamento e l’esperienza dell’attesa è uno strumento pedagogicamente utile per rappresentare il valore del cambiamento stesso. • Promuovere la dimensione regolativa. La comunità si fonda sulla distribuzione dei compiti, sul rispetto delle regole e sulla chiarezza delle reciproche responsabilità. Spesso l’organizzazione giornaliera di una comunità ha una scansione del tempo che si ripete in modo prevedibile nei giorni (orario di sveglia, colazione, impegni di scuola, di lavoro etc.), per fornire sia un elemento di prevedibilità e quindi di senso di sicurezza, sia per ridare valore alla quotidianità e accrescere negli ospiti la possibilità di adempiere ai propri compiti. • Favorire la definizione di un progetto di vita. La comunità concentra l’impegno di coloro che vi sono accolti e che vi operano in funzione della definizione di un progetto di vita individuale, dove coincidano bisogni e capacità personali di colui/colei che costruisce il proprio futuro. La comunità ha il compito di fornire a ognuno opportuni elementi di valutazione nei confronti della realtà, per rendere questa ricerca un autentico processo educativo. • Valorizzare le dinamiche di gruppo. Il termine gruppo, in un’accezione psicopedagogica, viene usato per indicare quell’insieme di persone tra le quali esistono relazioni esplicite e reciproche, in modo che ciascuna di esse comprenda nel suo campo psicologico l’insieme delle altre e i diversi membri siano uniti da un sistema di interazioni dinamiche. Nel gruppo così inteso, ogni individuo, senza perdere la propria fondamentale autonomia, viene stimolato a lavorare insieme con gli altri. La convivenza è non solo un’esigenza organizzativa ma anche uno strumento molto importante per l’intervento educativo: lo scambio comunicativo intenso e regolamentato da norme, il feed back che ogni ospite può ricevere dagli altri (educatori e altri utenti), garantisce un continuo rispecchiamento. 4.3 L’Istituto penale per minorenni Sono 19 gli Istituti penali per i minorenni (IPM), assicurano l'esecuzione dei provvedimenti dell'autorità giudiziaria quali la custodia cautelare o l'espiazione di pena nei confronti di minorenni autori di reato. Si tratta degli istituti di Acireale, Airola, Bari, Bologna, Cagliari, Caltanisetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Milano, Nisida, Palermo, Pontremoli, Potenza, Roma, Torino, Treviso. A questi vanno aggiunti gli istituti di Lecce e L’Aquila, attualmente chiusi per ristrutturazioni. Sezioni femminili si trovano a Milano, Nisida, Roma e Torino. Pontremoli è l’unico istituto femminile. Quanto ai destinatari, si tratta di tutti i ragazzi e le ragazze che in età compresa fra i 14 e i 18 anni hanno infranto il codice penale. L'esecuzione della pena negli IPM però può prolungarsi, ed il caso è molto frequente, fino ai 21 anni. Il sistema della giustizia penale minorile oggi è incardinato attorno al D.P.R. n. 448/88, ovvero il Codice di procedura penale per i minorenni. Sono molte le innovazioni introdotte al fine di garantire un processo che davvero risponda a quanto sancito dall’art. 40 della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia, che riconosce a ciascun minore “sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di un reato il diritto a un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima”. L’esito è un processo orientato, in ogni sua fase, alla sua preminente finalità rieducativa, rapido nel suo svolgimento e volto ad una altrettanto rapida uscita dal circuito penale stesso. Anche il carcere minorile può essere in grado di assumere una valenza educativa e non semplicemente segregante, omologante e di contenimento. L’Istituto come risorsa ha come specificità quella di non mostrarsi esplicitamente come tale, bensì di rimanere nell’ombra finché la professionalità e la competenza di un educatore non la individuano; essa permette ai ragazzi, inseriti in una condizione di coercizione e impedimento, di esercitarsi nell’abilità di conciliare le proprie aspirazioni ed esigenze con i vincoli che la vita in una comunità impone necessariamente. In carcere, dunque, è possibile apprendere una modalità di progettazione della propria vita adeguata alle variabili contestuali, senza che ciò implichi rinunciare ai propri desideri. Alla luce di questa considerazione l’Istituto Penale Minorile detiene la funzione di “contenimento emancipativo”, poiché - anche se si presenta come contesto di limitazione del movimento mentale e fisico, a causa della strutturazione rigida a livello di orari, attività e spazi - consente di imparare a convivere con i vincoli, a rispettarli e ad utilizzarli a proprio favore e beneficio. 4.4 Una rete di protezione e tutela La protezione e la tutela dei minori di età compete a vari soggetti - istituzionali e non - che sono chiamati ad agire in rete e a integrare così le loro diverse competenze, nell’adempimento delle responsabilità che la legge attribuisce loro. Il principale riferimento normativo è rappresentato dalla legge n. 328 del 2000 , Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Alla base di questo nuovo modo di agire nel sociale vi è una precisa idea di cittadino: • Non portatore di una richiesta specialistica  ma di una molteplicità di bisogni; • Non destinatario di una prestazione nell’ottica puramente assistenzialistica  ma di una protezione sociale attiva, cui egli stesso partecipa con le proprie capacità e risorse; • Non utente di un servizio specialistico  ma soggetto appartenente a più reti (rete primaria o personale, rete sociale, rete dei servizi). La programmazione e organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali si realizza innanzitutto secondo il principio di sussidiarietà, nella duplice valenza: • di “sussidiarietà verticale”, (che indica un criterio di distribuzione delle competenze tra lo Stato e le autonomie locali, in base al quale l’ente gerarchicamente superiore interviene solo per surrogarne l'attività dell’ente inferiore, laddove le sue risorse e capacità non consentano di raggiungere con efficacia ed efficienza l'effettuazione di un servizio); • di “sussidiarietà orizzontale” (che si ha invece quando attività proprie dei pubblici poteri vengono svolte da soggetti privati, in un’ottica non di supplenza, ma di collaborazione alla costruzione di una rete di servizi alla persona). Ai professionisti del mondo pubblico e privato – compresi gli educatori professionali e gli insegnanti - è quindi richiesto di maturare nuove capacità, prima fra tutte quella di lavorare in rete, ossia di mobilitarsi attorno a problemi rispetto ai quali si è maturata una visione comune e di agire in modo integrato e coordinato sia per la programmazione degli interventi che per la loro attuazione e verifica. Il lavoro di rete non è solo un approccio ma una precisa metodologia che richiede lo sviluppo di adeguate attitudini e competenze. Presuppone inoltre la creazione di un sistema strutturato e visibile, poiché la rete non è data ma va costruita sia tra i soggetti che tra le singole persone che li animano. Fondamentale è dunque l’esistenza di connessioni continue e fertili tra le parti e tra le parti e il centro, attraverso un’azione efficace di coordinamento e di cura delle relazioni. I principali attori della rete di protezione e tutela del minore di età. La rete sociale che si attiva per la tutela e protezione degli interessi dei minori di età, e in particolare di quelli che vivono situazioni più o meno gravi di difficoltà, è molto articolata e coinvolge soggetti sia del privato sociale, che del mondo pubblico amministrativo e giudiziario. Vi è innanzitutto il bambino o ragazzo che vive la situazione di disagio, intesa nel senso più ampio del termine, che può andare dalle difficoltà più semplici, spesso passaggi costitutivi nel percorso di crescita, al “grave pregiudizio”. Il minore di età è il protagonista dell’intervento di protezione, che – per essere efficace - deve essere costruito a sua misura e con la sua imprescindibile collaborazione. Egli è, infatti, la risorsa prima e più importante da attivare per il ristabilimento di una situazione di benessere o per la prevenzione di un rischio di pregiudizio o di pregiudizio. Salvo i casi di particolare gravità in cui è richiesta l’azione dell’autorità giudiziaria, ogni intervento deve essere realizzato con il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale. Vi sono poi i soggetti territoriali: gli enti locali e le Aziende sanitarie o sociosanitarie. La titolarità della tutela dei minori spetta al Comune, che può però delegare alle Aziende le funzioni in campo sociale. Sono di competenza dell’Azienda Ulss gli interventi sanitari e sociosanitari di diagnosi e cura rivolti sia al minore che alla sua famiglia. L’Azienda Ulss assicura, inoltre, la programmazione, la progettazione e la gestione dei servizi sociali, in relazione alle deleghe conferite dai Comuni e sulla base degli indirizzi espressi dalla Conferenza dei Sindaci. • Quando un bambino o un adolescente viene temporaneamente allontanato dalla sua famiglia, la legge prevede che sia accolto da una famiglia affidataria; quando ciò non è possibile, dispone il suo inserimento in una comunità di accoglienza. Le famiglie affidatarie sono dunque disponibili ad accogliere temporaneamente bambini e ragazzi all’interno di progetti predisposti e realizzati con i servizi sociali e finalizzati, per quanto possibile, al recupero delle funzioni genitoriali e di cura della famiglia di origine. I rapporti del minore con la famiglia d’origine, salvo precisa diversa disposizione, non solo non vengono interrotti, ma devono essere favoriti. La famiglia affidataria che accoglie il minore deve provvedere alla sua cura, educazione e istruzione e accompagnare il minore nella quotidianità della vita sociale e scolastica. Poiché, tuttavia, non sono titolari della responsabilità genitoriale, sulle questioni più rilevanti decidono i genitori o, in alternativa se nominato, il tutore legale. • La comunità di accoglienza svolge le medesime funzioni della famiglia affidataria. Sono, pertanto, gli operatori/educatori della comunità che mantengono i rapporti ordinari con la scuola e con i servizi. Rimangono anche in questo caso in capo ai genitori esercenti la potestà o al tutore legale le decisioni più importanti. Le comunità devono essere autorizzate e sostenute sulla base dei requisiti e degli standard stabiliti dalla Regione. • Il minore che non ha più i genitori o i cui genitori sono stati privati della potestà genitoriale o non possono esercitarla, è rappresentato da un tutore legale. Di solito si tratta di un parente del minore, ma l’autorità giudiziaria (giudice tutelare o, talvolta, tribunale per i minorenni) può decidere di attribuire tale funzione a un adulto che non ha legami di parentela con il minore. Il tutore è responsabile della cura del minore d’età, lo rappresenta in tutti gli atti civili e, qualora ci siano, ne amministra i beni. Tra le competenze del tutore non rientra invece l’accudimento quotidiano del minore, che spetta alla famiglia affidataria o alla comunità di accoglienza. Il tutore svolge le sue funzioni secondo le prescrizioni del giudice e si relaziona principalmente con il servizio sociale che segue il minore; inoltre si coordina con la comunità di accoglienza o la famiglia affidataria, affiancandola per le decisioni più importanti o che hanno comunque conseguenze legali. Il tutore fa partecipare il minore d’età alle decisioni che lo riguardano, in modi adeguati alla sua età e maturità, e si fa suo portavoce per tutelarne gli interessi e difenderne i diritti. Le principali funzioni della Regione in materia di protezione e cura dei minori di età sono le seguenti: • Stabilire l’indirizzo e la programmazione dei servizi sociali e sociosanitari; • Garantire e controllare la qualità dell’assistenza sociale e sociosanitaria fornita dai servizi territoriali; • Effettuare il monitoraggio sulle comunità di accoglienza e sui minori d’età accolti, così come sui • minori in affidamento familiare su decreto del Tribunale per i minorenni. In alcune Regioni la rete di tutela è arricchita dalla presenza del Pubblico Tutore dei minori, un’istituzione indipendente di garanzia, che opera per la promozione e tutela dei diritti dei minori di età. Il Pubblico Tutore dei minori non esercita la tutela giurisdizionale dei diritti, che è di competenza dell’autorità giudiziaria, né esercita funzioni assistenziali, proprie dei servizi sociali, ma opera al confine tra questi due ambiti. Si occupa principalmente di: • Formazione di tutori legali volontari; • Vigilanza sull’assistenza prestata ai minori d’età che vivono fuori della propria famiglia; • Attività di promozione culturale; pareri sulle proposte di legge e atti di governo regionale riguardanti i bambini; • “Ascolto” di situazioni segnalate da singoli, associazioni, servizi territoriali, scuole, ecc., riguardanti situazioni di violazione dei diritti dei minori, sulle quali fornisce orientamento, consulenza, azioni di composizione e mediazione dei conflitti. Le competenze spettanti all’Autorità giudiziaria per la tutela dei minori di età sono distribuite tra vari soggetti: • La Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, che ha competenza regionale, riceve le denunce di reati commessi da minorenni, svolge le indagini preliminari ed esercita l’azione penale davanti al Tribunale per i minorenni oppure chiede l’archiviazione del caso; valuta le segnalazioni di situazioni di pregiudizio o di abbandono di minore di età che vengono inviate dai servizi sociali, dalle forze dell’ordine o da altri soggetti (cittadini e volontariato sociale), finalizzate alla tutela civile del bambino o ragazzo; se ne ravvisa le condizioni, dà seguito alle segnalazioni ricevute richiedendo, tramite ricorso, al Tribunale per i minorenni di pronunciarsi adottando misure quali la dichiarazione dello stato di adottabilità, la decadenza, sospensione o limitazione delle responsabilità genitoriali, l’allontanamento del bambino dalla residenza familiare, ecc.. residenza familiare. • Il Tribunale per i minorenni è il principale organo giudiziario di tutela dei minori. Ha competenza su tutto il territorio regionale per le questioni civili e amministrative attinenti ai minori e per quelle penali quando il minore è autore di un reato. Il Tribunale decide sui ricorsi presentati dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni o dalle parti private legittimate. In particolare, dichiara lo stato di adottabilità, pronuncia la decadenza, la sospensione o la limitazione delle responsabilità genitoriali; dispone l’allontanamento dalla famiglia di un minore che si trovi in una situazione pregiudizievole, ecc. Il Tribunale giudica i minori d’età accusati di aver commesso un reato e adotta le misure penali previste dalla legge. • Presso ogni Tribunale ordinario c’è un magistrato che svolge anche il ruolo di giudice tutelare. Le sue principali competenze, a proposito dei minori d’età, sono: nominare il tutore legale e sovrintendere alla tutela; rendere esecutivo l’affido familiare o l’inserimento in comunità tutelare disposto dal servizio sociale con il consenso dell’esercente la potestà e vigilare sull’affido per i primi due anni (poi la competenza passa al Tribunale per i minorenni). • Quando un adulto viene accusato di aver commesso un reato in danno di un minore di età, l’azione penale è di competenza della Procura ordinaria, che segnala la situazione alla Procura minorile se ravvisa gli estremi per intervenire sulla tutela civile del minore d’età. • Anche il Tribunale ordinario ha alcune responsabilità nella tutela del minore: in sede civile, decide sull’affidamento dei figli minori in caso di separazione o divorzio dei genitori coniugati e sulle questioni economiche relative ai minori; in sede penale, giudica un maggiorenne accusato di un reato in danno di un minore d’età. Della rete di protezione del minore fa parte anche la Scuola, un’istituzione diversificata per ordini che seguono la crescita degli alunni. I primi tre ordini di scuola – la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e quella secondaria di primo grado, sono raggruppati in Istituti Comprensivi – come previsto da una recente legge statale -, che prevedono un’unica dirigenza pur mantenendo specificità proprie. Le scuole possono lavorare in rete con le Aziende Ulss, con gli enti locali, con realtà di privato sociale come le cooperative, con professionisti esterni privati, con il Pubblico Tutore dei minori. Più che le tecniche, lo sguardo sulle proprie vulnerabilità Nelle età pretecnologiche, la tecnica è sempre stata pensata come un mezzo. E gli scopi li assegnavano gli uomini. Oggi la tecnica non è più un mezzo perché, essendo diventata la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, essa diventa il primo scopo: ciò cui ci si rivolge, innanzitutto, e alla cui conquista tutti gli uomini tendono. Se la tecnica, dunque, precede tutti i significati che l'uomo può porre, finisce col prevalere e col sostituirli, annullandoli. Tale pre-condizione si manifesta anche nell’ambito educativo. Tecniche di ascolto, tecniche di comunicazione, tecniche di relazione sembrano aver preso il sopravvento, quasi a ovviare al senso di smarrimento che ci coglie nel momento in cui non sappiamo che cosa fare. Come se non fosse possibile pensare che quello stesso senso di smarrimento, se elaborato, potrebbe dirci molte cose sul significato che quell’esperienza sta avendo. L’aspetto cruciale, in tutta questa faccenda del lavoro educativo è invece la necessità di elaborare in modo sostanziale le tematiche relative alle funzioni educative e all’intenzionalità educativa. La tecnica è importante, ma nasce da un approfondimento forte dei propri quadri di riferimento teorici e concettuali. Avere chiarezza rispetto ai propri obiettivi espliciti e impliciti, alle proprie rappresentazioni del sé professionale, dell’altro e del luogo su cui si va a lavorare, alle proprie competenze teoriche, è forse il metodo che permette maggiormente di individuare la tecnica necessaria nel qui e ora della relazione sulla strada. Costruire una relazione con un minore non rimanda a una tecnica unica che è sempre efficace e permette di sentirsi rassicurati per il fatto di possederla; significa piuttosto accogliere, avvicinarsi e, dentro il contatto, provare a sentire le possibilità di incontro attraverso i bisogni e le resistenze che egli esprime e che entrano in rapporto con ciò che siamo noi. L'ascolto dei propri fantasmi dell'educare Il saper ascoltare l’altro non è mera applicazione di tecnica, ma deriva dalla capacità di ascoltare innanzitutto se stessi. Bucciarelli sottolinea a tal proposito come l’educatore debba poter aprire dentro di sé zone di vulnerabilità, dove ciò non significa rimuovere le proprie idee e i propri sentimenti ma, al contrario, dedicare attenzione a ciò che dentro di noi accade al fine di identificare i nostri punti deboli: non riconoscerli può condurre a confondersi con l’altro. Non è un caso che si sia accennato alla capacità di ascolto di sé, perché da qui parte l’evoluzione delle proprie competenze. Sapersi ascoltare è una capacità che apre le porte a molte altre abilità, nel senso che le rende più autentiche. Ascoltarsi significa cogliere anche quelle parti di noi che non piacciono, quegli affetti, quelle emozioni e quei bisogni che possono essere personalmente e professionalmente inaccettabili. È importante allora non idealizzare la figura dell’educatore di strada, non caratterizzarlo come un superuomo, ma partire da un riconoscimento della sua umanità. Ogni educatore è mosso da “fantasmi”, intesi come spinte implicite e non consapevoli che hanno a che fare con la sua storia e che lo muovono nella relazione d’aiuto. Non avere consapevolezza di tali fantasmi significa coprire i propri bisogni attraverso la relazione con l’altro e quindi confondersi con esso; averli presenti, al contrario, può costituire una risorsa perché permette di fare chiarezza sui veri bisogni dell’altro. Sono molti i “fantasmi” che animano un educatore: • • Il formatore: colui che vuole offrire una buona forma o una forma ideale a ciò che ritiene dannoso o inadeguato. Il rischio è di privare l’altro della propria esperienza e dei propri vissuti. • Il maieuta: colui che desidera far emergere dall’altro il “buono”, le possibilità inespresse. Il rischio è non permettere all’altro di essere anche indisponibile e “cattivo” di fronte a un educatore così valorizzante. • Il terapeuta: colui che è mosso dal desiderio di guarire l’altro da una qualche malattia che viene ricercata in modo spasmodico. Il rischio è trovare una spiegazione a tutti i costi che di fatto poi impedisce di comprendere i meccanismi e le dinamiche sottostanti certe situazioni. • L’interpretante: colui che cerca di ricondurre le esperienze a una connessione causale tra fatti, vissuti e conseguenze, dove tutto è sempre interpretabile. Il rischio è precludere all’altro la possibilità di trovare i suoi propri significati alle sue esperienze e ai suoi vissuti. • Il militante: colui che induce a credere che le trasformazioni sociali dipendano dalla presa di coscienza di gruppi marginali non favoriti dalla società. Il rischio è agire in base a una visione in bianco e nero, dove ci sono i buoni e i cattivi e non esiste spazio critico di riflessione sulle complessità esistenti. • Il riparatore: colui che si assume il compito di riparare i mali del mondo attraverso il sacrificio di sé, mosso dal bisogno di sentirsi necessario. Il rischio è tendere a mantenere situazioni in cui si possa sentire indispensabile, bloccando inconsciamente percorsi di cambiamento. • Il trasgressore: colui che ritiene la società causa di repressione e si fa carico di sollecitare la spontaneità, il piacere delle provocazioni e la dimensione della “festa”. Il rischio è indurre nell’altro modalità trasgressive a ogni costo che poco hanno a che fare con i suoi propri bisogni. • Il distruttore: colui che, nel vedere il disagio dell’altro, sente di avere un ruolo forte e necessario. Vedere l’inadeguatezza dell’altro fa sentire maggiormente adeguata la propria persona. • Il turista del disagio: colui che vive il lavoro educativo nelle situazioni di difficoltà come una fase temporanea, dove ci si mette alla prova e, se vittoriosi, si guadagna l’accesso ad un altro ruolo professionale o nell’area sociale o anche in un’area completamente diversa. • Il sopravvissuto: colui che ha vissuto in prima persona situazioni analoghe a quelle cui deve far fronte e sente di dover fare qualcosa per coloro che da certe situazioni non sono usciti. Il rischio è privare gli altri della loro storia sentendosi autorizzato a interpretare i bisogni dell’altro. I fantasmi non vanno eliminati e non vanno nemmeno utilizzati in modo accusatorio e colpevolizzante; vanno riconosciuti perché presenti in modo più o meno potente in coloro che operano in relazioni educative o in relazioni d’aiuto. Poterli riconoscere significa evitarne la pericolosità e amplificarne gli effetti di aiuto e di sollecitazione che comunque possono portare in sé. 5.2 La relazione educativa La capacità di costruire una relazione educativa pedagogicamente fondata, in cui le dimensioni affettive e sociali siano commisurate ai bisogni e caratteristiche del singolo, agli obiettivi dell’intervento educativo, flessibili alle circostanze e ai cambiamenti che via via la relazione stessa produce, è parte integrante della competenza professionale dell’educatore (P. Bertolini). Bertolini ce lo ricorda chiaramente: la relazione,in educazione è il nucleo centrale di un qualsiasi intervento che si prefigga un cambiamento o una nuova conoscenza. La relazione è un particolare legame, un’esperienza esistenziale di cui l’educatore riconosce l’evolversi e ne orienta il procedere, mentre l’educando ne vive il beneficio o quantomeno sperimenta una diversa forma di legame, partecipandovi in modo attivo e dinamico. L’incontro con l’altro inaugura una relazione affettiva e di reciproca conoscenza ma non sempre questa si caratterizza come educativa. La relazione è tale poiché possiede la componente della responsabilità, intesa come atteggiamento reciproco orientato a prospettare un cambiamento sul piano della trasmissione dei valori, delle regole, della crescita dell’individuo, dell’acquisizione di strumenti, linguaggi e ruoli sociali e culturali. M. Buber, filosofo, teologo e pedagogista, ha ampiamente scritto circa l’idea che la vita è intersoggettività tanto da affermare che all’inizio è la relazione: questo è il fatto originario e fondamentale dell’esperienza umana; l’uomo si fa nel Tu. Ciò a indicarci che, anche in un rapporto asimmetrico come può essere inteso quello fra operatore e una persona in difficoltà, entrambi i soggetti coinvolti compartecipano in ugual misura all’esito della relazione stessa, esprimendo entrambi una propria intenzionalità. Secondo l’approccio della pedagogia fenomenologica, valorizzare la soggettività significa chiedere ai singoli individui di prendere coscienza del proprio responsabile coinvolgimento nel costruirsi una storia personale e di agire in una logica inedita di intersoggettività, cioè nel contesto di relazioni rinnovate. Gli operatori dell’educazione sono ordinariamente e quotidianamente in relazione: tali figure professionali conoscono i metodi e le strategie, ma anche coloro, i minori, che vivono un disagio o una sofferenza vanno pensati come esperti della propria condizione e pertanto parte integrante della relazione e non destinatari passivi delle iniziative dell’adulto. In educazione la relazione precede qualsiasi altro obiettivo, perché non può esserci meta da raggiungere se non insieme a colui con cui ci è stato chiesto di camminare, o che ci ha chiesto di camminare insieme: tutto questo prevede un processo, un dinamico divenire. Alcune attenzioni importanti La relazione non si può imporre, va costruita ed esiste anche quando si presenta come conflittuale: è quindi fondamentale la capacità di accoglienza, di accogliere il bambino/ragazzo nella sua globalità. Non si può chiedergli di essere lui a doversi adeguare alla relazione, ma sarà il professionista della relazione, l’educatore, ad aprirsi alla disponibilità all’incontro, impegnandosi a trasformare le tante richieste del soggetto in “significati” a lui utili per ripensarsi. Il riconoscimento dell’altro nei termini di un’accoglienza incondizionata della persona non è cosa facile, perché richiede il superamento dei propri naturali pregiudizi e la disponibilità a credere e a scommettere nelle capacità che sono nell’adolescente, anche solo a livello potenziale. Una fiducia che l’adulto deve manifestare visibilmente anzitutto riconoscendo gli interessi propri del soggetto. Ogni interesse, infatti, anche quello giudicato dall’adulto come infantile, rappresenta un potenziale tema generatore del processo di maturazione e di significazione. Per far questo occorre scegliere di partire dall’attuale livello di maturazione e di interesse, iniziando ad affrontare anzitutto i bisogni più immediati e a provocare l’impiego delle risorse già presenti. E’ centrale l’ascolto, come capacità di far sentire il minore apprezzato e come disponibilità a dar fiducia a quanto lui stesso dice. L’ascolto ha anche una capacità contenitiva rispetto al disagio. Spesso si ha l’impressione che il soggetto chieda un’occasione di ascolto dove poter esprimersi liberamente, quasi con la speranza di chiarire anzitutto a se stesso quali possano essere i motivi del proprio malessere. La narrazione di sé, in altre parole, favorisce la presa di coscienza e la visibilizzazione della propria ricerca interiore offrendo parole e significati che la definiscano. Per questo è necessario ascoltare l’adolescente escludendo ogni giudizio e colpevolizzazione (epochè), perché possa così comprendersi e individuarsi. E’ necessario comunque che l’adulto sappia esprimere nei confronti del minore un atteggiamento di interesse e di vicinanza, funzione così profonda per la quale lo stesso silenzio può bastare. Per i ragazzi e le ragazze il semplice stare l’uno accanto all’altro, in una vicinanza gratuita, non funzionale ad uno scopo, ha una grande importanza. Riconoscere l’altro significa ancora evitare ogni sua manipolazione perché possa esprimere la sua originalità. Più concretamente l’accoglienza e la fiducia dovranno tradursi nel riconoscimento della libertà del minore (in particolare l’adolescente) di progettare il proprio futuro in modo personale. Pur continuando ad essere affiancato con discrezione dagli adulti, il sentirsi protagonista gli permette di vivere ciò che fa come frutto delle proprie capacità e della propria originalità, piuttosto che del condizionamento che gli adulti esercitano su di lui. La possibilità di provare a realizzare propri sogni, di progettare proprie iniziative, di agire in prima persona per trasformare la realtà, di negoziare con le altrui diversità, di assumere proprie responsabilità, permette all’adolescente di costruire una biografia sentita veramente come propria. Tentando di fare una sintesi, l’interazione educativa è caratterizzata dai seguenti “ingredienti”: • Intenzionalità: è l’educatore/insegnante che connota la relazione sul piano educativo, che le dà una direzione di sviluppo, che la orienta a rafforzare nel minore la consapevolezza delle proprie capacità e possibilità, e non favorisce la dipendenza dall’educatore o dal docente; • Fiducia: l’adulto è una persona credibile, da cui ottenere incoraggiamento, sicurezza; non usa paternalismi o sdolcinature fuori luogo; • Coinvolgimento: mettersi in gioco, individuando la giusta vicinanza; • Componenti cognitive: pensiero, riflessività, apprendimento…; • Componenti affettive: accettazione, rifiuto, dipendenza, contro dipendenza; • Componenti emotive: gioia, tristezza, collera, paura…; • Quotidianità: è il normale setting dell’educatore e dell’insegnante; • Reciprocità: nessuno educa nessuno…; • Autorevolezza: capacità di ascoltare e di farsi ascoltare; • Empatia: significa prendere confidenza con la propria corporeità e la propria immaginazione, entrambe necessarie per cogliere le risposte emotive che vengono suscitate in noi dall’ascolto: empatizzare significa sentire dentro l’altro; • Entropatia: P. Bertolini amplifica il concetto di empatia, indicando l’entropatia come l’atteggiamento esistenziale necessario per realizzare un’autentica comprensione dell’Altro e quindi della sua visione del mondo; in questo modo l’ educatore non si limita a cogliere i vissuti contigenti del minore, ma cerca di cogliere il modo in cui egli interpreta e vive la sua vita; • Processualità: caratterizzata da tempi non prevedibili, che vanno conosciuti, progettati e rispettati e non affrettati, magari per il desiderio di vederne l’esito. L’adulto nella relazione Nell’incontro, per il solo fatto di esserci, al di là della propria età, dell’esperienza e della formazione acquisita, ciascuno è risorsa per l’altro. Il pedagogista P. Freire diceva: Nessuno educa se stesso; nessuno educa nessuno, ci si educa tutti insieme. Un educatore che non sia capace di mettersi in discussione non è facilmente accettato dai ragazzi. C. Bucciarelli scrive che il modo migliore per educare gli adolescenti sta proprio nel recupero della propria umanità, intesa come cammino di maturazione mai pienamente realizzato. Per comunicare efficacemente ed entrare così in una produttiva relazione umana ed educativa con gli adolescenti, all’adulto occorre saper morire a certi atteggiamenti per rivivere e far rivivere: essere cioè un vivente e non un vissuto. Bucciarelli indica quindi tre opzioni: 1. Nella prima descrive come per i ragazzi non sia sostenibile una relazione di esemplarità che faccia dell’educatore un personaggio agli occhi dell’educando. La creazione del personaggio impedisce anche la comunicazione dell’adulto con se stesso, con le sue ansie, con la problematicità della vita, divenendo così la causa principale di una inautentica relazione educativa. L’adulto preoccupato di nascondere i propri limiti e le proprie incertezze, oltre che inautentico, diverrà per i ragazzi e per le ragazze un obiettivo frustrante perché irraggiungibile. 2. Nella seconda opzione l’autore auspica la morte dell’educatore salvatore che non ha bisogno di essere a sua volta salvato. E’ il caso di quegli adulti-educatori che desiderano aiutare i ragazzi a crescere, ma lo fanno volendo trasmettere, più o meno esplicitamente, i propri giudizi di valore e non mettendo in moto la loro libertà individuale. In questo caso è importante che l’adulto accetti la propria impotenza e riconosca che l’adolescente ha diritto alla sua esclusione, a essere un altro. 3. Nella terza opzione l’autore auspica anche la morte del maestro compiuto, che non ha a sua volta bisogno di imparare. Gli adolescenti esigono da noi competenza e professionalità, ma tali qualità devono emergere da esseri umani, umanizzati, pronti e disposti innanzi tutto ad ascoltare, a dialogare, ad imparare, a chiedere un parere, a chiedere scusa, a parlare con tolleranza, a intessere rapporti franchi e leali, senza nessuna paura di perderci in autorità e in dignità. La relazione ri-educativa con gli adolescenti “difficili”: alcune specificazioni Nei ragazzi “difficili” un senso di avvilimento, di rinuncia e di fatalismo caratterizza l’esistenza. Anche gli atteggiamenti provocatori, spavaldi, rivendicativi rispetto al proprio modo di vivere, manifestano a uno sguardo entropatico un acuto senso di insoddisfazione, che scaturisce dalla sostanziale incapacità di attribuire un senso alla propria vita. Occorre ripensare la percezione del ragazzo difficile che manifesta questa onnipresente sensazione di nullità o di eccesso del sé. Il ragazzo a disagio, in difficoltà, non è una persona appagata e soddisfatta del suo comportamento antisociale, ma si rivela alla ricerca di un modo per non sentirsi completamente e definitivamente oppresso dal senso di impotenza. Dunque il comportamento irregolare e “difficile” pare essere il risultato di una visione della realtà focalizzata su una modalità distorta di considerare e percepire la relazione tra l’io e il mondo, producendo così un senso di nullità del sé che comporta l’attivazione di un processo di rieducazione, finalizzato alla costruzione di un ottimismo esistenziale. Se l’origine del disadattamento sociale dei ragazzi “difficili” va fatta risalire ai limiti della coscienza intenzionale, l’oggetto dell’intervento educativo non sarà il comportamento da reprimere o da controllare, ma il soggetto, o meglio, quel suo particolare Educare alla metacognizione significa aiutare l’adolescente a divenire cosciente di come il suo linguaggio, la sua cultura, il suo modo di pensare e di costruire certe azioni, siano responsabili delle caratteristiche particolari e specifiche del suo agire e del suo rapporto con il mondo che abita. Questa educazione si sviluppa all’interno delle singole esperienze di acquisizione dei saperi che i ragazzi hanno nella loro vita quotidiana, nella loro capacità di dare significato alle emozioni e alle azioni e di riflettere sull’origine culturale e personale di questo significato. Insegnare a pensare in modo autonomo e critico è oggi un compito irrinunciabile e implica alcune condizioni: • L’accettazione di se stessi; • La tolleranza della frustrazione, dell’incertezza, del rischio; • L’assunzione di responsabilità nei confronti delle proprie azioni. Un itinerario segnato dall’incertezza Sulla base di questi orientamenti, l'educare configura indubbiamente un itinerario “debole”, così definibile perché l’educatore fa propria consapevolmente la fragilità delle scelte, delle posizioni, delle esperienze. L’educazione è una scommessa, che ha a che fare non con certezze, ma con possibilità, con probabilità. Essa è tale in relazione al fatto che l’educatore non conosce in anticipo e con precisione il percorso in cui inoltrarsi. Il suo diventa quindi un itinerario di ricerca, lungo il quale mette continuamente in gioco la sua capacità di analisi, interpretazione e decisione. Siamo di fronte a un processo continuo, ma non per questo necessariamente lineare, che senza rifiutare il passato e tantomeno il presente, ha nel futuro (da intendersi come possibilità sempre aperte) la sua più propria connotazione. (Bertolini) Lavorare nell’incertezza richiede agli educatori un puntuale e continuo esercizio di riflessività, sotto forma di un processo di apprendimento che scaturisce dall’analisi delle esperienze e le interroga permanentemente allo scopo di ridisegnare quadri di riferimento teorico-concettuali e metodologici, a loro volta capaci di alimentare l’agire educativo fornendo nuove, seppur parziali, ipotesi di lavoro. L’educatore è perciò chiamato a un esercizio permanente di buona reciprocità, in quanto l’educazione non è un’azione unilaterale nella quale qualcuno produce effetti su altri: questo somiglierebbe a una sorta di addestramento, più che a un cammino comune di crescita. La promozione della coscienza Il processo di presa di consapevolezza (che lo studioso ed educatore brasiliano P. Freire chiamava coscientizzazione) si configura come un vero e proprio apprendimento da parte dei ragazzi, capaci così di percepirsi come portatori di competenze, di bisogni, di attese, di possibilità e di riconoscerle negli altri. Ma l’itinerario, come detto, non riguarda solo i ragazzi, poiché coinvolge allo stesso modo, e prima ancora se possibile, gli educatori. Essi infatti sono sollecitati ad ascoltare se stessi, a riconoscere le proprie storie (cfr., in questo senso, l’utilità dell’approccio autobiografico), a disvelare pregiudizi, potenzialità, fantasmi professionali e magari scheletri nell’armadio. Collocata nel contesto del lavoro educativo, la consapevolezza via via acquisita pone i soggetti nelle condizioni utili per affrontare correttamente, positivamente le varie situazioni della propria esistenza. La consapevolezza: • Si rivela (può rivelarsi) generatrice di uno sguardo nuovo sulle proprie capacità, così come sulle proprie inefficienze; ciò è segno di maturità e della possibilità di raffinare quelle stesse capacità; • Suscita (può suscitare) il desiderio (e il coraggio) di conoscere la realtà per quello che essa è, accrescendo la capacità autonoma di discernimento e di scelta; • Incide (può incidere) sugli atteggiamenti e sui comportamenti agiti, ad esempio per quanto riguarda il rapporto con gli altri e con il territorio di appartenenza, su cui possono venire aperti sguardi diversi. Vanno aggiunte alcune considerazioni riguardanti specificatamente l’aspetto processuale. Va infatti osservato, che un cammino di maturazione non può essere programmato o pianificato, fissando preliminarmente tappe e scadenze. Non solo, il processo è differente per ogni ragazzo e per ogni gruppo, poiché soggettivi sono gli itinerari dell’apprendimento. E infine va rimarcato che tali apprendimenti da parte degli adolescenti sono possibili sono se accompagnati dagli educatori, che mettono in gioco se stessi, tempi appropriati e opportunità originali. L'accompagnamento verso una tensione generatrice Da dove dunque ripartire rispetto all’educare? Occorre ripartire da loro, dai ragazzi, dalle loro inquietudini e dalle loro domande e dal riconoscerli come creatori di significati, come ricercatori. Le loro domande sono a volte confuse a volte nascoste agli adulti e protette dalle loro intrusioni, a volte irrise dagli stessi adolescenti per paura di osare troppo e trovarsi con risposte deludenti. Se a ciò aggiungiamo che gli adolescenti oggi si trovano esposti ai venti impetuosi di fenomeni quali la società complessa, la società liquida, la società multiculturale, la società del rischio, è facile riconoscere che essi sono colpiti da un sovraccarico di tensioni, compresa la necessità di doversi inoltrare in mondi impensabili fino a non molti anni fa. Torna perciò in gioco la responsabilità degli educatori come “accompagnatori” appassionati e competenti di questa ricerca delle nuove generazioni, consapevoli che a fronte di nuove sfide e problemi essa non possa rinchiudersi in risposte già date. Una comunità (locale) che riconosca e accompagni la ricerca La decisione di accompagnare educativamente la crescita delle giovani generazioni non può tradursi in iniziative isolate o estemporanee, o rivolte a un unico settore e problema, ma deve coinvolgere tutta la rete dei soggetti, tutto il “sistema” denominato comunità locale. Risulta evidente che tale prospettiva è perseguibile nella misura in cui le comunità locali la fanno propria, creando le condizioni utili a garantire a tutti i giovani condizioni minime di autonomia, favorendo partecipazione e capacità di iniziativa. L’idea della comunità locale come rete educativa si è fatta strada al punto da affermare che nessuno può più chiamarsi fuori dalle responsabilità nei confronti delle giovani generazioni. Occorre pensare a una società educativa, cioè ad un’organizzazione comunitaria che renda possibile a tutte le istanze sociali di essere presenti nel concerto delle forze attivamente disponibili per rendere a tutti il servizio della loro competenza e della loro ricchezza culturale e informativa. Oggi però alla molteplicità dei luoghi molto spesso corrisponde il progressivo frantumarsi dei rapporti interpersonali. Promuovendo lo spirito comunitario, si promuove il soggetto e si agisce per la sua personalizzazione, superando i rischi opposti dal riduzionismo individualistico e dalla concezione ultra socializzata dell’uomo; vale anche la relazione inversa, perché il soggetto stesso, arricchito dall’educazione che si fonda sul valore della socialità, si fa protagonista come attore sociale dell’attivazione della rete comunitaria. La comunità è un corpo pedagogicamente fecondo e proprio attraverso le esperienze costruttive del proprio sé sociale, l’adolescente è in grado di sperimentare la validità e la significatività della propria esistenza. Il lavoro in rete fra gli attori istituzionali pubblici e privati diventa quindi una strategia irrinunciabile per favorire una comune progettualità pedagogica a vantaggio delle giovani generazioni, soprattutto degli adolescenti che stanno sperimentando la difficoltà del vivere e il bisogno di essere sostenuti da una fitta rete di relazioni interpersonali positive ed educativamente significative. E’ compito della politica farsi carico del futuro di chi cresce, aprendosi ad itinerari realmente educativi. Il ruolo della politica Si intende un’idea di politica di alto profilo, vista come servizio, come lavorare insieme su problemi importanti. La politica non è monopolio di pochi soggetti e tanto meno qualcosa di astratto infatti il termine richiama la polis, la città (il territorio, la comunità locale) come forma di convivenza, come ricerca di coesione sociale, come tutela dei beni comuni. La sfida è quella di costruire con loro un dialogo responsabile, su ogni argomento, sapendo prendere le decisioni in tempi coerenti con le loro esigenze. La politica, in sintesi, è chiamata a fare delle giovani generazioni il terreno di assunzione di un comune impegno, nel rispetto delle appartenenze di ruolo e istituzionali, costruendo patti condivisi, di lungo periodo, sorretti da un solido impianto culturale. Possiamo quindi considerare le politiche per gli adolescenti - nella visione delineata – come l’insieme delle attenzioni e delle azioni che la comunità locale (le comunità locali) realizzano con e per i soggetti in età evolutiva, in riferimento alle loro concrete situazioni di vita. Bertolini Piero La sede universitaria di Portogruaro ha avuto il privilegio e l’onore di avere come ospite qualche tempo fa il prof. Piero Bertolini di Bologna. È accaduto nella primavera del 2005 e, purtroppo, qualche tempo dopo (settembre 2007), il prof. Bertolini è mancato. Quello di Portogruaro è stato quindi uno degli ultimi incontri pubblici cui egli ha partecipato, incontri che da tempo aveva diradato a causa delle non buone condizioni di salute di cui soffriva. Il “pretesto” per la sua presenza fu la pubblicazione del suo volume Educazione e politica, che egli venne a presentare proponendoci di non fare la classica conferenza, ma di incontrare gli studenti in un dialogo diretto, rispondendo alle loro domande. Fu un incontro memorabile, durato due ore e ripreso in un fascicolo facente parte della serie di pubblicazioni del Centro studentesco Calasanzio di Portogruaro. Il prof. Bertolini è stato un grande educatore, oltre che un grande studioso e docente universitario. Egli infatti ha vissuto l’esperienza dello scoutismo e, ad appena 27 anni (!), fu nominato direttore del carcere minorile Beccaria di Milano: il più giovane direttore e per giunta del carcere minorile più grande d’Italia. Fu un’esperienza straordinaria, di cui nell’incontro all’università citò diversi episodi e che durò ben 10 anni. Ad essa fece seguito l’impegno di docente universitario e di studioso, divenendo un punto di riferimento nazionale, soprattutto in quanto promotore del filone di studi da lui definito pedagogia fenomenologica. Con il suo impegno rigoroso, di docente e di educatore, egli diede inizio a una scuola di pensiero e molti sono i suoi “discepoli”, coloro che proseguono l’attività in coerenza con l’approccio elaborato dal prof. Bertolini. I suoi studi e le sue pubblicazioni in ambito pedagogico sono tuttora fondamentali per comprendere in particolare i fenomeni della marginalità e della devianza minorile e per affrontarli con uno sguardo e una metodologia di carattere educativo. Per gli autori del presente fascicolo il prof. Bertolini ha rappresentato e continua a rappresentare la bussola delle proprie riflessioni in ambito pedagogico.
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