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Gli Imperi della Polvere da Sparo, Tesi di laurea di Storia Moderna

Tesi di Laurea triennale in Storia Moderna. Tratta della diffusione della polvere da sparo e del ruolo che essa ha avuto nel definire la storia dei tre grandi potentati musulmani dell'epoca moderna: l'Impero Ottomano, Moghul e Safavide. 3/3 cfu

Tipologia: Tesi di laurea

2015/2016

In vendita dal 31/01/2016

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frencio90 🇮🇹

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Scarica Gli Imperi della Polvere da Sparo e più Tesi di laurea in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA Facoltà di Lettere e Beni Culturali Corso di laurea triennale in Storia Gli Imperi della Polvere da Sparo: Storia dell'impiego delle armi da fuoco nel Medio Oriente nella prima età moderna Relatore Prof.: Gian Paolo Brizzi Presentata da: Francesco Salesio Schiavi Anno accademico 2015/2016 dell'Asia centrale, per oltre due secoli i loro vessilli fecero tremare tutti coloro che si opponessero alla supremazia dell'Islam. La loro incapacità di rinnovare quei costumi legati ancora alle radici medievali, di far fronte alle continue pressioni fiscali e militari per il mantenimento dello stato e di adattarsi alle innovazioni che, nel contempo, si andavano diffondendo in tutto l'Occidente, però, ne causò inevitabilmente un'immobilità sociale e politica, che portò ad un periodo di stagnazione e poi al declino. In questa sede, l'opera qui esposta si propone di evidenziare quei passaggi che hanno sancito la nascita e la diffusione della polvere da sparo, quelli che definito l'origine di questi imperi, che li hanno portati a ricoprire un ruolo chiave nella sfera geopolitica dell'epoca e le ragioni che ne hanno causato il declino, sino all'inevitabile superamento da parte dell'Occidente. I. Gli esordi della polvere pirica Quando il primo colpo di cannone esplose fragorosamente sul campo di battaglia, ebbe così inizio la più grande rivoluzione della storia militare. Quel giorno iniziò la corsa a rendere sempre più letale il connubio tra bocca da fuoco, propellente e proiettile; un cammino, questo, che continua ancora ai giorni nostri, la cui miccia non fu tanto la polvere da sparo, quanto la mente degli uomini. Introdotte quasi come curiosità nel Medioevo, le armi da fuoco divennero ben presto le regine dei campi di battaglia, andando progressivamente a sostituire quelle precedenti, con effetti devastanti. Dal punto di vista strettamente tecnico, le funzioni cui queste primitive armi da fuoco assolvevano non erano ancora del tutto nuove, ma rispecchiavano alcune di quelle più antiche delle armi da lancio: l'innovazione tecnologica consisteva nella sostituzione della propulsione per esplosione chimica a quella meccanica del passato. In cosa consiste allora questa grande rivoluzione? Queste armi, particolarmente le grandi artiglierie, avevano infatti costi elevati e solo con l'intervento di rilevanti capitali era possibile produrle in quantità. Il principale successo delle armi da fuoco, quello che diede loro la possibilità di radicarsi, fu dovuto al fatto di aver incrociato e forse accelerato alcune grandi trasformazioni sociali, politiche e militari, da tempo già avviate. Innanzitutto permisero alla fanteria di disporre, oltre al numero, di un'arma che le concedesse di confrontarsi e di battere la pesante cavalleria nobiliare. Inoltre, consentì ai regnanti e ai grandi Stati centralizzati di ridurre e sottomettere i poteri delle antiche aristocrazie, ormai socialmente e politicamente indebolite. Questo repentino cambiamento, infatti, modificò drasticamente il bilancio del potere fra chi controllava o occupava postazioni fortificate e chi possedeva la nuova artiglieria. Il loro uso nelle guerre d'assedio rivoluzionò persino l'assetto del territorio, sino ad allora segnato da castelli dalle mura alte ma sottili. Queste ultime infatti favorivano l'azione dei cannoni e delle bombarde, risolvendo la guerra a favore dell'assediante in pochi giorni, diversamente dai lunghi periodi dettati dagli assedi medievali, facendo così vacillare la volontà di chi, chiuso nella propria fortezza, tentava di opporsi al volere del sovrano. L'avvento delle grandi bocche da fuoco inaugurò così quella che divenne nota come l'era degli “imperi della polvere da sparo”, ovvero di quegli Stati che dovettero la loro creazione grazie ad un uso estensivo delle nuove artiglierie. Sebbene infatti non vi fu uniformità nei modi in cui le differenti popolazioni sfruttarono le possibilità offerte dalle nuove armi, ciononostante, ogni volta che furono in grado di monopolizzare le nuove artiglierie, le autorità centrali furono in grado di unificare vasti territori in nuovi, o nuovamente consolidati, imperi. 1. Struttura ed origine della polvere da sparo La polvere da sparo, nota anche come polvere nera o pirica, è una miscela di zolfo, carbone vegetale e salnitro (nitrato di potassio). In particolare, è questo sale la componente fondamentale della polvere da sparo, perché contribuisce al composto con le sue qualità ossidanti, ovvero fornisce l’ossigeno necessario affinché il carbone vegetale finemente triturato bruci tanto velocemente da produrre un’esplosione. Migliore la qualità del carbone e maggiore sarà lo scoppio. Lo zolfo, la parte minore del composto, funge quasi esclusivamente da innesco, avendo una temperatura di infiammabilità inferiore a quella del salnitro. L’accensione della polvere provoca la subitanea produzione di gas che moltiplicano il volume originario della miscela e generano l’effetto esplosivo. Per inciso, questa polvere non è affatto nera, ma assume tonalità che variano dal grigio al marrone scuro. Divenne nera, infatti, solo a metà Ottocento, quando le fu aggiunta polvere di grafite per renderla meno igroscopica e per distinguerla dalla “polvere bianca”, quella senza fumo, diffusasi in quegli anni. La congiunzione della miscela, nonché la definizione di precise proporzioni reciproche in una formula, ha un forte sapore alchemico, ed è proprio dagli alchemici che sembra aver inizio la storia di questo composto. In particolare, tale tesi fa riferimento agli alchemici cinesi Taosti, i quali, dediti alla ricerca dell'elisir dell'immortalità tramite la miscela di prodotti naturali, divennero una vera e propria istituzione sotto al dinastia Tang (618-905 d.C.). Un particolare manoscritto, il “Classificato Essenziale dei Misteri del Tao sulla Vera Origine delle Cose”, databile intorno al 850 d.C., fra le sue 35 formule di elisir, cita anche che: “Alcuni scaldarono insieme zolfo, risigallo1 e salnitro al miele; risultarono fuoco e fumo, tanto che le loro mani e le loro facce furono scottate e anche tutto l'edificio ove lavoravano prese fuoco.”2 Quella che sembra più un ammonimento che una ricetta, rappresenta il debutto del fuoco artificiale sulla scena globale3. Bisognerà comunque attendere un secolo prima di assistere ad un uso specifico della polvere nera. Fu infatti la successiva dinastia, quella Sung (960-1279 d.C.), a cui viene attribuito il primo utilizzo della polvere pirica in ambito bellico, quest'ultimo dovuto in gran parte alle costanti pressioni esercitate dai popoli delle steppe che premevano verso le ricche terre dell'Impero4. La prima fonte storica a nostra disposizione si trova in una pittura all'interno delle 1 Termine medievale per indicare il solfuro di arsenico. 2 Jack Kelly, “Gunpowder: Alchemy, Bombards, & Pyrotechnics: The History of the Explosive that Changed the World” (Basic Books; 2004); pp. 4 3 Kelly, pp. 5 4 Kelly, pp. 11 era dovuta solo in parte alla loro tattica della steppa; mura e forti, infatti, non potevano esser presi dal dorso di un cavallo. Le loro conquiste avevano fatto proprie le conoscenze dei popoli assoggettati, e i cinesi ricoprirono in tal campo un ruolo primario, aprendo la tattica mongola all'uso della polvere da sparo. Accogliendo felicemente infatti qualunque arma che garantisse loro di sfondare velocemente le cinte murarie, i Mongoli ricorrevano spesso ad armi d'assedio convenzionali, quali catapulte e trabucchi, sebbene fecero anche largo impiego delle primordiali armi esplosive, viste in Cina17. Erano infatti dediti all'uso di frammenti di bambù riempiti di polvere nera, i quali avrebbero aperto facilmente le porte agli assedianti. Fu in questa primitiva forma, che le armi da fuoco raggiunsero l'Europa nel 1241, quando le armate mongole minacciavano Ungheria e Polonia18. 2. La diffusione della polvere da sparo Un impero di così vasta portata cancellò le barriere erette fra i tanti piccoli regni (relativamente alla grandezza dell'impero mongolo), riaprendo le porte al commercio, alla diffusione dei beni e delle conoscenze. Le carovane si spostavano regolarmente attraverso l'Asia, e le imbarcazioni navigavano lungo le coste della Cina, per tutto l'Oceano Indiano. Di conseguenza, migliaia di mercanti e viaggiatori si spostavano da 'Est e da Ovest, riportando informazioni più rapidamente di quanto fosse mai stato fatto prima. Fu così che le nuovi armi, provenienti dalla Cina, raggiunsero rapidamente l'Europa e il Medio Oriente19. Stabilire però quando e sotto che forma ciò avvenne, è un argomento complesso e controverso. Gli Arabi vennero a conoscenza del salnitro (“neve cinese” per gli Arabi, “sale cinese” per i Persiani20) probabilmente dall'India, nella prima metà del XIII secolo, intorno al 1240. Di li a poco, impararono anche la formula della polvere da sparo, entrando così in contatto con i vari prodotti da essa ricavati. I guerrieri arabi acquisirono la conoscenza delle lance di fuoco prima del 1280. Intorno a quegli anni, infatti, Hasan al-Rammah, storico di origine siriana, scrisse un testo, il “al-furusiyyah wa al-manasib al-harbiyya” (“Libro sull'equitazione militare e su ingegnosi dispositivi di guerra”), il quale, a detta sua, trattava di “macchine di fuoco, da impiegare come divertimento o per utili scopi”. In esso egli illustrò, oltre che i processi per la purificazione del salnitro, anche 107 differenti recipienti per diversi tipi di polvere da sparo; descrisse così razzi (“frecce cinesi”), fuochi d'artificio (“fiori cinesi”), lance di fuoco e altri oggetti incendiari, attribuendo le sue conoscenze a fonti 17 Jack Kelly, “Gunpowder: Alchemy, Bombards, & Pyrotechnics: The History of the Explosive that Changed the World” (Basic Books; 2004), pp. 16-17 18 William H. McNeil, “The Pursuit of Power: Technology, Armed Force and Society since 1000 A.D.” (University of Chicago Press, 1983), pp. 19 McNeil, pp. 20 Joseph Needham, “Science and Civilization in China” (Cambridge University Press, 2004); pp. 194 cinesi21. Lo storico sostenne inoltre che gli eserciti dei Mamelucchi, nella Battaglia di Ain Jalut del 1260, abbiano utilizzato “il primo fucile della storia”. Questa versione è altamente contestata, specialmente perché essa, così posta, attribuisce agli Arabi, e non ai Mongoli, il merito della diffusione delle prime armi da fuoco, piuttosto che, come è acclamato, il contrario. È opportuno, inoltre, ricordare il palese antagonismo manifestato dai Mamelucchi nei confronti di questa categoria di armi e nell'introduzione di fucilieri fra le fila dell'esercito22. Per quanto concerne l'Europa, è certo che le prime nozioni sulla polvere pirica si diffusero intorno alla seconda metà del XIII secolo23. Risulta comunque difficile stabilire con certezza se tali conoscenze siano giunte attraverso gli attacchi perpetuati dai Mongoli o se attraverso il Medio Oriente, lungo la Via della Seta. Quest'ultima tesi trae le sue fonti dal “Liber ignium ad comburendos hostes” (“Libro del fuoco per conflagrare i nemici”), un libro redatto in Latino dal presunto scrittore Marco il Greco, personaggio la cui esistenza è molto dibattuta. In esso sono trattate le ricette per 35 ordigni incendiari, fra cui figurano anche quella per il “fuoco greco” e per una rudimentale polvere da sparo. Esclusa la derivazione greco-bizantina, l'opera si presenta come una traduzione di un testo arabo, redatto intorno al 1250. La prima ricetta affidabile della polvere da sparo è invece descritta dal frate francescano e alchimista inglese Ruggero Bacone, nella sua opera “Epistola de secretis operibus artiis et naturae”, del 1268. Riuscì inoltre a scoprire che, se la polvere pirica fosse stata racchiusa in un recipiente rigido, l’effetto sarebbe stato maggiore. Egli probabilmente dovette le sue conoscenze al personale rapporto di amicizia che deteneva con il diplomatico fiammingo Guglielmo di Rubruck, il quale intraprese un lungo viaggio nel 1254 come ambasciatore presso i Mongoli. Bacone non ne fu però l’inventore, ma con ogni probabilità solo colui che raccolse notizie da fonti precedenti, confermandone l'origine orientale24. In seguito però, la cultura europea non mancò di menzionare o inventare figure più o meno leggendarie, come quella di Berthold Schwarz, frate tedesco vissuto nel XIV secolo, a cui ne fu attribuita l'invenzione. 3. Prime esperienze europee sull'uso delle armi da fuoco La presenza di canne da fuoco in Europa è documentata con un'ampia ricorrenza di casi nel terzo- quarto decennio del XIV secolo, in varie parti del continente25. La prima immagine europea di un'arma da fuoco è riportata nell'opera “De nobilitatibus sapientii et prudentiis regum” di Gualtiero di Milemete, cappellano del re Edoardo III. La riproduzione sul manoscritto mostra un artigliere 21 Jack Kelly, “Gunpowder: Alchemy, Bombards, & Pyrotechnics: The History of the Explosive that Changed the World” (Basic Books; 2004), pp. 22 22 Kelly, pp. 23 23 Kelly, pp. 21 24 Joseph Needham, “Science and Civilization in China” (Cambridge University Press, 2004); pp. 48-50 25 Kelly, pp. 21 saraceno intento ad accendere la miccia di un contenitore metallico a forma di vaso, per scagliare una grossa freccia contro una fortificazione nemica. 26 Contemporaneamente, in tutta Europa si assiste ad un brulicare di fonti di vario genere che fanno riferimento ad un uso più o meno sporadico delle prime armi da fuoco: sembra che dei pezzi d'artiglieria siano stati usati nell'assedio di Metz, nel 1324; a Firenze è presente un documento, datato 11 febbraio 1326, in cui si evince che il Comune è in cerca di “pilas seu palloctas fereas et canones de metallo”; diverse fonti affermano, inoltre, che, nella Battaglia di Crecy del 1346, un “cannone” tuonò27. In principio queste armi erano delle stesse dimensioni e forma di quella illustrata da Gualtiero; Ben presto, però, i cannoni assunsero una forma tubolare, saldando tra loro barre di metallo attorno ad un cilindro di legno, tenute strette con robuste cinture metalliche, come le doghe di una botte. Il fondo veniva poi chiuso avvitando una culatta. Nacquero così le bombarde. Invece che frecce, esse sparavano palle di pietra sferiche, inserite sino al fondo della canna, per poi esser scagliate fuori dall'enorme pressione dei gas di scarico scoppiati nella camera di combustione. Ciò assicurò una maggiore precisione, gittata e, di conseguenza, efficacia sul campo di battaglia. Armi più potenti e durevoli potevano essere ottenute fondendo il cannone in un unico pezzo, piuttosto che assemblandone diverse parti, le quali rischiavano persino di esplodere nelle aree di giunzione. Ciò fu possibile grazie all'esperienza degli artigiani europei nella produzione di campane di bronzo o ottone; fu così che, intorno alle prime decadi del XV secolo, gli Europei potevano contare su pezzi d'artiglieria lunghi sino a 4,6 m, che sparavano proiettili del peso di anche 15 kg, divenendo così delle armi eccezionali. Fra le tante pecche riscontrabili comunque sulle prime armi da fuoco, la più limitante era costituita dal peso, decisamente eccessivo, tanto che, spesso, esse venivano fuse dagli artigiani direttamente nel luogo dove sarebbero state impiegate28. 26 Immagine di un “pot-de-fer”, come appare illustrata nell'opera di Millemete. 27 Jack Kelly, “Gunpowder: Alchemy, Bombards, & Pyrotechnics: The History of the Explosive that Changed the World” (Basic Books; 2004); 28 William H. McNeil, “The Pursuit of Power: Technology, Armed Force and Society since 1000 A.D.” (University of Chicago Press, 1983), pp. 106 La prima monarchia occidentale che fece un sistematico uso dell'artiglieria fu il regno di Francia. Per tutto il periodo che intercorre tra la seconda metà del XIII secolo e la prima metà del XIV, esso fu impegnato in una lunga e sanguinosa guerra contro la corona d'Inghilterra, noto come la Guerra dei Cent'Anni (1337-1453). Durante tale conflitto, risulta chiaro, in base a diverse fonti, della consapevolezza di Carlo V (1364-80) e di Carlo VI (1380-1422) di Francia delle capacità militari di suddette armi e della volontà di incorporarle nei propri arsenali. È comunque opportuno notare che, nella maggior parte delle fonti che fanno riferimento ad un qualche uso delle armi da fuoco da parte degli eserciti regi nel XV secolo, i regnanti francesi si limitarono ad acquistarle da artigiani e fabbri locali, risultando restii sia a costruire che ad ottenere delle proprie fucine36. Ma, se Carlo VI non fu in grado di valorizzare adeguatamente l'uso della polvere da sparo, suo figlio, divenuto in seguito Carlo VII (1422-61), non commise lo stesso sbaglio, dando inizio ad un grande programma di acquisizione e di sviluppo delle armi da fuoco e delle artiglierie in particolare. Egli aumentò il bilancio del regno per ottenere un numero sempre maggiore di bocche da fuoco, sottoponendo la popolazione al pagamento di nuove tasse, per assorbire le recenti spese. Sebbene Carlo investisse gran parte di tali fondi nello studio e nella costruzione di armi da fuoco sperimentali, spesso irrealizzabili o inservibili, il suo merito più grande fu quello di creare le basi di un forte sistema organizzativo, condotto dalla spinta di una leadership superiore. Sotto la guida dei maestri d'artiglieria Jean e Gaspard Bureau, infatti, le fucine francesi crebbero in numero e in efficienza; vennero stabiliti i compiti degli artiglieri, nominato un corpo ufficiale apposito e aumentato il salario, contribuendo così ad accrescerne l'efficacia. Ciò permise ai comandanti di Carlo di schierare una componente d'artiglieria ovunque le proprie forze ne necessitassero, riscuotendo un gran numero di vittorie durante l'ultima fase della guerra dei Cent'Anni (1429-53). In tal modo, fu possibile per le truppe francesi scacciare ogni forza nemica fuori dal continente, decretandone così la vittoria definitiva sugli Inglesi entro il 1453 e la fine di quel conflitto che per più di un secolo aveva lacerato i territori d'Oltralpe37. La morte di Carlo VII non fermò la produzione di armi da fuoco in Francia che, anzi, aumentò considerevolmente sotto il suo successore, Luigi IX. Costui si trovò ben presto a far fronte ad un nuovo formidabile rivale, il Ducato di Borgogna, il quale, all'epoca, si estendeva dal confine con l'attuale Svizzera sino alle foci del Reno, nei Paesi Bassi,. In questa regione, in particolare, si era assistito ad una consistente proliferazione di armi da fuoco durante tutto il corso del XIV secolo, tanto che, a partire dalla seconda metà del '400, essa poteva schierare bocche da fuoco più numerose e spesso più utilizzate della controparte francese38. L'unica vera limitazione imposta al ducato era 36 Ivy A. Corfis, Michael Wolfe “The Medieval City under Siege” (Boydell, 1995), pp. 260 37 Corfis, Wolfe, pp. 261 38 William H. McNeil, “The Pursuit of Power: Technology, Armed Force and Society since 1000 A.D.” (University of Chicago Press, 1983), pp. 107-109 che, in esso, il controllo della produzione delle armi da fuoco era ancora in mano agli enti locali, piuttosto che assimilati da un potere centrale, come accaduto nel Regno di Francia39. Quando divenne chiaro che entrambe le fazioni si sarebbero dovute armare per un eventuale scontro contro il vicino, iniziò una vera corsa alle armi per rivoluzionare la linea delle armi in lo possesso, artiglierie comprese, migliorandone la trasportabilità senza inficiarne la capacità offensiva. I fabbri, da ambo le parti, sperimentarono bocche da fuoco di varie dimensioni, diversi metodi di fusione e modelli di trasporto. Ben presto essi giunsero alla conclusione che proiettili metallici, relativamente più piccoli, potevano costituire una minaccia assai maggiore rispetto a quelli di pietra (che si frantumavano all'urto), indipendentemente dalla dimensione di quest'ultimi. Ciò permise di sostituire le pesanti bombarde con bocche da fuoco di minore dimensione, meno costose, più facili da produrre e da spostare, soprattutto se dotate di ruote. Ciò era ottenuto semplicemente installando due coppie di ruote sull'affusto che conteneva la canna. In tal modo, queste nuove artiglierie permettevano ad un sovrano di sottomettere velocemente qualunque vicino o sottoposto che si fosse ribellato al suo volere. Fu così che il rapporto di potere fra le autorità centrali e quelle locali subì un cambiamento radicale, rendendo chiunque possedesse le nuove artiglierie un sovrano e riducendo coloro che non ne fossero provviste in uno stato di sudditanza, sino ad allora mai raggiunto. Le due fazioni entrarono rapidamente in guerra (1465-77) ma, sebbene ambedue fossero munite di armi simili, Carlo il Calvo, Duca di Borgogna, non riuscì a trarne appieno profitto; troppo impaziente per aspettare l'arrivo delle sue artiglierie al campo di battaglia di Nancy, guidò una carica di cavalleria contro la massa francese di mercenari svizzeri, trovando la morte sulla punta delle loro alabarde. Le sue terre, così come il prezioso bottino di guerra (artiglieria compresa), furono annesse a quelle del re di Francia, permettendo a Luigi IX di procedere al consolidamento del suo regno come mai prima di allora40. Quando il suo successore, Carlo VIII, procedette nel 1494 all'invasione dell'Italia, portando insieme al suo esercito 40 cannoni su affusti ippotrainati, confermò come il Regno di Francia, nell'ambito dell'artiglieria, avesse raggiunto un livello di prim'ordine in Europa. Ben presto, infatti, ebbe facilmente la meglio su chiunque osasse sbarrargli la strada lungo la sua marcia per il Regno di Napoli41. In quell'epoca, i sovrani rinascimentali, che sino ad allora avevano esercitato il loro potere sui vari Stati italiani, potevano vantare un'arte della guerra assai sofisticata, che combinava cavalleria, picche e balestre. L'esser distanziati così improvvisamente costituì uno shock enorme, che non diminuì neanche quando i Francesi, la cui invasione aveva dato origine ad una serie di conflitti che divennero note come le Guerre d'Italia (1494 -1559), si trovarono ben presto a 39 Ivy A. Corfis, Michael Wolfe “The Medieval City under Siege” (Boydell, 1995), pp. 262 40 William H. McNeil, “The Pursuit of Power: Technology, Armed Force and Society since 1000 A.D.” (University of Chicago Press, 1983), pp. 108 41 Christopher Duffy, “Siege Warfare; The Fortress in the Early Modern War, 1494-1660” (Rutledge and Kegan Paul, 1979), pp. 12 fronteggiare forze estere, Spagnoli in particolare. Persino i più grandi Stati italiani, sminuiti dai nuovi regni consolidati di Francia e Spagna, si dimostrarono incapaci di difendersi e di respingere le forze invasori. Nonostante la potenza dell'artiglieria d'assedio, fu proprio in Italia che nacquero nuove forme di fortificazione, create per resistere al bombardamento dell'artiglieria. Nel 1503, Firenze attaccò Pisa, utilizzando pesanti bocche da fuoco per irrompere attraverso la cerchia di mura, solo per trovare che i Pisani avevano eretto nuova mura all'interno, al di là della breccia. Inoltre, per ottenere della terra da aggiungere al nuovo muro d'emergenza, i Pisani scavarono un fossato dirimpetto ad esso, il quale bloccò un immediato assalto frontale. La cosa più rilevante, però, fu che le palle di cannone, sparate contro il terrapieno, si infossarono nella soffice superficie, senza creare grossi danni. Come risultato, i Fiorentini fallirono nel loro attacco e Pisa mantenne la sua indipendenza 42. 43 Alla luce di queste esperienze, gli ingegneri italiani ebbero così la possibilità di rendere le fortificazioni nuovamente protette. Il loro unico compito divenne quello di proteggere le sottili mura con uno strato inclinato di terra, il quale avrebbe assorbito l'urto dei proiettili dei cannoni e, nel caso in cui questo ultimo fosse stato comunque demolito, l'assalto sarebbe stato ostruito da un fossato, posto di fronte ad esso. In questo senso, il nuovo progetto sconvolse il precedente concetto di fortificazione, rendendo i fossati il principale ostacolo che un attaccante avrebbe dovuto superare, mentre le mura sarebbero diventate semplicemente un supporto alle truppe che difendevano il fossato. Il vantaggio di quest'ultimo era che esso, ovviamente, fosse immune al fuoco dell'artiglieria, così come anche le mura, rivestite di terra, divennero nuovamente sicure44. 42 Christopher Duffy, “Siege Warfare; The Fortress in the Early Modern War, 1494-1660” (Rutledge and Kegan Paul, 1979), pp. 15-19 43 “Pisa attaccata dalle truppe fiorentine”, Vasari, Salone del Cinquecento, Palazzo della Signoria. 44 William H. McNeil, “The Pursuit of Power: Technology, Armed Force and Society since 1000 A.D.” (University of Chicago Press, 1983), pp. 109-110 Fonti Esaminate 1. Jack Kelly, “Gunpowder: Alchemy, Bombards, & Pyrotechnics: The History of the Explosive that Changed the World” (Basic Books; 2004). 2. Joseph Needham, “Science and Civilization in China Vol. 5” (Cambridge University Press, 2004); 3. William H. McNeil, “The Pursuit of Power: Technology, Armed Force and Society since 1000 A.D.” (University of Chicago Press, 1983); 4. Ivy A. Corfis, Michael Wolfe “The Medieval City under Siege” (Boydell, 1995); 5. Y. Lev, “War and Society in the Eastern Mediterranean, 7th-15th Centuries” (E.J.Brill, 1997); 6. Christopher Duffy, “Siege Warfare; The Fortress in the Early Modern War, 1494-1660” (Rutledge and Kegan Paul, 1979); II. Gli imperi della polvere da sparo 1.Concetto di “Impero della polvere da sparo” Quello di “imperi di polvere da sparo” è un termine usato per descrivere quegli stati che devono la loro formazione ad un uso estensivo della polvere pirica. Esso fu coniato dagli storici Marshall G. S. Hodgson e William H. McNeill, presso la Chicago University. Hodgson utilizzò la frase “The Gupowder Empires and Modern Times” come titolo del terzo volume della sua nota opera, “The Venture dell'Islam”, così come come titolo del quinto libro di quest'ultimo, “The Second Flowering: The Empires of Gunpowder Times”49. Egli vide nelle armi da fuoco la chiave per l'affermazione di quegli stati, geograficamente situati in Medio Oriente, “a padronanza militare del tardo medioevo”, i quali si sostituirono alle instabili e geograficamente limitate confederazioni di clan turchi che avevano preso piede in epoca post mongola. Egli definì “patronato militare” uno stato in possesso tre particolari caratteristiche : “primo, una legittimazione di legge dinastica indipendente; secondo , la concezione di tutto lo stato come una sola forza militare; terzo, il tentativo di utilizzare tutte le risorse economiche e di cultura elevata come appannaggi delle principali famiglie militari50”. Questi stati si plasmarono “sulla base del concetto di grandezza mongola51”, ma “tali concetti sarebbero potuti maturare pienamente e da creare stabili imperi burocratici solo dopo l'arrivo delle armi da fuoco e la loro tecnologia specializzata raggiunse un posto primario nella vita militare52”. McNeill ritenne che, ogni volta che questi stati “furono in grado di monopolizzare la nuova artiglieria, le autorità centrali poterono unire grandi territori in nuovi, o neo consolidati, imperi53”. La monopolizzazione, quindi, è stata la chiave del loro successo. Anche se l'Europa aveva spianato la strada allo sviluppo della nuova artiglieria nel XV secolo, nessuno stato lo monopolizzò. Gli unici luoghi in cui tali monopoli permisero a stati di creare imperi militarizzati si trovavano nel Vicino Oriente, in Russia, in India e, in maniera notevolmente diversa, in Cina e Giappone. Più di recente, il giudizio di Hodgson e McNeill ha spesso riscosso dissensi, in quanto non sufficientemente accurata come spiegazione, sebbene il termine rimanga ancora in uso. Le motivazioni, oltre a quella (o in aggiunta ad essa) riguardante la tecnologia militare, sono da ricercare nell'ascesa, quasi simultanea, di tre imperi militari centralizzati, in aree contigue, dominate da tribù turche decentralizzate. la principale critica della teoria Hodgson-McNeill consiste nel fatto che l'impiego di armi da fuoco non sembra aver preceduto l'acquisizione iniziale di territori costituenti la massa critica di uno qualsiasi dei tre primi imperi islamici moderni. Inoltre, sembra 49 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974); copertina/ pp.1 50 Hodgson, “Vol.2”, pp. 405-406 51 Hodgson, “Vol.3”, pp. 3 52 Hodgson, “Vol.3”, pp. 16 53 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires, 1450-1600” (American Historical Association, 1989), pp. 103 che nessun governo militare autocratico debba la sua formazione ad un impiego precedente delle armi da fuoco, in nessuno dei tre casi54. Che la polvere da sparo fosse intrinsecamente legata all'esistenza di ciascuno di questi tre imperi o no, non può tuttavia esser messo in discussione che ciascuno dei tre fece proprio l'impiego delle artiglierie e e delle armi da fuoco individuali, all'inizio della loro storia. 2.L'impero Safavide: il trionfo dello Shì'ah 2.1 Origine e consolidamento Il collasso dell'impero timuride in seguito alla morte di Tamerlano nel 1405, lasciò, in Persia, una moltitudine di stati dinastici di ridotte dimensioni, la maggior parte dei quali governati da litigiose tribù nomadi55. L'infervorante sciismo turco, che aveva soppiantato il sunnismo sin dalle prime conquiste mongole, aveva riscosso ampi consensi tra le diverse confraternite islamiche nelle regioni attorno all'Azerbaijan e all'Anatolia. I capi della tariqa safavide ad Ardabil, in Azerbaijan, avevano coltivato buoni rapporti con diversi elementi sciiti, specialmente tra le tribù turche pastorali56. Guidati da Sheykh Junayd e protetti dalla tribù turcomanna dei Kara Koyunlu (“Turcomanni della Pecora Nera”), i Safavidi iniziarono a convertire un gran numero di turchi, conducendo la maggior parte di loro in scorribande contro i cristiani lungo la regione del Caucaso. Questi sciiti turchi vennero chiamati “kizilbash”, o “teste rosse”, per via del loro distintivo copricapo, un cappellino di colore rosso con dodici pieghe, in ricordo dei dodici imam dello Sciismo, noto come “taj-e heydar”. 57 Essi non mancarono comunque di farsi nemiche le più importanti famiglie sunnite di tutta la zona 54 Gàbor Àgoston, “Guns for the Sultan: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire” (Cambrige University Press, 2005), pp. 192 55 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 141 56 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 22 57 Esempio di un “ kizilbash”, con il distintivo copricapo. mentre “żarbazan”, invece, di tanto in tanto sembra riferirsi ad un cannone da campo leggero67. 68 I Safavidi, così, adottarono rapidamente alle armi da fuoco, le quali erano impiegate non solo in battaglia, ma anche per proteggere le carovane durante i loro lunghi viaggi da eventuali briganti. Esse erano spesso accompagnati da soldati armati, a volte persino nell'ordine di migliaia. I Persiani impiegarono l'archibugio pesante per le proprie esigenze e gli armaioli safavidi divennero ben presto abili nella produzione di fucili leggeri ed eleganti, abbelliti con avorio intarsiato, sebbene questi venissero utilizzati più per la caccia, piuttosto che per la guerra. La presenza di zolfo, necessario per fare la polvere da sparo, rese possibile, inoltre, la nascita un'industria per le armi da fuoco in Azerbaijan. A Tbilisi polvere da sparo era ampiamente disponibile, grazie allo zolfo di Ganja e al salnitro presente nelle montagne circostanti69. Nel 1528, i Safavidi inflissero una pesante sconfitta alle forze uzbeke nella Battaglia di Hashhad, ricorrendo alla stessa tattica ottomana del tabur, alla quale anch'essi si erano piegati solo quattordici anni prima70. Nonostante le armi da fuoco individuali divennero molto più diffuse durante il tardo XVI secolo, l'antipatia manifestata nei loro riguardi dai kizilbash confermò la loro impermeabilità al loro uso, ritenute non virili. Per di più, armi da fuoco imbracciate da orde di schiavi e pesanti armi d'assedio si sposava male con il loro 67 R. Matthee “Unwalled Cities and Restless Nomads: Firearms and Artillery in Safavid Iran” (University of Cambridge Press, 1996), pp. 83 68 Archibugiere persiano, inizio XVII secolo, Museum fùr Islamische Kunst, Berlino. 69 Matthee, pp. 83 70 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires, 1450-1600” (American Historical Association, 1989), pp. 207-208 concetto di guerra di movimento, incentrata sui metodi della veloce cavalleria dell'Asia Centrale71. Quando Isma'il morì nel 1524, lasciando come erede Tahmasp, un bambino di dieci anni, il monarca non era riuscito a limitare adeguatamente il potere assunto dai diversi capi dei kizilbash, nonostante il tentativo di osteggiarli sin dalla disfatta di Chaldiran. Essi si contesero a lungo il diritto di ricoprire la carica di reggente al posto dell'erede al trono. Fu solo dopo una decina di anni, quando Tahmasp raggiunse l'età adulta, che fu in grado di trovare il supporto necessario ad affermare il proprio potere personale e a rinnovare la valorizzazione del potere civile che suo padre aveva iniziato, nel tentativo di creare nuovi modelli di società da opporre a quella tribale72. Tahmasp, che governò sino al 1576, non si rivelò un sovrano eccezionale. Sebbene fosse competente nello svolgimento del suo compito, si rivelò di temperamento inattivo. Egli era altamente raffinato nel suo gusto estetico, tanto da dare un ulteriore impulso alla padronanza delle arti, che divenne una nota caratteristica dei safavidi, ma perpetuò la tradizione di ricorrere a barbare crudeltà in atti di vendetta pubblica, intensificati sin dal primo espansionismo mongolo. Nelle sue mani, lo stato safavide non fu abbastanza forte da riprendersi i territori persi sotto il padre per mano degli Uzbeki e degli Ottomani. Fu in grado di regolare i rapporti con questi ultimi, siglando nel 1555 la Pace di Amasya; tale trattato prevedeva la spartizioni in parti eguali dei territori posti lungo il Caucaso, così come, però, causava la perdita a favore della Porta di tutte le città sacre dell'Iraq, Baghdad compresa. Sebbene l'impero conservasse la sua antica capitale, Tabriz, questa fu spostata a Quazvin, nell'odierno Iran, più puramente persiana. Lo Stato comunque manteneva ancora gran parte della sua sfera d'influenza negli altipiani sub-caucasici, influenzando, inoltre, anche la maggior parte di tutte le terre di lingua persiana, Khorasan compreso. Nonostante i problemi sopra elencati, l'impero safavide si ergeva indiscutibilmente come una delle tre grandi potenze musulmane dell'epoca, nettamente superiore alle dinastie turcomanne che l'avevano preceduto. La solidità del suo potere era dipeso largamente dal successo di Tahmasp di diversificarne la base socio-politica. Egli continuò, certamente, a contare sulle tribù di kizilbash, così come tenne in considerazione le nuove fazioni sciite, all'epoca diffuse nelle nuove fasce urbane, le cui posizioni dipendevano dalla sua dinastia. Ma, nel corso del suo regno, egli fece sempre di più affidamento ad un numero sempre maggiore di neo-convertiti. Questi nuovi musulmani, infatti, fedeli solo alla dinastia, formarono un sostanziale contrappeso al supporto tribale. Ex-cristiani come Armeni, Circassiani e Georgiani, non solo costituirono nuove forze per l'esercito, ma si elevarono ad alte posizioni di responsabilità amministrativa e statale. Ad essi era garantita un'educazione eccellente, per inserirli a pieno nel flusso della migliore conoscenza 71 R. Matthee “Unwalled Cities and Restless Nomads: Firearms and Artillery in Safavid Iran” (University of Cambridge Press, 1996), pp. 117 72 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 31 islamica73. 2.3 Lo zenit safavide Alla morte di Tahmasp, l'impero sopravvisse a due disastrosi regni. Il primo fu quello di Isma'il II (1576-78), salito al potere con il sostegno dei notabili della capitale, Quazvin. Probabilmente deviato in seguito ad un periodo di prigionia, egli non esitò a trascorrere gli anni del suo regno ordinando assassinii organizzati per sbarazzarsi sistematicamente di tutti quei parenti che potessero erigersi a possibili rivali al trono, persino i suoi precedenti sostenitori. Ben presto, gli esponenti dei kizilbash ordirono un complotto e lo obbligarono a pagare i suoi metodi dissoluti con la propria vita. Il secondo fu Mohamed Khudabandan (1578-87), fratello del precedente shàh e unico pretendente erede al trono, dopo la campagna sanguinaria del fratello. Semi cieco e poco incline ad assumere il potere, il suo regno fu marcato dalla costante debolezza della corona e da feroci scontri tribali per il potere, inaugurando un periodo di guerra civile. La sua ignavia permise agli Ottomani di occupare gli altipiani azeri e curdi, riportando al potere i gruppi sunniti presenti nella zona, così come agli Uzbeki di razziare il Khorasan e di rendere in schiavitù i suoi abitanti sciiti. A causa di tutte queste dispute, abdicò a favore di suo figlio adolescente, Abbas (1578-1629). Il regno che ereditò era in uno stato disperato ma, a differenza del padre, egli dimostrò di avere la stessa forza di carattere dello shah Isam'il I, tanto che il suo regno è tuttora indicato come l'apice del potere e della ricchezza safavide, che gli varrà il titolo di “Grande”74. Conscio che, per risanare la situazione dell'impero, egli dovesse innanzitutto ristabilire e, ove occorresse, riformare la sua organizzazione interna, prima di dedicarsi agli affari esteri. Per fare ciò, non esitò a firmare una pace umiliante con gli Ottomani nel 1589, nota come il Trattato di Istanbul, in cui cedeva il controllo dei territori montuosi del Caucaso e degli insediamenti azeri, tra cui Tabriz, antica capitale. Nonostante con esso egli rischiasse l'ignominia, ciò gli permise di riprendere il pieno controllo delle regioni iraniane. Allo stesso tempo, consapevole della sempre maggire inaffidabilità delle teste rosse e volendo evitare di essere manipolato come i suoi predecessori, lo shàh intraprese una campagna volta a limitare notevolmente il loro potere, facendo giustiziare chiunque fosse sospettato di un complotto contro di lui e sottraendoli gran parte delle proprietà agricole. Egli riprese il tentativo fatto da Tahmasp, intraprendendo una nuova riforma militare (1598) introducendo all'interno dell'impero sempre più giovani cristiani, a imitazione dei giannizzeri ottomani, quali nuove reclute da indottrinare e da addestrare per rimpinguare la struttura amministrativa e militare dello stato. Nel caso safavide, essi erano principalmente Armeni, 73 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 31-33 74 Hodgson, “Vol.3”, pp. 38-39 L'assolutismo in cui l'impero era cresciuto ebbe come risultato la concentrazione della maggior parte delle ricchezze. Con un sistema di tassazione efficiente e un controllo burocratico sui ricavi, un monarca assoluto sarebbe stato in grado di disporre di una somma assai maggiore rispetto a quella di un qualsiasi suddito. In tale ottica, lo shah diventava presto il massimo investitore di capitali all'interno dello Stato. Questa concentrazione di ricchezza passava di mano in mano, comportando un aumento della “civilizzazione” dello Stato che, sebbene in teoria a padronanza militare, mostrò ben presto i sintomi di una civiltà burocratica83. 2.4 All'indomani dei Safavidi I successori Safavidi continuarono la campagna di burocratizzazione e di accentramento delle ricchezze, in quanto ne necessitavano per finanziare i ghulam, sempre più numerosi. Così facendo, però, essi non solo impoverirono la campagna ma, come avvenne poi con i devshirme per gli Ottomani, continuarono ad accrescere il loro potere all'interno dello Stato, anche se non come forza militare, sino a quando non poterono manipolare la dinastia regnante. I sintomi della decadenza, già percepiti durante la prima metà del XVII secolo, divennero palesi dopo il regno di Abbas II (1642- 66). Nonostante gli sgravi fiscali e le costanti minacce militari, i successivi shah adottavano stili di vita sontuosi. Sultan Husayn (1694-1722), in particolare, era conosciuto per il suo amore per il vino e per il totale disinteresse nel governare. Agli inizi del XVIII secolo, l'Impero Safavide era pronto per la spiumatura. Nel 1722, un'armata di Afghani, comandata da Mir Wais, avanzò sino al cuore dell'impero, sconfiggendo le forze safavidi nella battaglia di Gulnabad e assediando Isfahan. Lo shah abdicò e lo nominò nuovo sovrano di Persia. La corte si rifugiò quindi sugli altopiani azeri, loro luogo d'origine. L'Impero Ottomano, infrangendo una tregua durata 90 anni, invase quindi la ragione. Non potendo competere con i giannizzeri, gli Afghani siglarono abilmente un trattato di pace, cedendo loro ampie regione dell'Iran occidentale. Ciò costernò la popolazione persiana. Sotto la guida ispiratrice del guerriero Nadir Afshar, però, la Persia ebbe il suo ultimo “hurrah”. Figura emblematica, ma dalle innate capacità militari, dapprima guidò la sua tribù per conto degli Afghani; poi, avendogli questi negato alcuni pagamenti, passò al servizio di Tahmasp II, legittimo erede al trono della dinastia safavide, e iniziò la riconquista della Persia. Sconfitti facilmente i Ghizai nella battaglia di Damghan, li rimosse quindi dal potere nel 1729, ponendo sul trono Tahmasp II come re-fantoccio. Consolidato il suo potere, si incoronò shah nel 1736. Il suo regno fu attraversato da onnipresenti guerre contro Ottomani e Uzbeki, così come da vittoriose campagne in Afghanistan, in Oman e in India, da cui fece ritorno con un lauto bottino, dopo aver saccheggiato la capitale del Gran Mogol, Delhi. I suoi tentativi di riconciliare sunniti e sciiti, necessari per 83 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam, Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 55 alimentare le guerre, così come la sua arroganza e i suoi continui sospetti, gli alienarono però le simpatie interne. Alla sua morte per assassinio, avvenuta nel 1747, il suo impero collassò, lasciando la Persia in mano a dinastie minori e a 160 anni di ripartizioni politiche84. 85 3. L'impero Moghul: coesistenza fra musulmani e hindu 3.1 Origine e consolidamento della dinastia Timuride Il lento declino di Delhi era giunto ormai a termine, quando, dal passo di Khyber, una nuova armata invase l'India settentrionale. Il suo condottiero, il principe Babur (o “Babr”, “tigre” in Persiano86; 1483-1530), era un conquistatore proveniente dall'Asia Centrale; nato sotto il nome di Zahir-ud-din Muhammad87, aveva avuto un'infanzia tanto travagliata quanto gloriosa. Di sangue mongolo (“moghul ”, in indo-persiano88), poteva vantare una discendenza diretta con Tamerlano da parte di padre, così come di Gengis Khan da parte di madre89. Divenne sovrano di Fergala a soli dodici anni 84 Arthur Goldschmidt, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (2006), pp. 145 85 L'Impero Safavide, 1505-1722. http://matrix.msu.edu/hst/fisher/HST150/unit2/mod/module2.php 86 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam, Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 62 87 Babur, “Babur Nama: Memoirs of Babur, Prince and Emperor” (Oxford University Press, 1996), pp. 3 88 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam, Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 62 89 Babur, pp. vii e per due volte assediò vittoriosamente Samarcanda. Apertamente osteggiato dai suoi zii, però, egli trascorse buona parte della sua giovinezza senza una vera sede e spesso in esilio forzato90. Privato dagli Uzbeki di Muhammad Shaybani del suo regno nel 1502, trascorse i successivi tre anni a raccogliere un potente esercito, con cui si diresse ad Est, in Afghanistan, dove conquistò Kabul, nel 150491. Quando, nel 1510, Shaybani fu sconfitto e ucciso da Isma'il I, Babur colse l'opportunità per tentar di riconquistare i suoi precedenti territori in Transoxiana. Negli anni immediatamente successivi essi formarono un'alleanza per cercare di riconquistare parte dell'Asia Centrale. Dopo un ingresso trionfale a Samarcanda nel 1511, fu però ben presto costretto a tornare alle sue basi in Afghanistan dagli Uzbeki, così come perse anche il suo alleato safavide, sconfitto a Chaldiran dall'Impero Ottomano92. Dopo aver rinunciato definitivamente a qualunque pretesa territoriale in Asia Centrale, la sua attenzione si spostò verso le fertili zone della pianura indo-gangetica, allora sotto il dominio del Sultanato di Delhi. Quest'ultimo, fra le tante dinastie che vi erano succedute, annoverava anche quella Sayyd. Fondata da Khizr Khan, vassallo timuride, essa governò il Punjab nella prima metà del XV secolo, quando fu soppiantata dalla dinastia Lodhi, originaria degli altopiani afghani e che regnava anche allora, sotto la guida di Ibrahim Lodhi93. Babur, considerandosi legittimo erede di Tamerlano, affermava di essere l'unico effettivo monarca di quelle terre94. Egli, mentre raccoglieva attivamente la forza militare necessaria per l'invasione dell'Indostan, inviò una richiesta a Ibrahim, reclamandone il trono (richiesta, questa, ovviamente ignorata). Sfruttando le preghiere di diversi nobili, profondamente avversi alla reggenza di Ibrahim, i quali spingevano per un suo intervento armato, raccolse un esercito di 12.000 uomini ed entrò in India95. La sua campagna ebbe inizio nel novembre del 1525, quando raggiunse Peshawar, per poi dirigersi verso la capitale nemica, Delhi. Il destino della campagna fu deciso dalla battaglia di Panipat; fu qui che le forze di Babur, inferiori numericamente di almeno la metà, inflissero una durissima sconfitta a quelle di Ibrahim, che cadde sul campo; era il 21 aprile 1516. Dopo la schiacciante vittoria, Babur si impossessò rapidamente sia di Delhi che di Agra96. 90 Babur, “Babur Nama: Memoirs of Babur, Prince and Emperor” (Oxford University Press, 1996), 80-112 91 Babur, pp. 115-151 92 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 143-144 93 S. Chandra, “Medieval India: From Sultanate to the Mughals, Vol.2” (Har-Anand Publications, 2005), pp. 27- 31 94 S. Chandra, pp. 21 95 S. Chandra, pp. 36 96 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires, 1450-1600” (American Historical Association, 1989), pp. 128 territorio fosse spartito fra i suoi figli. Ben presto, però, i fratelli si ritagliarono ampi poteri, impostando il loro governo in base a fini personali. La situazione si complicò ulteriormente quando si trovò a fronteggiare l'eccessivo espansionismo di alcuni sultani: Bahadur Shah, sovrano del Gujarat, e Sher shah Sur. Quest'ultimo, di origini Pashtun, iniziò la sua carriera come semplice soldato, divenuto poi comandante sotto Babur e, infine, governatore del Bihar meridionale, meritandosi l'appellativo di Sher Khan, “re tigre”. Approfittando dell'assenza di Humayun, occupato a respingere l'avanzata di Bahdur Shah, egli guidò un'incessante guerriglia anti-moghul, ponendosi a capo dello sforzo indiano per espellere i Timuridi e occupando il Bengala. Non riuscì completamente nel suo intento, dovendo ben presto fronteggiare il tentativo del Gran Mogol di contrastarlo; il risultato fu una scontro, a Chausa, dove Humayun uscì sonoramente sconfitto 106. L'insuccesso portò l'imperatore ad alienarsi anche il supporto dei fratelli che, riunitisi ad Agra per analizzare la situazione, decisero di ritirar i loro contingenti di truppe, negandogli il loro aiuto. La disperata controffensiva timuride, che portò alla battaglia di Kanauj, nel maggio dei 1540, fu, come prevedibile, un disastro. L'avanzata di Sher Khan si rivelò inarrestabile, così Humayun si ritirò sempre più ad occidente, prima in Lahore, poi dal sultano del Sindh; infine, cercò di raggiungere i fratelli, in Afghanistan. Il sovrano della zona però, suo fratello Kamran Mirza, gli negò il passaggio, costringendolo a dirigersi ad ovest107. Nel frattempo, Sher Shah Sur aveva occupato tutto L'Industan, prendendone potere il 1540 e la sua morte, avvenuta nel 1545. Egli mise le basi, mediante la tassazione, una politica monetaria, il finanziamento di lavori pubblici e l'organizzazione di opere d'arte, per la nascita di uno stato imperiale, noto come Impero Suri, con capitale Delhi. Queste nuove forme di politica, anche se nelle mani di Sher Shah, si basavano in parte sull'esempio fornito dal regno di Babur e quindi che sulle tradizioni degli stati a padronanza militare; ma queste furono dapprima elaborati dai musulmani locali, specialmente dalla leadership afghana. I sovrani Sur, ovvero Sher Khan e i suoi discendenti, ebbero poco più di una dozzina d'anni per cercare di inoculare nei loro seguaci afghani, quali elementi militari dominanti del versante musulmano dell'India settentrionale, una devota fedeltà verso un trono comune; e di addestrare un corpo di amministratori pronti a creare un'uniforme ed efficiente organizzazione, quella che il suo fondatore cercava di istituire108. Nel frattempo, Humayun era riuscito a trovare asilo ad Herat, presso il sovrano dei Safavidi, Tahmasp I. Costui offrì il suo aiuto al sovrano in esilio, fornendogli le truppe necessarie a riacquistare il trono, in cambio della sua conversione all'Islam sciita. Nonostante un'iniziale riluttanza alla richiesta persiana, egli non esitò ad abbracciarla, dal momento 106 “Sher Shah of Sur”, Encyplopaedia Bitannica, http://www.britannica.com/EBchecked/topic/539997/Sher-Shah- of-Sur 107 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires, 1450-1600” (American Historical Association, 1989), pp. 128 108 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam, Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 62 che quest'ultima gli avrebbe concesso quell'appoggio militare cui l'erede di Babur necessitava per riconquistare l'impero del padre. 109 Grazie ai nuovi rinforzi, 12.000 cavalieri, egli intraprese un lungo conflitto contro il fratello, Kamran Mirza, che alla fine, dopo una campagna durata otto anni, lo vide finalmente vincitore nel 1553. Ristabilito il suo controllo sull'Afghanistan e accecato il ribelle parente, egli diresse le sue attenzioni verso l'India110. Qui, dopo la morte di Sher Shah, avvenuta nel 1545, suo figlio, Islam, non era riuscito ad impedire la frammentazione dell'impero, spartito con i suoi fratelli. Quando infine anch'egli morì, nel 1553, il suo regno risultava quindi diviso fra potenziali contendenti, i quali non esitarono a marciare su Delhi, rivendicando il proprio diritto alla reggenza del trono111. In tal modo, si presentava la perfetta situazione per i Moghul di marciare nuovamente sull'India. Privo di qualunque usurpatore, essendo tutti i fratelli venuti meno, Humayun si mise alla testa di un'imponente armata e tentò il difficile compito per la riconquista del trono di Delhi. Egli pose il suo esercito sotto l'abile guida del capace Bairam Khan. Questa si rivelò una mossa saggia, visti i disastrosi suoi precedenti di condurre personalmente un'armata, e fu di gran lunga lungimirante, in quanto Bairam si rivelò un eccellente stratega. Risultò così facile a Humayun abbattere, conquistando una vittoria fondamentale a Sirhind, contro Sikandar Shah, ponendo quindi fine alla dinastia Sur. L'anno seguente, nel 1555, egli entrò trionfalmente a Delhi112. 3.3 L'apice del Gran Mogol: da Akbar a Shah Jahan Poco tempo dopo, tuttavia, Humayun rimase ucciso in un incidente. Il 14 febbraio 1556 gli succedette il figlio minore, Akbar (1556-1605), all'epoca quattordicenne. Questi, pur essendo stato cresciuto fino ad allora negli accampamenti militari come un rozzo soldato analfabeta, si rivelò 109 Affresco ritraente Tahmasp I e Humayun, Chehel Souton, Isfahan, Iran. 110 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989), pp. 130 111 “Sur Dynasty”, Enciclopedia Britannica, 20http://www.britannica.com/EBchecked/topic/574921/Sur-dynasty 112 McNeil, pp. 131 presto un sovrano lungimirante e uno statista illuminato. La sua elezione lo pose in conflitto con Sikandar Shah Suri, erede della dinastia Suri e pretendente al trono113. L'esito dello scontro si ebbe nella seconda battaglia di Panipat (1556), dove l'esercito moghul sotto il comando di Bayram Khan, il quale agiva in nome del giovane regnante, sconfisse un'unione indo-afghana e riportò il controllo sul regno del padre114. Per quattro anni l'affidabile reggenza mantenne il regno timuride più o meno intatto. All'età di diciassette anni, nel 1560, il giovane Akbar prese il potere nelle sue stesse mani; dopo l'incoronazione, venne insignito del titolo di “Shahanshah”, “re dei re”115. Akbar ebbe un lungo regno e, lungo tutto questo periodo, gli storici concordano nel definire la sua reggenza quale apice del potere dell'Impero Moghul, tanto da meritare l'appellativo de “il Grande”. Durante suoi i primi anni, egli fece ricorso tanto alla diplomazia quanto alla forza militare per stabilire il proprio potere personale nel reame; debellò così definitivamente la minaccia rappresentata da ciò che rimaneva della dinastia Suri. Per il 1567, egli emerse come padrone indiscusso dell'India settentrionale. I suo territori iniziali includevano non solo la maggior parte dell'Indostan e del Punjab, ma anche territori limitrofi alla valle del Gange. Nel corso della sua vita, l'impero di Akbar continuò ad espandersi. Nel 1573 esso aveva incorporato il potente regno musulmano del Gujarat e reso vassalli i sovrani Rajput del Rajputana, dopo il matrimonio con la figlia del Raja di Amber, riuscendo così ad attestarsi come capo di tutti i bellicosi clan ed inserendo numerosi di loro nel governo. Entro il 1576 erano state incorporate le ultime roccaforti afghane nel Bihar e nel Bengala e, dopo il 1585, Akbar riaffermò il potere timuride lungo i territori montuosi nordoccidentali, al fine di assicurare la zona dai continui sconti contro gli Uzbeki, assumendo direttamente il controllo su Kabul e occupando il Kashmir. Nel 1595 era stata riconquistata Kandahar, ultima dei possedimenti della dinastia, caduta in mano dell'impero safavide. Entro il 1600, egli aveva assoggettato il regno del Ahmadnagar e sottomesso al potere timuride gli ultimi potentati musulmani del Deccan settentrionale. Questo fu il più vasto impero che l'India avesse mai visto sin dai tempi del Sultanato di Delhi, sebbene, rispetto a questo, fosse costruito per essere molto più durevole116. Akbar ereditò dai sovrani Suri, almeno in principio, un modello di tassazione piuttosto valido, basato su di un diretto controllo delle autorità centrali sui villaggi rurali e valutato sulla base di un precedente calcolo sul raccolto, piuttosto che sulle quote annuali di quest'ultimo117. Egli riuscì comunque a riformar tale sistema, tra il 1575 e il 1580, fissando la cifra media in base ai dati raccolti durante il decennio precedente e rendendo così i vari adeguamenti praticamente automatici. 113 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam, Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 63 114 S. Chandra, “Medieval India: From Sultanate to the Mughals, Vol.2” (Har-Anand Publications, 2005), pp. 94- 97 115 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989), pp. 136 116 Hodgson, pp.64 117 Hodgson, pp. 64 sebbene non sempre con costi contenuti (in vite umane). Il loro espansionismo necessitò di una buona dose di diplomazia, oltre che della semplice forza militare. Essi infatti assorbirono, piuttosto che scacciarono, le élite locali preesistenti, ognuna delle quali continuava a mantenere il proprio contingente militare123. Per queste ragioni, le stesse “fortezze dei Moghul servivano come baluardi contro le rivolte, poiché i Moghul da soli avevano la capacità di tenerle, ad eccezione di circostanze inusuali”. L'importanza militare delle città era dovuta inoltre al loro ruolo chiave nella produzione di moschetti e di pezzi d'artiglieria. Dal momento in cui le città dominavano le circostanti aree rurali, la classe dominante divenne urbanizzata. L'ultima riforma di Akbar fu intrapresa in ambito culturale e, in special modo, religioso; egli si rese conto di governare su di un popolo multietnico dalle diverse credenze religiose. Per tale motivo, dedicò molte risorse per trovare punti di contatto tra le diverse fedi, mostrandosi estremamente tollerante nei confronti dell'induismo, mentre, all'opposto, fu assai critico nei confronti dell'Islam. Per approfondire la conoscenza di altri culti, invitava a dibattere pubblicamente e liberamente alcuni dei maggiori esponenti delle principali religioni del regno, fossero essi musulmani, zoroastriani, hindu, giainisti e anche cristiani, questi ultimi provenienti dai possedimenti portoghesi, nonché dalle missioni francescane o gesuite. Applicò così un criterio di larga tolleranza religiosa, facendo in modo che i vari credi potessero convivere senza che qualcuno prevalesse sugli altri124. Nonostante i suoi successi, gli ultimi ultimi anni di Akbar furono offuscati dalle lotte tra i suoi figli, che già si contendevano il trono durante il suo regno. In particolare, nel 1599, il suo primogenito Selim, sfruttando la mancanza del padre, impegnato a guidare una campagna militare nel Deccan, tentò di conquistare il potere occupando Agra, e dichiarandosi imperatore. Akbar dovette rientrare nella capitale per ristabilire l'ordine, ma non prese nessun grave provvedimento nei confronti del figlio ribelle. Nonostante il padre prese in considerazione la possibilità di nominare suo erede il principe Khusrau Mirza, suo figlio minore e fratellastro di Selim, quest'ultimo riuscì a tornare nelle grazie di Akbar grazie all'influenza delle mogli e di sua nonna. Fu così che, nel 1605, egli poté succedere al padre dopo al sua morte come imperatore, con il nome di Jahangir125. Il primo anno del suo regno vide una ribellione organizzata da suo figlio maggiore, Khusrau Mirza . Costui raccolse delle forze sufficienti per assediare la città di Lahore, quando, raggiunto dal padre, fu sconfitto nella battaglia di Bhairowal del1606. La ribellione fu presto stroncata, diverse migliaia di dissidenti passati a fil di spada e Khusrau fu trascinato dinanzi al padre in catene, per poi essere accecato. Il sistema costruito da Akbar non fu comunque particolarmente danneggiato dal conflitto dinastico. Jahangir, quindi, poté contare sulle solide fondamenta dell'ottima amministrazione 123 Douglas E.Streusand, “The Formation of the Mughal Empire” (Oxford University Press, 1995), pp 80-81 124 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989); pp 175 125 Streusand, pp 82-83 paterna, tanto che il suo regno fu caratterizzato da stabilità politica, una forte economia e impressionanti conquiste culturali. Egli mantenne la medesima politica religioso-culturale del padre, sebbene si mostrò più cauto nei confronti dei sudditi musulmani, onde evitare di recar loro offesa. In nessun modo, comunque, impose conversioni forzate all'Islam e mantenne intatta la tradizione dei pubblici dibattiti fra differenti religioni126. Questo imperatore fu un aperto sostenitore della cultura e dell'arte europea e mediorientale; in particolare, rafforzò la naturale affinità dei Moghul con il mondo persiano, sposando la bella Nur Jahan, di origine iraniana, nel 1611, che introdusse a corte tutto il suo seguito e, con esso, la cultura della sua terra. Jahangir, infatti, era profondamente affascinato dall'arte, dalla scienza e dall'architettura. Fin da giovane mostrò una naturale propensione verso la pittura; possedeva, infatti, un atelier personale e, durante il suo regno, l'arte della pittura Moghul raggiunse i più alti livelli. Il suo interesse per la pittura servì anche per i suoi interessi scientifici del mondo naturale127. Egli intraprese, infine, diverse campagne militari, arrivando ad occupare il Bengala, il Kashmir, il Mewar e parte del Deccan. Gran parte dell'India fu così politicamente pacificata; in particolare, i rapporti con i Raja del Rajputana ne giovarono particolarmente. I governanti indù accettano la supremazia timuride e, in cambio, ottennero alte cariche fra i ranghi dell'aristocrazia Moghul. L'unico grande freno al suo espansionismo giunse nel 1622, quando lo shah Abbas I, imperatore safavide dell'Iran, invase l'attuale Afghanistan e occupò Kandahar. L'intromissione persiana colse alla sprovvista Jahangir, il quale era occupato a sedare un'aperta ribellione intrapresa dai suoi figli. Egli, infatti, aveva ormai dato l'esempio a ciò che diverrà una prassi comune per le future successioni dinastiche Moghul, per cui i figli contesero il trono paterno ben prima della sua dipartita o abdicazione. L'insubordinazione dei figli assorbì tutta l'attenzione dell'imperatore che, quindi, nella primavera del 1623, si accordò per la cessazione delle ostilità con i Persiani. In seguito, nel 1626, Egli iniziò a contemplare un'alleanza con gli Ottomani e con gli Uzbeki, così da poter opporre un notevole schieramento contro i Safavidi, che detenevano ancora il controllo di Kandahar. Il progetto, però, non si è concretizzò a causa della sua morte, avvenuta alla fine del 1627128. A succedergli fu suo figlio Khurram, il quale era, all'epoca, il suo unico erede rimasto ed unico attendente al trono. Egli si distinse sin dalla giovane età per le sue doti di condottiero; le prime occasioni gli si presentarono durante le campagne militari del padre, prima contro i Rajput del Mewar nel 1614 e poi contro i Lodi del Deccan, nel 1617. I suoi successi in questi conflitti spinsero il padre a concedergli il titolo di “Shah Jahan Bahadur”, “re del mondo” in persiano, un onore senza precedenti per un principe, consolidando così ulteriormente il suo status di principe ereditario. Nonostante la gloria ottenuta, ben presto gli intrighi di corte agirono contro di lui. Il principale 126 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam, Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 86 127 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989); pp 181 128 Hodgson, pp. 86-87 ostacolo fu ordito dalla matrigna Nur Jahan, la quale organizzò il matrimonio della sua prima figlia al fratello minore di Khurram, il principe Shahryar. L'appoggio della regina a quest'ultimo come pretendente al trono mandò Khurram su tutte le furie, tanto da ribellarsi apertamente al padre nel 1622. La ribellione durò per più di quattro anni, ma, nel 1626, Jahangir riuscì a sedarla e, di conseguenza, il figlio ribelle dovette accettare incondizionatamente l'autorità del padre. Il sultano, però, venne meno l'anno seguente, così Khurram salì al trono dell'Impero come “Shah Jahan”, “re del mondo”, titolo a lui molto grato, in quanto rievocava le sue gloriose radici mongole e timuridi129. Egli cercò, fin da subito, di riorganizzare il regno che aveva ereditato dal padre, promuovendo lo sviluppo di nuovi centri e rotte commerciali e il fiorire dell'artigianato in città, ora unite tra loro da nuove strade e vie fluviali. Tutto ciò non sarebbe però stato possibile senza prima aver assicurato la sicurezza nell'impero. Per questo motivo, egli promosse una serie di campagne militari, volte ad assicurargli la stabilità interna. Il suo primo obiettivo fu la città portuale di Hoogly, un avamposto commerciale portoghese situato nel Bengala sud-orientale. I portoghesi avevano ampiamente fortificato il sito con mura difensive, cannoni e navi da guerra, poiché questa stazione rappresentava una tappa fondamentale per il commercio tra l'India, la Cina e altre zone del Medio Oriente e del Sud-est asiatico. La sua attività commerciale la poneva in competizione con lo scalo Moghul di Saptagram, così come l'attività di conversione dei gesuiti risultava alquanto destabilizzante per il già fragile equilibrio culturale della zona. Fu così che la città fu posta sotto assedio per ordine del Gran Mogol e occupata entro la fine del 1632130. Egli diresse quindi le sue attenzioni contro un clan Rajput ribelle, quello dei Bundela, guidato dal rinnegato Jhujhar Singh. La campagna, guidata dal figlio Aurangzeb, allora sedicenne, fu breve e si concluse con l'occupazione dei regni di Baglana e Bundelkhand. Egli ottenne altrettanti successi contro gli stati del Deccan, ribellatisi sotto la guida della dinastia Nizam Shahi. Entro il 1636, Ahmadnagar, Berar e Khandesh vennero annesse e Golconda e Bijapur forzate a divenire tributarie nei confronti dell'Impero Moghul131. Shah Jahan cercò, infine, di estendere l'influenza timuride anche a nord, dando inizio ad una serie di conflitti con l'Impero safavide per il controllo degli importanti passi montani dell'odierno Afghanistan. La prima campagna, guidata dallo stesso imperatore, nel 1638, si concluse con un successo, quando il governatore persiano di Kandahar, Alí Mardan Khan, si arrese all'esercito Moghul. Nel 1646 vi fu una seconda spedizione, questa volta con la supervisione dei figli, i quali occuparono le città uzbeke di Badakhshan e Balkh132. La risposta dell'imperatore safavide, però, non si fece attendere e nel 1649 i Persiani riconquistarono Kandahar con un numeroso esercito. Ogni 129 “Shah Jahan”, Encyclopaedia Britannica, http://www.britannica.com/EBchecked/topic/537671/Shah-Jahan 130 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989); pp 115-17 131 S. Chandra, “Medieval India: From Sultanate to the Mughals” (Har-Anand Publications, 2005), pp. 192-6 132 Chandra, pp. 223 maggiore entità. Di queste, quella più solidamente radicata si dimostrerà essere quella della setta Sikh. Già durante il regno di Akbar, essi avevano sviluppato una forte proiezione sociale nel Punjab, esaltando l'artigianato ed il commercio, con la tendenza ad ignorare le pretese dei grandi eserciti. La politica Sikh, che era fiorita grazie all'universalismo dell'Impero, inevitabilmente si trovò avversa alla nuova oppressione religiosa di Aurangzeb, con la quale entrò presto in un contrasto che si tradurrà in aperto conflitto a partire dagli anni '90 del XVII secolo; alla fine del regno del Gran Mogol, i Sikh erano diventati la principale minaccia al potere timuride nel Punjab. Nonostante queste contese, o anche a causa di esse, dal 1679, anno in cui entrò in vigore la jizya, la tassa (abolita da Akbar) per i credenti non musulmani, la politica religiosa di Aurangzeb minacciò di creare ulteriori rivolte, prima ancora di aver sedato quelle già esistenti. Essa divenne ben presto sedizione all'interno dello stesso Stato, quando il Gran Mogol pose le sue attenzioni sui Rajput; in quanto di religione indù, gran parte di essi si rivoltò apertamente all'imperatore e alla sua ortodossia religiosa, con un grave contraccolpo alla stabilità delle gerarchie interne dell'Impero. Da pilastri della politica e della classe militare, essi divennero amari avversari alle sue politiche. Impegnato a concentrarsi sulle rivolte dei suoi stessi capi militari, a sua volta Aurangzeb fu costretto ad allentare il giogo sui propri governatori, i quali divennero sempre più indipendenti e sempre più potenti. Non appena la rivolta dei Rajput fu momentaneamente sedata, Aurangzeb tornò alle sue preoccupazioni per il Deccan. Egli cominciò con i sultanati sciiti, i quali accusava di aver appoggiato gli infedeli Maratha contro di lui. Concentrando le forze dell'Impero in quel settore, egli riuscì a sottometterli entro il 1686-87, trovando nuove terre da assegnare ai suoi ufficiali e obbligando gli uomini fedeli al precedente regime alla dispersione (o, in certi casi, a rinforzare le fila Maratha). A partire dal 1691 egli riuscì ad occupare alcuni altipiani e a controllare le scorribande dei Maratha, i quali non erano riusciti a trovare un degno successore di Shivaji, morto nel 1680 e succeduto dal figlio Sambhaji. Sembrava così che Aurangzeb fosse riuscito a completare il dominio timuride in India e a sedare ogni rivolta. Ma, immediatamente, le ribellioni ripresero con nuova forze; i Maratha ripresero le loro razzie con più audacia e i Sikh diedero prova di non esser stati ancora sconfitti. Quando Aurangzeb venne meno nel 1707, all'età di 90 anni, l'impero era stato decisamente minato; le risorse dell'impero sembravano prossime all'esaurimento e il potere timuride destinato a calare di anno in anno139. 139 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 95-98 Fonti Esaminate 1. Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974); 2. William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989) 3. Gàbor Àgoston, “Guns for the Sultan: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire” (Cambrige University Press, 2005) 4. Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006) 5. R. Matthee “Unwalled Cities and Restless Nomads: Firearms and Artillery in Safavid Iran” (Cambridge University Press, 1996) 6. Robert Elgood “Firearms of the Islamic World” (I.B.Tauris) 7. Babur, “Babur Nama: Memoirs of Babur, Prince and Emperor” (Oxford University Press, 1996) 8. S. Chandra, “Medieval India: From Sultanate to the Mughals, Vol.2” (Har-Anand Publications, 2005) 9. John F. Richards, “The Moghul Empire, Vol.5” (Cambridge University Press, 1996) 10. Iqtidar Alam Khan, “Early Use of Cannon and Musket in India, A.D. 1442-1526” (1981) 11. Douglas E.Streusand, “The Formation of the Mughal Empire” (Oxford University Press, 1995) 3. La macchina da guerra turca 1. Gli esordi dell'Impero Ottomano 1.1 L'inizio La storia della dinastia ottomana ha origine nel XIII secolo, in un modesto principato turco nei pressi di Söğüt, un villaggio montano posto sulle alture dell'Anatolia nord-occidentale. Il '200 si apre con un periodo di profonda instabilità e debolezza, sia per l'Impero Bizantino che per i Turchi di Rûm. I Bizantini, infatti, subirono una cocente sconfitta nel 1204, quando, durante la quarta crociata, furono costretti a cedere il controllo della loro capitale Costantinopoli, senza poterla rioccupare prima del 1262. I Sultanato Selgiuchide, invece, fu sconfitto dai Mongoli nel 1243 e ridotto a mero tributario del loro vasto impero. I confini di questi indeboliti imperi, noti come marche, erano zone prive della giurisdizione di alcuna delle due potenze, in cui le popolazioni stanziali, di fede greco-ortodossa, erano spesso vittime di razzie delle popolazioni nomadi delle alture limitrofe, di lingua e costumi turchi; la tradizionale jihad di queste ultime contribuiva a rinforzarne la loro efficienza militare. Alla fine del XIII secolo, quello di Osman I (1280-1326) era uno dei tanto numerosi stati-fantoccio, frammenti di quello che, una volta, era il potente Sultanato Selgiuchide di Rûm. Sebbene di ridotte dimensioni, esso era però ben posizionato, su di un'altura a ridosso delle terre bizantine. Egli, da signore guerriero quale era, comandava una banda di pastori nomadi e di avventurieri a cavallo in diverse scorribande nelle terre di Bisanzio, al fine di reclamarne il più possibile in nome dell'Islam e delle altre tribù orientali. 140 140 Miniatura raffigurante Osman I, Topkapı Sarayı Müzesi, Istanbul soprannominato Yildirim, “il fulmine”, per la rapidità con cui sapeva schierare il suo esercito in battaglia, cominciò a cingere d'assedio Costantinopoli nel 1395. Mentre però l'esercito turco non riusciva ad espugnarne l'imprendibile cerchia di mura, in quel momento la richiesta dell'Imperatore bizantino Giovanni V Paleologo diede origine ad una nuova crociata, organizzata per sconfiggere Bayezid. Nel 1396 fu così che crociati inglesi, francesi, tedeschi e balcanici si misero in marcia, guidati dal re ungherese Sigismondo, ma furono sconfitti nella battaglia combattuta presso la cittadina bulgara di Nicopoli. Gli Ottomani emersero così come i nuovi sovrani dei Balcani, mentre Bayezid edificò la maestosa Ulu Camii a Bursa, per festeggiare la vittoria. Nonostante questi successi, l'assedio di Costantinopoli si protrasse ininterrottamente fino al 1402, quando il Sultano, meno sistematico del padre, decise allora di espandere i suoi domini in Anatolia, entrando presto in attrito con i signori locali. Alcuni di questi, una volta spodestati, non si fecero problemi a stringere alleanza con Tamerlano, il grande signore turco-mongolo. Gli eserciti dei due si fronteggiarono nella battaglia di Ankara, nel 1402. Il Sultano ottomano, tradito da alcuni dei suoi vassalli, fu duramente sconfitto e preso prigioniero. Anche se in breve tempo i mongoli uscirono di scena, la dinastia ottomana fu fiaccata per un decennio da lotte intestine tra i quattro figli di Bayezid, che nel contendersi la successione trascinarono l'impero in una vera e propria guerra civile. Questo momento di debolezza dei Turchi ottomani fece si che la sopravvivenza dell'Impero bizantino si protrasse per altri cinquantanni. Alla fine di questo periodo di interregno, Mehmet I sopraffece i suoi fratelli e nel 1413 prese le redini dell'impero iniziandone la restaurazione. Egli dovette ben presto fare i conti con gli amir turchi dell'Anatolia, con la flotta veneziana nel Mare Egeo e contro i sui ex-vassalli cristiani in Europa. Il Sultano trasferì la capitale da Bursa ad Edirne, conquistò alcuni territori in Albania, l'emirato turco di Candaroğlu e il regno cristiano di Cilicia. Alla sua morte, avvenuta nel 1421, gli succedette il figlio Murad II, i cui sforzi militari si protrassero sia in Anatolia che in Europa145. Nel 1422 organizzò un doppio attacco a danno dei Bizantini: uno verso Costantinopoli e l'altro contro Tessalonica, la seconda città dell'Impero. L'assedio di Costantinopoli si rilevò tuttavia una disfatta per gli Ottomani, perché i bizantini avevano potenziato l'apparato difensivo della loro capitale fino a renderla praticamente inespugnabile. Le solidissime mura di Costantinopoli furono dotati dei primi cannoni, arma innovativa agli inizi del XV secolo. L'artiglieria di Murad risultò inefficace e il suo esercito dovette sgomberare il terreno in quello stesso anno, senza aver ottenuto nulla146. A Tessalonica, invece, l'assedio continuò fino al 1430, quando la città capitolò nelle mani degli Ottomani. Murad era dunque riuscito in uno dei suoi obiettivi e la caduta di Tessalonica fu un duro colpo per l'ormai pericolante Impero bizantino. Nel 1438 l'Imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, si recò in 145 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 132 146 V. J. Parry, M. E. Yapp, “War, Technology and Society in the Middle East” (Oxford University Press, 1977), pp.175 Europa per richiedere aiuti contro gli ottomani, offrendo in cambio la riunificazione della chiesa cattolica con quella ortodossa; il Papa accettò e proclamò nel 1443 una nuova crociata in aiuto dell'Impero bizantino. Fu formata una lega cristiana, con al comando il Re d'Ungheria e Polonia, Władysław III di Polonia e il condottiero ungherese János Hunyadi. Nel 1444 ebbe luogo la decisiva battaglia di Varna, durante la quale l'esercito cristiano fu annientato e in cui persero la vita sia il sovrano d'Ungheria e Polonia che il legato papale. Murad aveva ottenuto una grandissima vittoria e grazie a questa l'Impero ottomano poté continuare indisturbato la sua espansione nei Balcani a danno degli ultimi potentati bizantini. Il Sultano si ritirò entro la fine dell'anno, ponendo a capo dell'Impero il giovane figlio Mehmet, allora appena dodicenne. Una rivolta dei giannizzeri nel 1446 lo costrinsero a riprendere in mano le redini del trono e trascorse gli ultimi anni del regno organizzando spedizioni contro János Hunyadi di Transilvania e Gjergj Kastrioti Skanderbeg d'Albania, la cui resistenza ai Turchi li rese leggendari agli occhi dei loro popoli. Murad II si ammalò e morì nel 1451 ad Edirne147. 1.3 L'introduzione delle armi a pietra focaia nell'Impero Ottomano Il periodo dell'ingresso delle armi da fuoco nell'Impero Ottomano è argomento controverso. Il maggior problema da affrontare, lo stesso che affligge tutta la storia ottomana in generale, è riconducibile alla scarsità di fonti in nostro possesso, così come della loro affidabilità. Difficilmente infatti entriamo in contatto con fonti contemporanee o vicine a quello che, si suppone, possa essere il periodo in cui nell'impero si diffusero le armi da fuoco. Potrebbe esser rischioso basare i propri argomenti unicamente su fonti ottomane del tardo XV o XVI secolo, poiché non possono esser confermate da alcuna testimonianza indipendente; i cronisti potrebbero, infatti, aver applicato le terminologie del loro tempo nel far riferimento ad eventi precedenti. In tal modo, nella narrazione di assedi e battaglie in cui furono impiegate solo artiglierie meccaniche (es. trabucco) o armi da lancio individuali (es. balestra), i cronisti ottomani avrebbero potuto erroneamente menzionare armi da fuoco, il cui uso era divenuto regolare nell'epoca in cui essi scrivevano le proprie cronache. La terminologia, infatti, costituisce una delle principali sfide a cui gli storici devono sottoporsi, in particolare a quella riguardante la tecnologia militare148. Ad esempio, nel XV secolo, le fonti ottomane presentano la parola turca “top/topu” per indicare sia i cannoni, sia i proiettili sparati dagli stessi, e non è sempre ovvio quale sia, dei due significati, quello più logico da applicare. Allo stesso modo, la mera mancanza di termini quali “cannone” o “pistola” non necessariamente esclude la possibilità di una loro esistenza149. Per finire, non dobbiamo sottovalutare l'importanza di questi 147 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 134 148 Michael S. Neiberg, “Warfare in World History” (Routledge, 2001), pp. 27-29 149 Rhoads Murphey, “Ottoman Warfare, 1500-1700”, (UCL Press, 1999), pp. 13-14 “primi riferimenti” ai marchingegni a polvere pirica (lo stesso vocabolo “salnitro” apparirà in Europa solo a partire dal XVI secolo, sebbene fosse conosciuto ben due secoli prima). Occorreranno decadi, infatti, dopo il primo utilizzo delle armi da fuoco, affinché i soldati le utilizzassero abitualmente ed in grandi quantità, così da divenire tatticamente decisive. Allo stesso modo, non sarà prima del XVI secolo che queste armi dimostrarono di essere centrali all'interno delle strategie militari. Secondo la cronologia storica dell'Impero Ottomano, gli Ottomani fondevano cannoni sin dal 1346 e li usarono, in concomitanza con armi da fuoco individuali, contro il belicato di Karaman, nel 1386150. Nonostante queste date siano ormai entrate a far parte della scolastica occidentale, non dobbiamo dimenticare che queste date siano state estrapolate dalle cronache dello storico ottomano Sikari, il quale morì nel 1584 (200 anni dopo gli eventi considerati). Uno studio recente sostiene che gli Ottomani fossero dediti all'impiego di cannoni sin dal 1354, durante l'assedio di Gallipoli. Ancora una volta, questo avvenimento si basa su di una fonte più tarda, le cronache del XVI secolo di Kemal Pashazade (deceduto nel 1534). Nonostante sia noto che egli abbia utilizzato fonti precedenti e che fece affidamento alla tradizione orale, basata su testimoni oculari presenti agli eventi, il problema persiste: anch'egli può aver usufruito della terminologia dei suoi tempi. Alla luce di questi ostacoli, è difficile sorprendersi se alcuni studiosi europei abbiano espresso le loro preoccupazioni riguardo ai primi riferimenti sulle armi da fuoco nelle cronache ottomane. Si possono ridurre queste ambiguità osservando più da vicino gli avvenimenti storici riguardanti le prime armi da fuoco nei Balcani, a Bisanzio o nel mondo musulmano, possibili luoghi dove gli Ottomani potrebbero esserne entrati in contatto. Alcune fonti riportano che delle bombarde siano state impiegate nell'assedio di Zara del 1346. nel 1351, il senato di Ragusa emise l'ordine, per un certo Nicola Teutonicus, di produrre una spingarda. Quantunque Nicola non abbia mai portato a termine il suo compito, tra il 1362 e il 1363, i fabbri ragusani produssero diverse armi del genere. Dal 1378, le armi da fuoco divennero molto diffuse fra gli strumenti di difesa delle città. Nell'agosto dello stesso anno, i difensori di Kotor utilizzarono delle bombarde contro la flotta veneziana e, dal 1380, le armi da fuoco divennero comuni anche in Bosnia. I Serbi importarono le bombarde da Venezia intorno al medesimo periodo, prima di iniziare a produrne di proprie, intorno agli anni '90 del XIV secolo. Così, durante le loro battaglie, assedi e incursioni nella penisola, gli Ottomani ebbero l'opportunità di catturare alcune di queste nuove armi e con esse i loro costruttori e fabbri. In vista della dimensione ridotta di questi primi cannoni, trasportarli o contrabbandarli non deve aver comportato grandi difficoltà (in quell'epoca, le bombarde veneziane e dalmate erano di una lunghezza compresa tra i 40 e i 60 centimetri, così come la più piccola spingarda non superava i 14 chilogrammi di peso). La polvere da sparo può aver raggiunto gli Ottomani anche attraverso i Bizantini o gli Stati islamici. Le armi da fuoco erano impiegate a Bisanzio nel 1390, e dal 1396 al 150 Gàbor Àgoston, “Guns for the Sultan: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire” (Cambrige University Press, 2005), pp. 103-104 d'Egitto, anche a condizioni sfavorevoli per l'Impero158. Pose fine alle rivalità fra le diverse fazioni, riportando i territori precedentemente confiscati dal padre sotto il controllo dei loro precedenti proprietari e combatté la svalutazione della moneta. Il suo buon governo gli valse l'appellativo di Sofu, “il Pio”. Nel processo di restaurazione dei territori del precedente Impero bizantino, egli affiancò alle competenze degli uomini di stato greci e latini la sapienza scientifica degli ebrei iberici, i quali erano stati espulsi dopo il 1492 da Spagna e Portogallo. Il Sultano stesso inviò una flotta nella Penisola iberica per trasportarli in sicurezza in terre ottomane. Emise proclami in tutto l'impero, in cui ordinava di accogliere i rifugiati ebrei, ai quali concesse il permesso di stabilirsi all'interno dell'Impero e di diventare cittadini ottomani, minacciando di morte tutti coloro che avrebbero negato loro l'ingresso159. Egli fu inoltre l'artefice della definitiva riduzione di Venezia al ruolo di potenza navale di secondo piano, grazie anche alla frequente inclusione di navi pirata nella marina ottomana. A questi egli sottrasse Durazzo, Lepanto e, nel Peloponneso, Corone e Modone. Più minacciosa fu la sfida lanciata dal diffondersi dello sciismo nell'Anatolia orientale, a causa dell'ascesa dei Safavidi in Azerbaijan. Spesso infatti i contadini ed i nomadi spesso adottavano lo sciismo per dar voce ai propri dissensi contro il governo ottomano. La situazione degenerò sino a quando una ribellione di turchi giunse quasi alle porte di Bursa nel 1511. In questa situazione Bayezid fu costretto ad abdicare dal figlio Selim I, il quale decise di prendere le redini della situazione nel 1512160. Costui, un sovrano energico dotato di una propensione all'intolleranza e alla violenza gratuita, non esitò a sbarazzarsi dei fratelli e i possibili pretendenti al trono, tanto da farli guadagnare l'epiteto di Yavuz, “il Feroce”161. A lui va riconosciuto il merito di aver trasformato l'Impero ottomano da uno stato di ghazi nelle frange occidentali del mondo musulmano nel più grande impero sin dai tempi dei primi califfati. Subito dopo la sua ascesa al trono, il Sultano intraprese una politica improntata all'espansione territoriale, anche se per fare ciò necessitava di rafforzare il proprio potere interno162. A tale scopo, non potendo fidare sui potentati del regno divisi fra di loro, decise di affidarsi al corpo dei giannizzeri, grazie ai quali era riuscito a conquistare il potere, rafforzandone i poteri ed aumentandone il numero, che crebbe sino a 40.000 effettivi. Gli rese inoltre una forza altamente disciplinata e le dotò delle più moderne armi da fuoco. Deciso a sbarazzarsi definitivamente della minaccia sciita, Selim fece massacrare oltre 40.000 sciiti nell'Anatolia orientale e le sue forze invasero direttamente i territori safavidi. Qui si scontrò con le forse dello Shah nel 1514, presso la piana di Çhaldiran, dove un sapiente uso delle proprie forze 158 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 100 159 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 44-45 160 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 136 161 Barbero, pp. 48 162 Goldschmidt, Davidson, pp. 136 armate di armi da fuoco fece guadagnare agli Ottomani una schiacciante vittoria163. Con le truppe dello Shah in fuga, l'esercito del Sultano poté quindi entrare liberamente nella capitale, Tabriz, sebbene non non vi restò a lungo e non procedette oltre per intraprendere un'invasione della Persia. 164 Selim infatti abbandonò l'Azerbaijan e diresse le sue truppe a sud, contro i Mamelucchi d'Egitto, devastando la Mesopotamia, la Siria e l'Egitto. Nel giro di due anni ebbe presto ragione del nemico ayyubide ed ereditò così il loro vasto impero. La cattura ottomana del Cairo rese Selim il sovrano più prestigioso del mondo musulmano, il quale aveva occupato in un sol colpo buona parte delle città sante dell'Islam quali la Mecca, Medina e Gerusalemme. In seguito alla cattura del califfo ed al suo trasferimento ad Istanbul, Selim dichiarò apertamente la sua volontà di porsi come difensore della fede (sunnita), ed il califfato stesso finì per identificarsi con il sultano ottomano. Nell'ultima fase del suo regno, Selim I dovette affrontare la minaccia della rivolta delle popolazioni turcomanni nella parte orientale dell'Anatolia, il cui spirito ribelle non si era sedato nemmeno dopo la fine dei loro alleati safavidi. La motivazione principale di questa rivolta era finalizzata a contrastare l'insediamento del potere centrale del sultano in territori nei quali queste tribù erano abituate a vivere senza alcun controllo. Il primo focolaio di rivolta, scoppiato nel 1519, fu guidato ed ispirato da un predicatore safavide di nome Celal, il quale era riuscito a raccogliere intorno a sé una folta schiera di seguaci. Egli raccolse un esercito mal equipaggiato che venne distrutto dai 163 Rhoads Murphey, “The Ottoman Warfare, 1500-1700”, pp. 135 164 Particolare de “La Battaglia di Çaldiran”, Palazzo Chehel-Sotun , Isfahan giannizzeri quello stesso anno in un autentico massacro165. 2.2 L'apice dell'Impero: il sultanato di Solimano il Magnifico Selim morì nel 1520, durante l'organizzazione di una futura spedizione militare, questa volta in Europa, a danno degli Ungheresi. Gli successe il figlio Suleyman I, il quale non aveva all'epoca fratelli rivali che potessero opporsi alla sua ascesa al trono. Le sue prime campagne furono il proseguimento di quelle organizzate dal padre. Dopo aver messo a tacere una rivolta portata avanti dal governatore di Damasco, infatti, egli intraprese la campagna contro l'Ungheria a cui Selim stava lavorando prima della sua morte ed entro il 1521 completò la presa della città di Belgrado e la conquista della Serbia. Sempre sull'egida del padre, il Sultano pianificò di assalire le fortezze cristiane di Rodi e Bodrum, fondamentali per il controllo delle rotte navali verso l'Egitto. Nell'estate dell'anno seguente, approfittando della grande marina militare ereditata dal padre, Suleyman inviò una flotta di circa 400 navi verso Rodi, mentre personalmente si pose alla guida di un esercito di oltre 100.000 effettivi attraverso l'Asia Minore fino a un punto di fronte all'isola stessa. Qui vi fece edificare il Castello di Marmaris, che funse da base per la Marina ottomana. Dopo un assedio brutale di cinque mesi, Rodi capitolò e Suleyman permise ai sopravvissuti di ritirarsi nel Regno di Sicilia, dove costoro fonderanno poi l'Ordine dei Cavalieri di Malta166. 167 165 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 136 166 Rhoads Murphey, “The Ottoman Warfare, 1500-1700”, pp. 135 167 Particolare de l'Assedio di Rodi, dove si possono notare i Giannizzeri assalire le mura della fortezza; Matrakçı Nasuh, 1558; miniatura de il “Süleymanname”, Libreria del Palazzo Topkapi, Istanbul portoghesi173. Dalla base di Aden, Suleyman Pasha riuscì a prendere il controllo di quasi tutto il territorio dell'odierno Yemen, occupando anche Sanaa. Aden però si ribellò contro gli Ottomani e si alleò con i portoghesi, i quali mantennero il controllo della città fino alla sua riconquista, da parte di Piri Reis, nel 1548. Il suo ammiraglio condusse poi una flotta ottomana nel Golfo Persico, riuscendo a catturare di Muscat nel 1552. Con la sua forte stretta sul Mar Rosso, il Sultano riuscì così a contestare con successo il controllo delle rotte commerciali indiane ai portoghesi e a mantenere un significativo livello di scambi commerciali con l'Impero Moghul per tutto il XVI secolo174. Gli Ottomani furono ancora più abili nel controllare il Mediterraneo. La presenza degli spagnoli nel Mediterraneo occidentale aveva da sempre preoccupato Suleyman, il quale nutriva, come prima aspirazione, l'intenzione di contestare all'imperatore Carlo V il dominio dei mari. Riconoscendo la necessità di riaffermare la preminenza della marina ottomana nel Mediterraneo centro-occidentale, il Sulatano nominò un comandante navale eccezionale, il corsaro ed ammiraglio di origini greche Khair al-Din, noto agli europei come Barbaros Hayrettin o, più semplicemente, come “il Barbarossa”. Nel 1535 Carlo V ottenne un'importante vittoria contro gli Ottomani a Tunisi e l'anno seguente scoppiò una guerra contro Venezia. Ciò portò Suleyman ad accettare le proposte di Francesco I di Francia, intenzionato a formare un'alleanza contro Carlo175. Mentre infatti gli altri stati d'Europa guardavano al dominio del Sultano con un misto di terrore e di fascinazione, solo il trono di Francia intuì la possibilità di stipulare alleanze e di trarre vantaggio dai rapporti con l'Impero176. Nel 1538 la flotta di Carlo V fu sconfitta nella Battaglia di Prevesa dalle navi di Khayr al-Din e questo assicurò ai Turchi la supremazia navale per oltre trent'anni, fino alla sconfitta nella battaglia di Lepanto del 1571. Nello stesso periodo furono annessi vasti territori del Nordafrica, quali la Tripolitania, la Tunisia e l'Algeria, che divennero province autonome dell'Impero e servirono a Suleyman come cuneo offensivo nel conflitto con Carlo V, il cui tentativo di ricacciare il nemico fallì nel 1541177. L'impresa più audace compiuta da Suleyman nel Mediterraneo fu senza ombra di dubbio il tentativo di conquistare Malta. All'epoca, l'isola era sotto il controllo dell'Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, il quale si era ricostituito come Ordine dei Cavalieri di Malta, dopo aver abbandonato la roccaforte di Rodi. Nella seconda metà del XVI secolo, le loro azioni contro le flotte musulmane attirarono ben presto le ire del Sultano che riunì un imponente esercito al fine di rimuovere definitivamente la minaccia dei Cavalieri da Malta. Gli Ottomani invasero così l'isola nel 1565. Per l'occasione il Gran 173 William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires, 1450-1600” (American Historical Association, 1989), pp. 113 174 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 116-17 175 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 136-7 176 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 138 177 Goldschmidt, Davidson, pp. 136-7 Turco portò a Malta una delle più grandi armate mai viste fino ad allora. Essa contava più di 200 navi, 64 pezzi d'artiglieria e quasi 50.000 effettivi, di cui 12.000 erano Giannizzeri armati di archibugi o cavalieri armati pesantemente. A difendere il forte vi era solo una piccola guarnigione di 6.000 uomini, di cui meno della metà era composta da cavalieri o comunque da uomini in armi con precedente esperienza bellica. Per questo motivo, in un primo momento sembrò che quanto fosse avvenuto nell'assedio di Rodi stesse per ripetersi anche a Malta, con la maggior parte delle città dell'isola distrutte e la metà dei cristiani periti sul campo di battaglia. L'inatteso arrivo di una forza di soccorso dalla Spagna mutò definitivamente il corso della battaglia, che si protrasse sino a settembre e con esso al sopraggiungere della cattiva stagione. Ciò costrinse gli Ottomani ad abbandonare l'impresa lasciando sul campo metà delle truppe e di tutti gli equipaggiamenti178. 179 Suleyman fu anche un ottimo governante: si distinse come amministratore, edificatore, mecenate e patrono delle arti e per le leggi emanate, tanto essersi guadagnato l'appellativo turco di Kanunî, “il Legislatore”. La sua figura di sovrano capace, unita al successo di gran parte delle sue (molte) campagne militari, che hanno portato i confini dell'Impero ottomani ai suoi massimi storici, ha portato gli Occidentali ad attribuirli l'epiteto de “il Magnifico. Per i motivi sino ad ora elencati, gli storici di entrambi gli schieramenti sono concordi nel ritenere Suleyman come il più grande ed 178 Rhoads Murphey, “Ottoman Warfare, 1500-1700”, (UCL Press, 1999), pp. 161 179 “L'Assedio di Malta”, Matteo Pérez de Alesio, 1581, Sala del Trono, Palazzo del Gran Maestro, La Valletta influente sultano dell'Impero ottomano180. Nella vita privata, però, alcune sue scelte pesarono a lungo sul destino dello stato ottomano. La sua decisione di prendere in sposa Roxelana, la sua favorita all'interno dell'Harem, interruppe la tradizione che imponeva al sultano di non prendere moglie fra le concubine. Scaltra e ambiziosa, questa esercitò una grande influenza sul Sultano, che mise contro Mustafa, il figlio maggiore avuto dall'unione con un'altra donna, di grandi capacità e designato come erede al trono. Convincendo il coniuge che questi tramasse contro di lui, convinse Suleyman ad assassinarlo, così come fece anche con Beyazid, figlio della stessa Roxelana, e con il suo Gran Visir. Il Magnifico morì durante la sua ultima campagna sul Danubio, nel 1566. Scomparsi entrami gli eredi più abili, il trono spettò al primo figlio di Roxelana, l'inetto Selim II181. 2.3 Le cause del successo ottomano Non è facile individuare una particolare causa che abbia portato al successo dell'espansionismo dell'Impero ottomano sino al XVI secolo, ma più ad un insieme di cause concomitanti. Innanzitutto si può aver dedotto che la potenza e la gloria dell'Impero siano derivate dalle personalità e dalle capacità di governo dei primi dieci sultani. Raramente, nella storia, uno stato ha goduto di una tale successione di regnati giusti e coraggiosi, per quasi tre secoli. Senza ombra di dubbio, l'Impero ottomano riceveva una parte della sua potenza da questi capaci sultani, i quali impararono i principi del buon governo sia dai loro padri sia durante la loro formazione sul posto di lavoro nelle province. Ottennero il potere entrando in competizione con i loro fratelli, dal cui scontro di solito solo l'uomo migliore aveva la meglio. Per evitare lunghe e costose lotte di potere, infatti, i primi sultani stabilirono una regola secondo la quale un uomo che era riuscito ad accedere al trono avrebbe dovuto condannare tutti i suoi fratelli a morte. Erano inoltre privi di pregiudizi religiosi, i quali non impedivano loro di utilizzare le competenze amministrative (e talvolta anche militari e navali) dei propri sudditi cristiani anatolici e dei Balcani a beneficio dell'Impero. Quando sorgevano fazioni rivali all'interno dell'esercito o della burocrazia, essi li mantenevano in equilibrio e, quindi, sotto controllo182. Non va, inoltre, dimenticato un aspetto fondamentale dell'Impero ottomano, il quale deve buona parte della sua buona amministrazione anche ad individui scelti sulla base delle loro abilità. Il merito di tutto ciò si deve indiscutibilmente ad una delle istituzioni più bizzarre su cui si basa l'Impero, ovvero quella del devşirme, della “Raccolta”, da cui poi avrà origine un'altra istituzione, quella degli Yeni çeri, i Giannizzeri. Questi hanno il merito di esser appartenuti alla prima forza militare moderna, armata e mantenuta dallo stato, come non avveniva da tempo 180 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 70 181 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 137 182 Goldschmidt, Davidson, pp. 137-8 insieme alle maestranze per iniziare i lavori del canale, mentre una flotta ottomana assediava Azov. Una sortita della guarnigione della città, però, respinse gli assalitori e la flotta ottomana venne distrutta da una tempesta. All'inizio del 1570 gli ambasciatori di Ivan IV di Russia conclusero a Costantinopoli un trattato che restaurò le relazioni amichevoli tra il Sultano e lo Zar.189 La fine dei conflitti nel Mar Nero spostò lo sguardo del sultano sul Mar Mediterraneo e, più precisamente, sull'isola di Cipro. Essa rivestiva una grande importanza da un punto di vista strategico e commerciale, poiché costituiva una tappa fondamentale per le rotte del Mediterraneo orientale verso la Palestina e l'Egitto. All'epoca era in mano veneziana ed era ormai rimasta l'unica enclave cristiana in un mare prevalentemente ottomano. Nonostante allora l'impero fosse in pace con Venezia, Selim, che puntava a una grande impresa militare per passare alla storia come grande conquistatore, accarezzava fin da giovane il progetto di impadronirsi dell'avamposto più estremo dell'impero marittimo veneziano. Inoltre l'isola fungeva da base sicura per i pirati cristiani in quell'area. Il Sultano ritenne così di avere tutti i diritti di prendersela ed inviò dei messi a chiedere ai veneziani di cederla pacificamente. A Venezia si discusse molto, ma alla fine si decise per la guerra190. Fu così che nell'estate del 1571 una flotta ottomana sbarcò sull'isola ed entro agosto completò la sua conquista sconfiggendo i Veneziani nell'assedio di Famagosta191. Ma l'episodio assai più importante della guerra di Cipro fu la battaglia di Lepanto, combattuta il 7 ottobre del 1571. La guerra turco-veneziana aveva innescato un meccanismo che scosse tutta la cristianità. Per l'occasione, una grande coalizione cristiana, promossa da papa Pio V e da Filippo II e che comprendeva oltre allo Stato Pontificio e alla Spagna anche Venezia, Genova, il Ducato di Savoia e i Cavalieri Ospitalieri di Malta, riunì le sue navi nel porto di Messina, da cui partì sotto il comando generale di Don Giovanni d'Austria per scontrarsi con la flotta ottomana nel mare di fronte alla cittadina greca di Lepanto192. Gli ammiragli turchi discussero sul da farsi, ma alla fine le navi turche uscirono dal porto per accettar battaglia. Lo scontro fu un disastro e i cristiani ottennero una grandiosa vittoria193. La distruzione della flotta ottomana alla battaglia di Lepanto fu subito percepita in Occidente come un avvenimento di immensa importanza. Per un osservatore odierno la vittoria della coalizione sembrò quasi scontata, in quanto tale opinione vede nel XVI secolo un'Europa già lanciata alla conquista del mondo, in seguito alla scoperta delle Americhe e alla diffusione della polvere da sparo, ma è alquanto probabile che il medesimo sentimento non fosse provato dai contemporanei dell'epoca, i quali assistevano nella quotidianità alle lacerazioni del cristianesimo e alla costante minaccia del Gran Turco. Per questo motivo e per gli effetti che essa ha 189 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 121 190 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 141 191 Rhoads Murphey, “Ottoman Warfare, 1500-1700”, (UCL Press, 1999), pp. 91 192 Goldschmidt, Davidson, pp. 141 193 Murphey, pp. 195 avuto sull'opinione pubblica cristiana, essa viene spesso identificata dalla storiografia occidentale come l'episodio da cui scaturirono i primi segni della decadenza e del declino dell'Impero ottomano. Una tale definizione, però, non può che esse ritenuta affrettata, se non erronea. Occorrerà, quindi, compiere un'adeguata analisi sia degli eventi che hanno allo svolgersi della battaglia, sia agli effetti da essa generati. 194 Per quanto riguarda i primi, dopo il successo della campagna di Cipro la flotta turca si riversò nell'Egeo, saccheggiando Creta, anch'essa all'epoca in mano ai veneziani. L'anno successivo, in quanto regina incontrastate dei mari, si riversò nel Mare Adriatico, dove portò scompiglio e terrore per tutta l'estate. Quando le due flotte si ritrovarono l'una di fronte all'altra a Lepanto, in apparenza avevano circa la stessa forza (circa 200 galere ciascuna), quando in realtà vi era una differenza enorme: le navi ottomane erano in mare sin dall'inizio della primavera e si erano logorate in innumerevoli imprese. Dopo mesi di sbarchi, saccheggi e combattimenti avevano perso diversi membri dell'equipaggio, anche a causa di un attacco di peste e di dissenteria che aveva afflitto gli uomini a bordo per tutta l'estate. Una volta rientrata in porto, inoltre, gli ufficiali ottomani aveva iniziato a congedare i soldati e i marinai per il sopraggiungere della cattiva stagione. Le flotte cristiane, invece, giunsero allo scontro intatte. Questo perché le loro navi erano state assemblate in ritardo, durante l'estate, ed avevano trascorso poco tempo in mare. Erano al massimo della loro forza, con l'organico al completo di rematori, marinai e soldati. Quest'ultimi, inoltre, erano tutti armati pesantemente e dotati di archibugi, quando le navi turche trasportavano anche guerrieri montati, privi della loro cavalcatura, che per l'occasione si scontrarono contro il nemico utilizzando 194 “La Battaglia di Lepanto del 1571”, Andries van Eertvelt, 1640 i loro archi corti, inefficaci contro le armature occidentali. Per chi può giudicare col senno di poi, risulta difficile dubitare di come sarebbe potuto andare lo scontro; l'Occidente cristiano dell'epoca, invece, si convinse di aver ottenuto una grande vittoria per volere divino, anche per il periodo in cui è stata combattuta la battaglia. La data dello scontro, infatti, merita delle particolari attenzioni, in quanto il mese d'ottobre all'epoca segnava la fine delle attività navali, per il sopraggiungere della cattiva stagione. Il basso scafo delle navi di allora, infatti, rendeva le imbarcazioni troppo vulnerabili alle mareggiate invernali. Quando la flotta cristiana ottenne quindi una clamorosa vittoria proprio alle porte dell'inverno, il risultato fu giudicato miracoloso, quando invece la data dello scontro in questione arrise alla coalizione per i fatti sopra esposti. Un ulteriore motivo dell'importanza della data dello scontro è dovuto agli effetti concreti che essa ha prodotto. La flotta cristiana, dopo il trionfo, fece ritorno nei suoi porti, dove le sue galere sbarcarono i feriti e si smobilitò la fanteria. I piani della coalizione si limitarono alla stagione successiva, appunto per il cattivo tempo. Ma la primavera seguente, quando le flotte cristiane furono nuovamente in mare, rividero all'orizzonte le vele turche. Questo perché, su volere del Sultano, la flotta era stata completamente ricostruita. Il compito di portare a termine quest'immane impresa venne affidata al corsaro Uluç Alì, l'unico comandante sopravvissuto alla battaglia di Lepanto, il quale riuscì a rimettere in sesto la flotta in appena sei mesi. La battaglia di Lepanto passò quasi inosservata ad Istanbul, dove si festeggiava la conquista di Cipro e la flotta ricostruita in poco tempo. Per tutti i motivi sino ad ora esposti, si può quindi ritenere Lepanto un paradosso; quello di una vicenda che passò alla storia come un grande avvenimento ma che non produsse alcun risultato concreto195. Nel 1573 Venezia firmò una nuova pace separata con la Sublime Porta, ponendo così fine alla Lega Santa. Nel 1574 gli ottomani ripresero il controllo della Tunisia sottraendola alla Spagna, la quale era riuscita ad occuparla nel 1572. Quello stesso moriva il Sultano Selim II. 3.2 Da Murad III a Murad IV Dopo la morte del padre, salì al trono Murad III. Il Sultano, sebbene fosse un uomo raffinato e un mecenate delle arti, condusse una vita di piaceri. Seguendo l'esempio del padre, egli fu il secondo sultano ottomano a non andare mai in battaglia durante il suo regno, che trascorse interamente ad Istanbul. Durante gli ultimi anni del suo regno non lasciò nemmeno le sale del Palazzo Topkapi. La sua autorità fu minata dall'influenza delle donne dell'harem e, più in particolare, di quella di sua madre e della moglie preferita, Safiye Sultan196. Come suo padre, lasciò l'amministrazione dello stato al Gran Visir Mehmed Pasha. Fintanto che gli 195 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 156-67 196 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 141 riuscirono ad arginare la situazione di difficoltà in cui versava l'Impero206. Fu così che nel 1623 salì al trono Murad IV, nipote del precedente sultano Mustafa I, affetto da problemi psichici, il quale era stato deposto in seguito ad una congiura di palazzo. Aveva solamente undici anni quando salì sul trono e per buona parte del suo regno gli affari di stato furono sotto la reggenza di sua madre, Kösem Sultan, che di fatto governava l'Impero. Questo, nel frattempo, era caduto nell'anarchia. I Safavidi, guidati dal loro Shah Abbas I, trassero vantaggio dai disordini in cui si agitava il vicino e invasero così l'Iraq, entrando a Baghdad nel 1624. I governatori delle province non vollero più riconoscere l'autorità del sultano e, di fatto, smisero di inviare le tasse ad Istanbul. Scoppiarono gravi ribellioni, di cui la più forte fu in Anatolia orientale. Infine, nel 1631 i Giannizzeri presero d'assalto il palazzo e uccisero il Gran Visir insieme al suo seguito207. Il Sultano, temendo di subire la stessa sorte del fratello maggiore, decise di reagire. Nel 1632, all'età di ventidue anni e con il sostegno dalle forze politiche, iniziò a governare a pieno titolo. Murad e i suoi consiglieri si accorsero subito della decadenza che stava dilagando in tutto l'Impero. Il Sultano giunse alla conclusione che, per tornare ai fasti dell'era di Suleyman I, fosse necessario rimuovere la corruzione, rafforzatasi sotto i governi dei suoi predecessori. Fu così istituita la pena capitale per chiunque fosse corrotto o compisse malefatte; coloro che non si fossero attenuti a un comportamento consono, sarebbero stati uccisi. Il Sultano ridistribuì inoltre i timar appartenuti ai giustiziati, garantendoli a quanti si fossero dimostrati leali. Vietò infine gli alcolici, il caffè e il tabacco, imponendo un coprifuoco e pattugliando le città del Bosforo nelle ore notturne208. In ambito militare, il regime di Murad si mise in evidenza nella guerra contro i Safavidi; l'obbiettivo era quello di riconquistare le terre che questi avevano precedentemente strappato agli Ottomani. Egli ricreo forte esercito, con cui riuscì a conquistare l'Azerbaigian, occupando Tabriz e Hamadan. Durante la campagna in Persia soffocò tutte le ribellioni in Anatolia e restaurò l'ordine nella regione, soffocando le rivolte col sangue e ordinando diverse esecuzioni. Infine guidò lui stesso l'invasione della Mesopotamia, dimostrando di essere un eccezionale comandante sul campo. Nel 1638 pose sotto assedio Baghdad; la città resistette per quaranta giorni, ma fu costretta ad arrendersi e la maggior parte della sua popolazione fu massacrata dai conquistatori, nonostante le promesse precedentemente fatte di risparmiarli. Con il Trattato di Zuhab che seguì dopo la guerra, nel 1639, vennero confermati i confini stabiliti dalla pace di Amasya, con l'Azerbaijan, l'Armenia e la Georgia orientali e rimasti ai safavidi, mentre l'Armenia e la Georgia occidentali sarebbero tornate agli Ottomani insieme alla Mesopotamia, irrevocabilmente persa dai Persiani209. 206 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp.141 207 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 168 208 Goldschmidt, Davidson, pp.141 209 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 129 210 Una volta riprese in mano le redini dello stato dalla sua capitale decise, assieme ai suoi consiglieri, di riformare l'economia e la politica per far riguadagnare loro i fasti dei tempi di Suleyman. Questo però gli fu impedito da un avanzato stato di malattia, che l'avrebbe portato alla morte di lì a poco. Le dure dure riforme che il Sultano aveva apportato alla giustizia ottomana funzionarono finché il sultano fu in vita; molto probabilmente questo sistema avrebbe aiutato l'Impero a riprendersi e a rimanere grande per molti secoli, ma tutto fu vanificato dalla morte di Murad, alla giovane età di ventisette anni, nel 1640211. 3.3 Dall'assedio di Candia al trattato di Karlowitz Murad IV è considerato come l'ultimo grande sultano ottomano. Nel suo letto di morte diede ordine di uccidere il fratello Ibrahim che, secondo il sovrano, era incapace di proseguire la linea politica sino ad allora instaurata. Tuttavia, l'ordine del Sultano morente non venne eseguito e Ibrahim governò fino alla sua morte, in quello che viene ricordato come il peggiore governo di tutta la storia dell'Impero Ottomano. Questi passò tutta la sua vita confinato nel Kafes, la prigione dorata all'interno del Palazzo Topkapi in cui venivano rinchiusi i fratelli del sultano regnante quali possibili pretendenti al trono, prima di succedere al fratello nel 1640. Ciò lo rese mentalmente instabile e il 210 Il Sultano Murad IV 211 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 141 suo governo sconsiderato portò l'impero vicino al collasso in pochissimi anni212. Durante il suo regno, a prendere le principali decisioni furono sostanzialmente sua madre, Kösem Sultan, e il suo Gran Visir, Kemankeş Kara Mustafa Pasha. Fintanto che quest'ultimo rimase al potere, per i primi quattro anni del regno di Ibrahim, egli mantenne stabile l'Impero. Utilizzando metodi severi, pose fine alle ribellioni, equilibrò i bilanci, stabilizzò la moneta con una riforma del conio, ridusse il numero di Giannizzeri e rimosse i membri dello stato non produttivi. Con il trattato di Szön del 1642 rinnovò la pace con gli Asburgo e nello stesso anno sottrasse Azov dai cosacchi213. Quando nel 1644 i corsari maltesi catturarono una nave che trasportava pellegrini di rango elevato diretti alla Mecca, Ibrahim andò su tutte le furie e ordinò lo sterminio di tutti i cristiani nell'impero sebbene, sotto pressione dei suoi ministri, l'idea fu abbandonata. Dal momento che i pirati avevano base a Creta, Kapudan Yusuf Pasha incoraggiò Ibrahim ad invadere l'isola. Questo fu l'evento che diede inizio ad una lunga guerra con Venezia, che durò 24 anni. Nonostante il declino della Serenissima, le navi veneziane ottennero vittorie in tutto il Mar Egeo, catturando Tenedo nel 1646 e bloccando lo stretto dei Dardanelli. Ben presto si formò un grande malcontento, dovuto al blocco veneziano che causò scarsità di beni di prima necessità nella capitale e all'imposizione di pesanti tasse per far fronte ad un'economia di guerra. In un clima di rivolta, il Sultano venne deposto e assassinato, assieme alla madre, alle sue amanti e al Gran Visir in un colpo di Stato, nel 1648214. Gli succedette al trono il figlio Mehmet IV, di soli 6 anni. La sua ascensione segnò la fine di un periodo assai volatile per la dinastia ottomana; oltre agli intrighi di palazzo, l'impero stava affrontando gravi problemi, tra cui le rivolte in Anatolia, la sconfitta della flotta ottomana per mano dei Veneziani e l'assedio dei Dardanelli che aveva causato scarsità di cibo e disordini ad Istanbul. Fu in queste circostanze che la madre del Sultano concesse i pieni poteri esecutivi come Gran Visir a Mehmed Köprülü Pasha. Il regno di Mehmed IV è importante perché con esso si concluse formalmente l'epoca in cui i sultani ottomani erano di fatto i veri reggenti dell'impero: nel 1656 egli cedette i suoi poteri esecutivi al Gran Visir, inaugurando in questo modo l'era in cui i Gran Visir erano il vero potere dietro il trono di Istanbul215. L'anno successivo al suo insediamento, Mehmet Köprülü represse nel sangue, con l'aiuto dei Giannizzeri, la rivolta degli Spahi ad Istanbul. Condusse poi una spedizione navale contro i veneziani che bloccavano gli stretti, sconfiggendo la loro flotta nella battaglia dei Dardanelli, nel 1657. Ciò permise agli ottomani di riguadagnare alcune isole dell'Egeo e di riaprire le rotte per i rifornimenti all'esercito ottomano che stava ancora conducendo l'assedio a Creta. Egli diede inoltre 212 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 142 213 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 169 214 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 129 215 Barbero, pp. 171 Sotto i successori di Fazıl Mustafa Pasha, gli Ottomani subirono ulteriori sconfitte. Nel 1692 gli Asburgo conquistarono Vàrad e gli Ottomani fallirono nella sua riconquista. Quando, nel 1695, abbandonarono anche la fortezza di Gyula, l'unico territorio ancora in mano ottomana in Ungheria era una piccola lingua di territorio ad est del fiume Tisza. Tre settimane più tardi il Sultano morì e salì al trono Mustafa II. Egli fu determinato nel riprendersi i territori sino ad allora perduti e si pose personalmente alla testa del proprio esercito. La prima azione militare portò la marina ottomana a riprendersi l'isola di Chios, dopo aver sconfitto per ben due volte quella veneziana nel 1695. Contro gli Austriaci siglò diverse vittorie e l'esercito ottomano riuscì ad occupare Timişoara. Nel 1697 Mustafa lasciò la capitale per la sua terza campagna militare contro l'Impero asburgico, ma l'esercito ottomano subì una dura sconfitta nella battaglia di Zenta per mano di Eugenio di Savoia, dove perì anche il Gran Visir Elmas Mehmed Pasha. Gli ottomani furono così costretti a chiedere la pace con la Lega Santa attraverso il trattato di Karlowitz, nel 1699. Questo rappresentò l'evento più traumatico del regno di Mustafa, in quanto sanciva la totale perdita d'Ungheria, nonché segnò l'inizio del lungo declino dell'Impero Ottomano225. 225 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam: Coscience and History in a World Civilisation Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 133-6 Fonti Esaminate 1. Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974); 2. William McNeil, “The Age of Gunpowder Empires” (American Historical Association, 1989) 3. Gàbor Àgoston, “Guns for the Sultan: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire” (Cambrige University Press, 2005) 4. Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006) 5. Rhoads Murphey, “Ottoman Warfare, 1500-1700”, (UCL Press, 1999) 6. Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015) 7. V. J. Parry, M. E. Yapp, “War, Technology and Society in the Middle East” (Oxford University Press, 1977) 8. Michael S. Neiberg, “Warfare in World History” (Routledge, 2001) IV. Prima del diluvio: il diciottesimo secolo In generale, nella storia delle civiltà pre-moderne, un secolo è un periodo davvero contenuto. Nonostante tre o quattro generazioni non siano sufficienti per indicare una tendenza a lungo termine, la depressione della vita sociale e culturale dei potentati islamici alla fine del XVII e XVIII secolo spiccano in retrospettiva. Se nel XIX secolo avvenne il crollo totale della forte postura musulmana nel mondo, è nel secolo precedente che bisogna indagare su quanto non sia stato fatto per arginare la situazione che si andava creando. Anche se il Settecento non fu senza le sue interessanti e creative figure, fu probabilmente il meno importante nel raggiungimento dell'eccellenza culturale e fu il periodo dove tutti i forti governi musulmani si trovarono soggetti alla disintegrazione della politica interna. Ancora più inquietante, anche l'espansione secolare dell'Islam, sebbene non si fermò, subì forti battute d'arresto; le più grandi potenze musulmane furono spesso sulla difensiva e costrette a cedere terreno ai poteri non musulmani. Tali fenomeni, che suggeriscono un certo grado di declino nel potere sociale o culturale, possono essere definiti decadenza se si è attenti a non assumere alcuna tendenza a lungo termine, in assenza di ulteriori prove. Essi hanno rappresentato però più di semplici coincidenze; in parte, almeno, rispondono senza dubbio alle condizioni comuni dei potentati nelle terre dell'Islam. 1. La presenza dell'Occidente Se la prosperità ed il potere dei tre grandi imperi nel XVI secolo furono incentivate anche dal livello della produzione di risorse agricole raggiunte nel Tardo Medioevo, soprattutto nelle zone aride, il Settecento fu, per ciascuno di essi, materialmente meno prospero, sebbene non vi siano ragioni che facciano supporre che il livello delle risorse sia sceso così tanto in un lasso di tempo così limitato. Le ragioni per cui dobbiamo mostrare particolare interesse ad un solo secolo relativamente sterile, qualunque possa essere stata la ragione della “decadenza” in un qualsiasi sviluppo a lungo termine dell'islamismo in sé, è che esso assunse una rilevanza particolare nel contesto dello sviluppo storico del mondo dell'epoca. In nessun momento, infatti, la civiltà islamica fu così autonoma da essere perfettamente intellegibile al di la del nesso storico con il resto del mondo di cui faceva parte. Se per diversi secoli essa dominò la vita delle realtà afro-eurasiatiche come mai nessuna società pre- moderna non avesse fatto, nel XVIII secolo la storia di questi continenti, se non dell'intero mondo, stava prendendo una nuova svolta, in cui i musulmani non avrebbero più avuto un ruolo dominante226. In quel periodo l'Europa occidentale stava vivendo un lungo momento di incredibile creatività, che 226 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 135-36 in una condizione di arretratezza, in particolar modo dal punto di vista tecnologico. Elementi come la stampa, straordinaria invenzione che trasformò la società europea e che favorì, a partire dal XVI secolo, la nascita di un'opinione pubblica più informata, era invece proibita nell'impero, e quindi non solo in Asia Minore, ma in tutto il Vicino Oriente, nel Maghreb e nei Balcani. Il divieto nacque principalmente per volere del ceto dei religiosi, gli ulema, in quali detenevano anche il potere giuridico all'interno dell'impero e che temevano, di conseguenza, uno svilimento dovuto ad un'eventuale ristampa del Corano. Sebbene fosse accordato a diversi imprenditori greci o armeni di poter aprire delle stamperie, ciò venne concesso solo a patto che non si stampasse in turco. In questo modo si tagliò fuori la percentuale ,maggiore di individui all'interno dell'impero, e ciò contribuì fortemente a limitare la diffusione di testi scritti fra la popolazione musulmana, a differenza di quanto stesse accadendo in Occidente234. Un elemento di arretratezza tecnologica di cui presto soffrì l'impero riguardò anche la produzione di beni di lusso. Sebbene anche in epoche predenti elementi come le pellicce occidentali, la seta cinese o le schiave indiane fossero ampiamente diffuse in tutte le corti musulmane, ciò che cambiò profondamente nel Settecento fu che in questo periodo i beni di lusso esteri cominciarono a provenire da una particolare area, ovvero dal mondo europeo; ciò divenne maggiormente visibile nelle alte sfere di potere, quando in esse cominciarono a diffondersi sempre di più beni di lusso di origine occidentale. Se sino ad allora gli artigiani ottomani avevano assicurato un'ampia gamma di prodotti sia per il mercato interno che per quello estero, dopo il XVIII secolo questi importanti centri d'artigianato persero la competizione con quelli occidentali, tanto che gran parte dei prodotti esportati dall'impero verso l'oriente furono anch'essi di derivazione europea235. Forti elementi di innegabile arretratezza rispetto all'Occidente cominciarono ad emergere anche nel campo dell'economia. Nell'impero, infatti, non si sviluppò mai un sistema creditizio, con tecniche raffinate per le operazioni bancarie come invece accadeva in Occidente già dalla fine del Medioevo. L'ignoranza dei funzionari ottomani delle moderne transizioni economiche occidentali fu enormemente disastroso per gli affari economici della Sublime Porta. Sin dalla fine del XV secolo, infatti, gran parte del credito dell'impero fu affidato alle capacità imprenditoriali di quei banchieri ebrei che fuggirono dai travagli europei per rifugiarsi nei territori del Gran Turco. Queste rimanevano però mere attività legate alle capacità individuali di chi le svolgeva, piuttosto che porre le basi per un concreto sistema bancari con filiali all'estero. L'impero, inoltre, aveva a lungo perpetuato una politica commerciale aperta con le comunità straniere di mercanti cristiani, ai quali era riconosciuta la libertà di commercio e il diritto di essere sottoposti alle giurisdizioni nazionali; essi potevano governare così i loro affari interni tramite consolati, allo stesso modo di come avveniva nel sistema dei millet in ambito religioso. I vari sultani, inoltre, garantirono spesso a loro 234 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 178-81 235 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 138 termini ed accordi economici favorevoli, al fine di incoraggiare il commercio con l'estero. Persino in epoca pre-moderna, però, tale sistema si sarebbe rivelato pericoloso, come era accaduto per i Bizantini in epoca medievale nei confronti dei mercanti delle Repubbliche marinare. I corrispettivi accordi dell'età moderna avrebbero causato, infatti, risultati imprevedibili. Sino al 1740, questi accordi erano riconosciuti in Occidente con l'appellativo di “capitolazioni”, in origine uno speciale favore che il Sultano riconobbe agli alleati francesi, i quali erano, nel XVII gli unici alleati europei del Gran Turco. In seguito, ai francesi furono concessi privilegi più elaborati che in breve furono riconosciuti anche alle altre potenze cristiane. Il più importante privilegio era quello di poter estendere i certificati di protezione (berat) ai soggetti non musulmani, i quali guadagnavano di conseguenza i privilegi dei cittadini stranieri stessi. I beneficiari di questi accordi erano i membri di una rampante classe comunemente nota come “levantini”, in quanto svolgevano la maggior parte delle proprie attività commerciali nel Levante. Costoro spesso affermavano di essere occidentali, sebbene probabilmente fossero di origini disparate. Erano questi, piuttosto che gli occidentali stessi, ad essere la più importante forza commerciale della zona. Il risultato di garantire privilegi ad una tale categoria di commercianti si rivelò però disastrosa. Questo sistema, infatti, mise ben presto i musulmani in una situazione svantaggio nei confronti dei cristiani locali, e in poco tempo ne rimosse la maggior parte dalla classe mercantile ottomana. Nella maggior parte dell'impero, i musulmani non rimasero più il principale elemento del commercio e nulla fu fatto in quanto un tentativo di regolare o di tassare il crescente commercio sarebbe stato disastroso e avrebbe comportato una consistente perdita di potere effettivo. Quando questi privilegi furono assicurati, gli Ottomani non si sentirono minacciati da alcun pericolo o svantaggio; questo perché gli effetti dannosi non sarebbero emersi nel breve periodo, ma solo quando avrebbero causato espliciti abusi, che portarono a drastici risultati. I berat furono quindi garantiti indiscriminatamente alle potenze europee, ed i loro rappresentanti iniziarono ad essere tutelati al di la delle loro mansioni. Solo in seguito il governo ottomano si rese conto che un accordo apparentemente innocuo avrebbe avuto degli effetti economici (ed in seguito anche politici) disastrosi. Ma una volta giunti a questa conclusione era ormai troppo tardi perché questi fossero rimossi, salvo in casi di plateali abusi, poiché in quel momento l'intera vita economica e politica dell'impero ne era ormai immischiata236. Un'altra delle ragioni basilari della perdita di prestigio da parte degli ottomani fu la scomparsa del bilancio fra le varie forze all'interno della classe dominante. I primi sultani avevano incoraggiato la competizione fra i tradizionali capi ( i proprietari terrieri e gli ulama) e gli uomini che erano stati reclutati ed addestrati tramite il sistema del devşirme. Quando Suleyman I stabilì una successione di visir tutti emersi dal sistema della Raccolta, inevitabilmente aveva spostato l'equilibrio verso 236 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 141-44 quest'ultimo gruppo. In seguito, però, l'originaria logica meritocratica, che aveva fatto la fortuna dell'impero, fu rimpiazzata da un sistema di aristocrazia ereditaria; il metodo della leva, alla fine del XVII secolo, fu quasi del tutto abbandonato. L'ammissione al corpo dei giannizzeri non fu più limitata ai celibi, né caratterizzata da esclusività religiosa; i benefici passarono di padre in figlio, e quando i musulmani ottennero l'ingresso all'accesso al corpo, il numero degli arruolati crebbe rapidamente. Molti di questi, in aperta contraddizione con la tradizione e le finalità di questa istituzione, non possedevano un addestramento militare e la loro unica attinenza bellica si rivelò quella di farsi notare al momento di ricevere la paga, innescando un processo di continue richieste di denaro che provocò ripetute ribellioni da parte di questo corpo che ormai si era dilatato all'inverosimile e si era reso del tutto inefficiente. Similmente, i terreni dati in concessione ai membri della cavalleria, i sipahi, divennero tendenzialmente ereditari, ed essi si trasformarono in un una classe di signori della guerra locale, i derebey (o “signori della valle”). Costoro furono, insieme ad altre compagnie militari, la causa dello scoppio di continue rivolte, che devastarono l'intera penisola anatolica, già duramente provata dalla pressione demografica e dalla scarsità di terre coltivabili, causando un costante spopolamento delle campagne237. Contemporaneamente, anche l'élite di governo cominciò a non esser più allevata con quel sistema che aveva fatto la meraviglia degli occidentali. L'esatto momento in cui ciò ebbe inizio fu durante il regno di Mehmet III, nella seconda metà del XVII secolo, periodo durante il quale fu eletto Grand visir l'esponente di una ricchissima famiglia di origine albanese, Mehmet Köprülü, un cristiano reclutato ancora con il sistema del devşirme. Costui riuscì però, prima della sua morte, ad assicurarsi la successione alla carica del figlio, cosa quest'ultima sino ad allora impensabile. All'epoca, però, la maggior parte dei sultani delegava buona parte della propria autorità ai loro Gran visir, e non fu difficile per il Sultano acconsentire alla richiesta del suo buon ministro. Gli successe quindi il figlio Ahmed Fazil nel 1661 ed, in seguito, il cognato, Kara Mustafà, nel 1676. Nella seconda metà del Seicento, quindi, l'impero ottomano fu governato dalla dinastia politica della famiglia Köprülü, la quale assicurò all'impero ben 7 gran visir in meno di un cinquantennio. Sebbene questo potesse non costituire ragione di scandalo in Occidente, anche perché i Köprülü si rivelarono degli ottimi politici, l'impero però perse una delle sue peculiarità, andando ad assomigliare sempre di più ad un qualunque stato occidentale, dove i membri di spicco della classe dominante erano tali solo perché di nobile lignaggio. In seguito, nel periodo in cui i visir si dimostrarono abili ed onesti, la parabola discendente dello stato poté essere fermata o anche invertita di segno, ma, nel complesso, prosperarono il nepotismo e la corruzione nell'atmosfera sempre più decadente del palazzo238. 237 Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006), pp. 142 238 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 171 Nell'impero ottomano, insomma, si assiste all'avvento di una corrente favorevole ad un'apertura con l'Occidente. Vennero inviati ambasciatori all'estero, con il compito di visitare le fabbriche, gli ospedali, le industrie e le opere militari; cominciarono ad arrivare nell'impero ufficiali francesi con il compito di istruire i primi reparti turchi all'uso delle armi secondo i canoni occidentali; giunsero dall'Europa anche architetti, la cui influenza barocca è chiaramente visibile sui palazzi ottomani di Istanbul del XVIII secolo. Nonostante questi successi, però, nella Capitale persistono gli scontri fra i conservatori, in particolar modo i religiosi, e gli innovatori, che ritengono sia necessario adeguarsi ai canoni occidentali per non soccombere243. La soluzione alla disputa si ebbe nel 1730, quando Tahmasp II di Persia attaccò i possedimenti Ottomani ed il governo dell'impero si trovò impreparato. Infuriato per il presunto disinteresse di Ibrahim Pasha dagli affari di stato e per l'eccessivo lusso dello stile di vita del Sultano Ahmed III, reso ancora più sgradevole ai suoi sudditi per la sua indole europea e per la sua esitazione nell'accettare la sfida dei Safavidi, il popolo e le truppe misero a ferro e fuoco la capitale, sotto la guida di Patrona Halil, un ex giannizzero d'origine albanese. Ahmed allora sacrificò Ibrahim e gli altri visir, lasciandoli alla folla nel tentativo di salvare se stesso. In questo modo, sia gli aspetti estetici che quelli militari di stampo occidentale subirono un pesante rovesciamento a corte ed ogni tentativo di restaurare l'assolutismo fu interrotto244. 2.3 Alla ricerca di una Fenice Con l'indebolimento del potere centrale nell'ultimo periodo del secolo, l'equilibrio con le potenze locali smise di essere garantito. Le famiglie autonome divennero praticamente indipendenti, e quello che in passato erano sporadici attacchi fra truppe locali diventarono delle guerre provinciali in piena regola. Di fatto, i derebey inviavano truppe al governo centrale sono in caso di un proprio tornaconto personale, pur rimanendo più volentieri a casa. I pasha di Damasco ed Aleppo, alla fine del XVIII secolo, dovettero fare i conti con una situazione insostenibile: il commercio era in declino, i Beduini divennero incontrollabili, le casse erano svuotate e la disciplina stava venendo meno. In tutta risposta, essi agirono sconsideratamente, estorcendo il denaro alle popolazioni locali con l'intervento di forze armate. Ampie aree nella Mezzaluna fertile, coltivate da tempo immemore, furono abbandonate ai pastori beduini. Persino nella provincia unita d'Egitto, diverse unità militari, comprendenti anche i Beduini del deserto, si stavano ritagliando un protettorato. Qui, il contingente di Mamelucchi, che era sempre stato un elemento militare separato dalle regolari truppe ottomane nella capitale, a partire dal 1767 trovò dei violenti comandanti in Ali-bey e in Murad-bey, i quali 243 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 186-7 244 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 140 soppressero le varie autonomie locali, andando a creare un regno d'Egitto semi-indipendente245. Fu in questa attività di fazioni che furono invocati i modelli occidentali. Lo stato semi-coloniale dell'impero ottomano richiese ai sultani, quindi, di modernizzare o “europeicizzare” lo stato alla fine del Settecento. Se da alcune decadi l'Impero aveva iniziato a sfruttare consulenti militari francesi, nel 1789 il sultano Selim III creò il Corpo del Nizam-ı Jedid, o “Nuovo ordinamento”, nel suo comprensivo tentativo di rivitalizzare il vecchio ordinamento. Il nuovo corpo, che doveva sostituire i tradizionali Giannizzeri, era basato su un concetto di esercito moderno, arruolato quindi attraverso leva obbligatoria, finanziato con nuove tasse ed equipaggiato con armi e istruttori europei. Inoltre non godeva dei privilegi e dell'impunità tipici dei Giannizzeri. Il Nizam-ı Jedid costituì uno dei primi adeguamenti dell'Impero alla modernità che si faceva sempre più urgente e che la Sublime Porta voleva sperimentare, spinto dalle tante sconfitte militari subite ad opera degli eserciti europei. Il Sultano non ambiva soltanto a respingere le pretese europee sui territori dell'impero, ma sperava anche di ripristinare il controllo sui notabili di provincia246. Il desiderio di successo fu dimostrato nel 1799, quando un forte contingente del Nizam-i Jedid fu coinvolto nell'eroica resistenza opposta alle forze francesi del generale Napoleone Bonaparte presso la città palestinese di Acri, difesa dal suo governatore Jezzar Pascià, nel tentativo di arrestare la sua avanzata verso la Siria. In tale campagna, un terzo delle intere forze ottomane fu inviato in aiuto di quelle britanniche, e i soldati del Nuovo corpo e gli artiglieri britannici difesero con successo la città247. Creare una nuova forza militare fu soltanto una di una serie di riforme con cui il Sultano ambiva a risuscitare l'impero ottomano. Ciò comportò la nascita di antiche istituzioni e di controlli sociali, così come innovative riforme del sistema educativo e dell'apparato amministrativo. Inoltre, egli tentò di riformare il sistema dei timar, così come tentò di riportare in auge gli antichi costumi che distinguevano le varie classi sociali. In contrasto con queste misure che riguardavano il passato, Selim aprì delle ambascerie in Europa, fece edificare la prima “moderna” scuola con istruttori europei ad Istanbul per addestrare la nuova classe di ufficiali, e cominciò a creare una nuova struttura amministrativa per supportare le unità militari del Nizam-i Jedid248. I Giannizzeri, sentendo la loro posizione minacciata dalla nuova formazione, decisamente più efficiente, fomentarono una serie di rivolte tra il 1805 e il 1807, con l'aiuto di diversi membri di spicco fra gli ulema e promuovendo l'intervento di influenti notabili che detronizzarono il Sultano nel 1808. Il nuovo sultano, Mahmud II, sotto la minaccia delle truppe di provincia, acconsentì a rendere ereditabili i terreni affidati ai nobili, in cambio del loro consenso ad approvare il suo trono e 245 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 140-1 246 Stephen F. Dale, “The Muslim Empires of the Ottomans, Safavids, and Mughals”, (Cambridge University Press, 2004), pp. 280 247 Rhoads Murphey, “The Ottoman Warfare, 1500-1700”, pp. 248 Dale, pp. 280 la posizione del suo Gran visir249. Fu proprio in quegli anni che l'impero ottomano fu travolto da una guerra interna durissima, ovvero la guerra d'indipendenza greca. Sebbene questi fossero stati sudditi fedeli all'impero sin dalla loro occupazione nel XV secolo, le nuove correnti nazionaliste che emersero in Europa contribuirono a diffondere nell'élite greca un profondo desiderio di libertà. Il conflitto, scoppiato nel 1821, fu atroce, e da entrambe le parti si compirono atti efferati, quali massacri di civili ed esecuzioni capitali. In questa guerra, i Giannizzeri mostrarono tutta la loro incompetenza e la loro brutalità, e la tensione da essi creata e le continue sconfitte da essi subite in Grecia e nei Balcani indussero il Sultano a decretarne lo scioglimento e il quasi totale annichilimento del corpo nel 1826. Si aprì così, nell'impero, il periodo dei tanzimat, ovvero “delle riforme”, in cui il sultano ed i ministri si impegnarono per modernizzare il paese. In seguito egli si liberò dell'ormai arcaico sistema dei timar, integrando ciò che rimaneva della cavalleria dei sipahi nella nuova organizzazione militare, e si dimostrò anche abile nel sottrarre ai nobili alcuni dei loro possedimenti e di ridistribuirle ai suoi sostenitori250. Egli inoltre stabilì una nova amministrazione, la waqf, nel tentativo di assicurare al governo centrale il controllo su decine di migliaia di terreni “di carità”, i quali si rivelarono valide risorse agrarie e commerciali, in linea con quanto fatto dal suo predecessore Mehmet II nel XV secolo. Anche lo Shaykh al-Islam fu incorporato come consigliere religioso nel suo nuovo stato emergente, che ora poteva contare su diversi “moderni” ministri (degli affari interni; affari esteri; dell'agricoltura) e di scuole per addestrare i burocrati, persino sul modello francese delle ècoles251. Fu uno sforzo enorme per adeguare l'Impero ai livelli di complessità che aveva raggiunto, nel frattempo, l'Occidente. Quello dei tanzimat, comunque, non fu semplicemente un tentativo di imitazione dei modelli occidentali; fu uno sforzo di introdurre un'ideologia che non fosse nazionalistica, quanto piuttosto che fosse compatibile con la natura multietnica dell'impero. Per far questo, nel 1839 un editto sancì l'uguaglianza di diritti a tutti i sudditi, al di la delle proprie confessioni religiose. Vennero soppressi i millet e si cercò di creare un'unica cittadinanza multietnica e multireligiosa che permettesse a tutti di riconoscersi quale parte di uno stato superiore alle singole nazionalità252. Così come Mahmud fece risorgere il sistema ottomano, l'impero, però, continuò a contrarsi. Durante il regno di Selim II, l'allora tenue controllo ottomano sull'Hijaz e sull'Egitto evaporò. Dapprima, l'ascetico fondamentalista 'Abd al-Wahhab prese il controllo sull'Hijaz nel 1803; due anni dopo, in seguito all'invasione di Bonaparte dell'Egitto e della Siria, un ufficiale ottomano d'origine albanese, 249 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 143 250 Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015), pp. 189-90 251 Stephen F. Dale, “The Muslim Empires of the Ottomans, Safavids, and Mughals”, (Cambridge University Press, 2004), pp. 280-1 252 Barbero, pp. 190-2 culturale timuride in un'atmosfera di generale riconciliazione delle diverse tradizioni culturali. Nell'arte e nella letteratura, il regno creò un curioso parallelo con quanto stesse accadendo nello stesso periodo all'interno dell'Impero ottomano con il “Periodo dei Tulipani”258. Nonostante il rinnovamento culturale, in quel periodo era ormai troppo tardi per salvare quanto restasse dell'autorità imperiale. I Maratha ed i Rajput divennero indipendenti, i Sikh aumentarono considerevolmente la loro influenza nella regione del Punjab e molti governatori delle province Moghul si allontanarono progressivamente dall'impotenza del governo centrale, diventando sovrani locali a tutti gli effetti. Quando Nadir Shah invase il continente nel 1739, l'unico potente esercito Moghul non fu in grado di proteggere il cuore dell'Impero. Gli iraniani saccheggiarono quanto rimaneva del tesoro un tempo sontuoso, sottraendo il trono del Pavone di Shah Jahan e tornando in patria con i suoi tesori da fondere per finanziare ulteriori campagne militari in Persia259. 4.Conclusione Durante i due secoli compresi tra il 1722 e il 1923 gli imperi dei Safavidi, dei Moghul e degli Ottomani appassirono e collassarono. Il carisma e il dinamismo dei primi sovrani di queste dinastie si era atrofizzato ed era definitivamente svanito quando gli Afghani entrarono ad Isfahan, Nadir Shah saccheggiò Delhi e i Britannici ed i Francesi sbarcarono ad Istanbul alla fine della Prima guerra mondiale. A parte le loro architetture monumentali, gli squisiti dipinti e i memorabili poeti, il collasso delle dinastie lasciò retaggi marcatamente differenti nei precedenti territori di questi imperi. 258 Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974), pp. 144 259 Stephen F. Dale, “The Muslim Empires of the Ottomans, Safavids, and Mughals”, (Cambridge University Press, 2004), pp. 267-8 Fonti Esaminate 1. Marshal G.S. Hodgson, “The Venture of Islam. Vol.3” (University of Chicago Press, 1974); 2. Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East” (Westview Press, 2006) 3. John F. Richards, “The Moghul Empire, Vol.5” (Cambridge University Press, 1996) 4. Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul” (Sellerio Editore, Palermo, 2015) 5. Stephen F. Dale, “The Muslim Empires of the Ottomans, Safavids, and Mughals”, (Cambridge University Press, 2004) Bibliografia Alessandro Barbero, “Il divano di Istanbul”, Sellerio Editore, Palermo, 2015. Arthur Goldschmidt Jr, Lawrence Davidson, “A Concise History of the Middle East”, Westview Press, 2006. Babur, “Babur Nama: Memoirs of Babur, Prince and Emperor”, Oxford University Press, 1996. 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