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DIRITTO PENALE I (II parte), Sintesi del corso di Diritto Penale

Appunti su spiegazione del testo "Manuale di diritto penale, Parte generale" (G.MARINUCCI-E.DOLCINI) dalla COLPEVOLEZZA in poi. Prof.ssa Peccioli Sostituiscono il manuale (relativamente alle parti trattate).

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

In vendita dal 05/01/2014

elenam10
elenam10 🇮🇹

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Scarica DIRITTO PENALE I (II parte) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! 29 marzo 2013 La colpevolezza Dopo l’accertamento del fatto tipico e dell’eventuale sussistenza di cause di giustificazione, il giudice dovrà accertare l’elemento soggettivo: la colpevolezza, ossia l’insieme degli elementi soggettivi che consentono di muovere al soggetto attivo un rimprovero dal punto di vista psicologico per il fatto che ha commesso. Il giudice dovrà accertare, in primo luogo, la sussistenza di un rapporto di causalità; ciò tuttavia non è sufficiente: dovrà sussistere anche un rapporto di causalità psichica. La colpevolezza non ha un riconoscimento nel nostro codice penale. La sua definizione è ricavabile dall’art. 25, Cost., che disciplina la colpevolezza per un fatto materiale (non è ammessa la colpevolezza per un mero atteggiamento criminoso), e dall’art. 27.1, Cost. Nel nostro ordinamento è esclusa ogni forma di diritto penale dell’atteggiamento interiore  diritto penale del fatto e non diritto penale d’autore. Tuttavia, il nostro legislatore ha inserito nel nostro c.p. delle disposizioni che non sono proprio espressione del principio di colpevolezza relativo a un fatto materiale. Esempio: alcune circostanze aggravanti legate alla tipologia soggettiva (recidivi) o alcune norme in maniera di immigrazione. In assenza di una definizione espressa degli elementi costitutivi della colpevolezza, in dottrina sono emerse due concezioni a riguardo: 1) concezione psicologica della colpevolezza: si limita a richiedere una relazione, un legame tra fatto e autore. Essa ritrova le sue basi nella funzione retributiva della pena. Essa presenta, perciò, alcuni limiti: limitandosi al legame fatto-autore, non riesce a ricomprendere e a graduare tutti gli elementi soggettivi del reato. Nella colpa, per esempio, tale legame non sussiste. L’unico elemento di considerazione di tale concezione è dato dal fatto che il soggetto attivo (l’essere umano) è posto al centro dell’attenzione. 2) concezione normativa della colpevolezza: è più recente e anche più compatibile con l’art. 27.1, Cost. Non è sufficiente la concezione psicologica; deve essere presente anche il concetto di rimproverabilità del fatto commesso. Il soggetto andrà a rispondere per un evento di reato non solo perché esso è a lui riferibile a livello psicologico, ma anche perché quell’evento è a lui rimproverabile. Tale concezione permette di graduare i reati e di ricomprendere delitti sia dolosi (il soggetto ha voluto il fatto di reato), che colposi (il soggetto avrebbe potuto prevedere e evitare il fatto prestando più attenzione e cautela). Anche dall’art. 27, Cost., come già detto, è ricavabile la definizione di colpevolezza. Art. 27.1, Cost.: “La responsabilità penale è personale”  caratteristiche del principio di colpevolezza. Art. 27.3, Cost.: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”  funzioni del principio di colpevolezza. Esso ha varie funzioni: retributiva, general-preventiva e special-preventiva, rieducativa. Queste possono essere efficaci solo se si può muovere al soggetto quel rimprovero dal punto di vista psicologico. L’analisi della colpevolezza ci permette di valutare in modo differente alcune norme del nostro codice penale. Alcune di esse, infatti, non sono totalmente compatibili con il principio di colpevolezza. Nel 1930, infatti, esso non aveva ancora un fondamento costituzionale (la Costituzione entra in vigore nel 1948). Le norme in questione riguardano la responsabilità oggettiva: un evento viene imputato a un soggetto in base al rapporto di causalità materiale, senza che siano considerati gli elementi soggettivi. Esempio: norme sulla responsabilità dei reati a mezzo stampa (fino agli anni ’50 il direttore è oggettivamente responsabile); norme sul concorso di persone (art. 116 e 117); norme riguardanti l’aberratio (un soggetto cagiona un reato diverso da quello voluto per un errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa. Ad esempio Tizio lancia un sasso per infrangere una vetrina ma per un errore di mira colpisce Caio che si trova a passare nelle vicinanze. In questo caso infatti il reato che si realizza non è più il danneggiamento ma il reato di lesione personale); … Alcune di queste ipotesi sono state espunte dal legislatore o dalla Corte Costituzionale dopo l’entrata in vigore della Costituzione; altre, invece, permangono ancora del nostro codice. Esempio: art. 116, c.p.  due soggetti si accordano per commettere un furto. Uno fa da palo; l’altro non si limita a rubare, ma uccide il proprietario di casa. Il palo risponde del reato diverso come se lo avesse voluto (violazione del principio di colpevolezza). Tale norma è stata allora interpretata conformemente alla Costituzione (interpretazione correttiva)  ipotesi di responsabilità anomala. Ex art. 27.1, Cost., la responsabilità penale è personale. La Corte Costituzionale ha interpretato tale comma in maniera differente in due sentenze del 1988: la sent. 364/1988 e la sent. 1085/1988. Si assiste a un’evoluzione del contenuto del principio di colpevolezza, a partire dalla sent. 42/1965, fino a quelle del 1988 e alla sent. 322/2007. Inizialmente si optò per un’interpretazione limitata di tale comma  significato minimo del principio di colpevolezza: l’inciso “la responsabilità penale è personale” è sinonimo di divieto di responsabilità per fatto altrui. Un soggetto risponde penalmente soltanto dei fatti commessi personalmente da lui stesso e non da altri soggetti; sono quindi escluse le ipotesi che fondano la responsabilità sul ruolo ricoperto dal soggetto, sulla sua posizione. Sulla base di tale ragionamento, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le norme relative ai reati a mezzo stampa (responsabilità per fatto altrui). È un’interpretazione minima: è sufficiente il rapporto di causalità materiale e il fatto che il reato sia stato commesso proprio da un determinato soggetto. Non è richiesto il concetto di rimproverabilità. Con la sent. 42/1965 la Corte Costituzionale, chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 116, c.p., afferma che il fatto diverso deve essere legato al soggetto che non l’ha voluto (esempio: il palo) non solo da un rapporto di causalità materiale, ma anche da un rapporto di causalità psichica. Quindi, per l’evento diverso (esempio: da un furto deriva una rapina, cioè furto + violenza) il soggetto diverso (il palo) risponde solo se l’evento diverso rappresentava per lui uno sviluppo prevedibile e quindi evitabile  colpa. Questa rappresenta un’interpretazione intermedia del principio di colpevolezza. Con le sent. del 1988 la Corte afferma il fondamento costituzionale e gli elementi costitutivi del principio di colpevolezza: il comma 1 e il comma 3 dell’art. 27, Cost. devono essere letti in combinato disposto, attraverso un collegamento sistematico: la pena potrà esplicare la sua funzione rieducativa solo se la responsabilità penale sarà considerata personale  la responsabilità è personale solo se è possibile muovere al soggetto un rimprovero dal punto di vista soggettivo. Ciò è affermato anche alla luce del principio di legalità. NB: Il significato del comma 1 appare arricchito: la responsabilità è personale non solo perché riguarda un fatto personalmente commesso dal soggetto, ma è personale solo se è possibile muovere al soggetto un rimprovero dal punto di vista soggettivo. Solo in questo caso il soggetto può essere rieducato. Nasce il concetto di responsabilità penale personale colpevole: gli elementi soggettivi (dolo, colpa) devono investire tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. La forma minima di colpevolezza, compatibile con l’art. 27.1, Cost., è la colpa. Ciò porta, sul piano interpretativo, a salvare la compatibilità costituzionale di ipotesi di responsabilità oggettiva. La sent. 1085/1988 specifica la sent. 364/1988, definendo in più gli elementi costitutivi della fattispecie, che incidono sul bene giuridico tutelato (condotta, evento, circostanze del reato, …). Con la sent. 322/2007 la Corte ha riaffermato tutti i principi delle sentenze precedenti in relazione all’art. 609-sex, relativo all’ignoranza dell’età della persona offesa in un reato sessuale. La Corte Costituzionale ha stabilito che l’ignoranza non scusa a meno che non sia inevitabile (disciplina nuovamente modificata nel 2012). La struttura della colpevolezza Vari elementi sono necessari per accertare la colpevolezza: 1) il tipo di elemento soggettivo: i due soli elementi soggettivi compatibili con la colpevolezza (art. 27.1, Cost.) sono il dolo e la colpa. dolo eventuale la rappresentazione ha contenuto positivo (il soggetto agisce ugualmente, per conseguire, a qualsiasi costo, il suo obiettivo). Esempio: Tizio, per riscuotere il premio assicurativo dell’assicurazione sulla propria casa, la incendia. L’incendio si propaga anche all’appartamento superiore, dove si trova un anziano che, non riuscendo a fuggire, muore. Tizio potrebbe rispondere per dolo eventuale perché sapeva che l’anziano abitava al piano di sopra e non era in vacanza. La morte dell’anziano è stata rappresentata dall’agente come conseguenza possibile dell’incendio. Esempio: Tizio guida in una strada molto trafficata e, confidando nelle proprie capacità di guida, aumenta la velocità e investe un pedone. Egli risponderà per colpa cosciente, dal momento che, ritenendosi un ottimo guidatore, era sicuro che nulla sarebbe accaduto. Quest’ultima categoria ha posto svariati problemi in sede pratica. La giurisprudenza ha adottato diverse interpretazioni, giungendo quindi a conclusioni differenti; questo perchè nel nostro codice non esiste una norma che individui un criterio preciso che possa distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente. I criteri individuati dalla giurisprudenza sono vari: 1) il consenso: si ha dolo eventuale nel momento in cui il soggetto, nel rappresentarsi l’evento come possibile, non fa altro che accettare la sua verificazione. Tale interpretazione non è però conforme al c.d. diritto penale del fatto (o diritto penale d’autore), poiché si da rilevanza a un mero atteggiamento interiore. 2) la mera possibilità/probabilità della verificazione dell’evento: si ha dolo eventuale quando l’evento è rappresentato come meramente possibile/probabile. Anche tale teoria è stata a lungo criticata, poiché non consente di distinguere il dolo eventuale dal dolo diretto. 3) Formula di Frank: per distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente bisogna considerare cosa avrebbe fatto l’agente se avesse considerato l’evento come certo. C’è dolo eventuale se il soggetto avrebbe agito comunque; altrimenti, si ha colpa cosciente. 4) Teoria dell’accettazione del rischio: non si ha volontà, ma si agisce al costo di cagionare un determinato evento. Un tempo era sufficiente la generica accettazione del rischio della verificazione di qualsiasi evento; oggi è necessaria l’accettazione di un determinato evento. I settori in cui la differenziazione dolo eventuale-colpa cosciente appare fondamentale sono molti. Un tempo per gli incidenti stradali si applicava la colpa cosciente, non il dolo. Il legislatore, sull’onda emotiva di alcuni fatti di cronaca, ha previsto circostanze aggravanti specifiche per il reato di omicidio colposo in caso di verificazione della morte di più persone. Ciò ha portato ad assimilare tale reato con l’omicidio doloso. Nel 2011, con due sentenze del Tribunale di Alessandria, poi confermate dalla Cassazione, la giurisprudenza non parla più di colpa, ma di dolo eventuale per gli incidenti stradali da cui deriva, come determinato evento, la morte di un soggetto. Un altro settore in cui è importante la distinzione dolo eventuale-colpa cosciente è quello della responsabilità per trasmissione del virus HIV. Un’ipotesi particolare è quella del marito che trasmette alla moglie il virus, poiché ha avuto rapporti non protetti con un’altra donna. La moglie muore. In tal caso, si ha dolo eventuale. Altre ipotesi in cui tale differenziazione è essenziale sono la ricettazione (art. 648) e l’incauto acquisto (art. 712). Il dolo eventuale è compatibile solo con la prima; la seconda è un’ipotesi contravvenzionale. Il dolo eventuale fa nascere problemi di compatibilità anche con il delitto tentato. Il tentativo (art. 56) è una forma di manifestazione del reato che si ha quando un soggetto compie atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare un evento, ma l’evento non si realizza o l’azione non si compie. Per la giurisprudenza queste due figure non sono compatibili: nel delitto tentato gli atti devono essere diretti (o dolosamente orientati) alla verificazione di un determinato evento (anche se poi non si compie); per il dolo eventuale ciò non è previsto. I reati a dolo eventuale, inoltre, non sono compatibili con i reati a dolo specifico: la finalità del dolo specifico deve essere intenzionale. Il grado della colpa e l’intensità del dolo sono disciplinati dall’art. 133, il quale indica i criteri a cui il giudice si deve attenere. L’accertamento del dolo L’accertamento del dolo è l’ultima fase che il giudice deve attuare quando si trova ad accertare tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato. È di difficile accertamento, perché attiene alla psiche del soggetto. Il giudice deve considerare alcuni elementi (massime d’esperienza) con cui può stabilire se il dolo era presente oppure no. Congiuntamente vengono considerate la condotta precedente e la condotta successiva al reato. La colpa La colpa è il secondo elemento soggettivo. Uno degli elementi di differenziazione rispetto al dolo è che normalmente nei delitti si risponde sempre per dolo, a prescindere da un’espressa previsione. La colpa è eccezionale e sussidiaria: si risponde per colpa solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Ciò è ricavabile dagli artt. 42 (responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale), 59.4 (supposizione erronea della scriminante putativa = “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena , queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è s’esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come colposo”) e 55 (eccesso colposo = la scriminante sussiste ma l’agente eccede i limiti per colpa, come nella legittima difesa sproporzionata). Dolo e colpa possono essere previsti in norme diverse o in una stessa norma. Esempio: art. 326: rivelazione del segreto d’ufficio  comma 1: dolosa; comma 2: colposa. Esempio: nei reati contro la pubblica incolumità, non tutti i reati sono colposi; la responsabilità colposa deriva dalla combinazione di due articoli (art. 449, c.p. + una norma della parte speciale). Non tutti i reati colposi hanno un corrispettivo doloso (esempio: diffamazione) L’elemento che accomuna dolo e colpa è quello della definizione: come per i delitti dolosi, anche i delitti colposi hanno una definizione. Ex art. 43, c.p., il delitto è doloso “quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. Si fa riferimento al termine evento: anche nella definizione di delitto colposo tale termine va inteso in senso giuridico e riferito all’intero fatto tipico. Elementi della struttura della colpa Gli elementi essenziali della colpa sono: 1) mancanza di volontà, in relazione a tutti gli elementi del fatto tipico (elemento negativo); 2) violazione di una regola cautelare (elemento positivo), esigibili al momento della condotta. La violazione può essere di due tipi e va a costituire due diversi tipi di colpa: • colpa generica: il soggetto non vuole la verificazione di quell’evento, ma ha agito in maniera imprudente, negligente o imperita. Si tratta di regole non scritte che cristallizzano determinate modalità di comportamento che, se tenute, potevano portare all’evitabilità dell’evento. Sono regole cautelari:  negligenza = non va tenuto un determinato comportamento;  imprudenza = si tiene un comportamento contrario a quello che andrebbe tenuto (esempio: Tizio lascia il gas aperto e scoppia l’appartamento);  imperizia = regola relativa allo svolgimento di determinate professioni (esempio: professione medica). • colpa specifica: assenza di volontà ma inosservanza di leggi (con funzione cautelare, come le norme del codice della strada sul divieto del sorpasso a destra o sulle distanze di sicurezza), regolamenti, ordini, discipline; si tratta quindi di regole scritte. 3) evitabilità dell’evento: il giudice deve accertare il livello di evitabilità e di prevedibilità dell’evento realizzato. Questo elemento pone dei problemi: • in caso di colpa generica è sempre necessario per imputare colposamente il fatto al soggetto attivo. Come si fa ad accertare se tale evento era prevedibile ed evitabile? Qual è il modello di riferimento? Sono stati elaborati dalla giurisprudenza diversi criteri per valutare il livello di prevedibilità e di evitabilità dell’evento: non si può utilizzare il c.d. parametro di riferimento dell’uomo medio (non si può dire che è prevedibile ciò che l’uomo medio dovrebbe aspettarsi, perché si abbasserebbe il livello richiesto per il rispetto delle regole cautelari), ma nemmeno si può far riferimento al miglior agente possibile o alle prassi applicative (il giudizio sarebbe troppo ampio). Si fa riferimento al parametro dell’agente modello, il quale dovrebbe utilizzare tutte le cautele possibili che è legittimo aspettarsi. Il giudice deve tenere conto delle specifiche capacità del soggetto. Esempio: le responsabilità diverse che fanno capo a due medici diversi, un medico di base e uno specializzato in un determinato settore. Il paziente si rivolge a entrambi, i quali non riconoscono la malattia dell’uomo. Egli muore in conseguenza alla mancata diagnosi. Entrambi appartengono al modello medio, ma il livello di prevedibilità è diverso: il secondo sarà giudicato più severamente. • in caso di colpa specifica le regole cautelari possono essere a contenuto rigido (giudizio implicito nella violazione delle regole cautelari) e a contenuto elastico (il giudizio è accertabile caso per caso). In caso di regole cautelari a contenuto rigido, il fatto che io abbia rispettato la regola cautelare, non esaurisce il profilo della diligenza richiesta. Anche nel rispetto di tutte le regole cautelari, il giudice deve accertare che non residui una responsabilità per colpa generica. Esempio: si verifica un incidente stradale; anche se sono state rispettate tutte le regole cautelari ma il guidatore è stato imprudente, egli risponderà per colpa generica. 4) misura soggettiva della colpa. 3 aprile 2013 Principio di affidamento: è stato affrontato sia dalla giurisprudenza, soprattutto per quanto riguarda la responsabilità medica e per gli incidenti stradali, che dalla dottrina. Secondo tale principio un soggetto fa affidamento su un altro soggetto, che deve adempiere ad un obbligo. Tale principio conosce due limiti: 1) non puoi evocarsi se il soggetto e già titolare di una posizione di garanzia verso quel terzo su cui fa affidamento. Tale limite è stato elaborato nell'ambito del lavoro dipendente: il datore di lavoro non può fare affidamento sull'adempimento del dipendente perché è già titolare della posizione di garanzia. 2) si può invocare sempre, a meno che non vi siano degli elementi concreti che portino a pensare che il terzo non adempirà. Il principio di affidamento è usato in ambito di responsabilità medica in équipe. Come si ripartisce la colpa? La giurisprudenza ha affermato che si può invocare il principio sia prima, che durante, che dopo l'operazione. I componenti sono tenuti a programmare adeguatamente non solo la fase di intervento, ma anche quella post operatoria, in modo tale da fronteggiare gli eventuali rischi. Quando si tratti di rischi gravi evidenti tutti i sanitari ne sono responsabili, a prescindere dalle specifiche competenze di ognuno. Con riferimento all'esercizio di attività pericolose, è sempre prevedibile che possa verificarsi l'evento dannoso: per cui il criterio della previsione dell'evento deve essere rapportato non alla condotta dell'agente in sé considerata, ma all'eventuale superamento del rischio consentito, cioè di quella soglia di rischio inesorabilmente connesso all'attività stessa. Pertanto, il giudice dovrà accertare se l'agente ha rispettato tutte le regole che consentono di contenere il rischio stesso nei margini consentiti, cioè entro quel discrimine dato dal bilanciamento di interessi tra il risultato atteso e il pericolo corso. Per quanto riguarda la colpa, non esisteva una norma che parlasse di grado della colpa; essa era quantificata dalla giurisprudenza. Solo all'art. 133.1, c.p. si parlava un po' di ciò. Nel corso dello scorso anno il decreto-legge Balduzzi (n. 158-2012) prevede una particolare ipotesi di esonero da responsabilità colposa per coloro che esercitano una professione sanitaria --> esonero per colpa lieve, ovvero la colpa di più basso grado per colui che, anche se ha commesso un reato, ha esercitato rispettando tutte le regole. Si pongono due problemi: il primo è stato affrontato dalla cassazione (sent. di gennaio, depositata a marzo): essa si è occupata degli effetti del decreto sulle successione delle leggi penali nel 5 aprile 2013 Ipotesi di aberratio (rilevanza dell’errore nel diritto penale) L’errore può essere di tue tipi: • errore motivo: errore che interviene sul processo di formazione della volontà e della rappresentazione (questi sono due componenti del dolo); errore che in date condizioni può escludere l’elemento soggettivo del dolo. Lo analizzeremo in relazione all’art. 5 c.p. e all’art. 47 c.p. • errore inabilità: errore che riguarda l’esecuzione del reato. In riferimento a questo tipo di errore, parliamo delle ipotesi di aberratio, che sono tre, le prime due hanno una disciplina codicistica mentre la terza invece è creata dalla dottrina e non ha un riconoscimento legislativo: a) aberratio ictus (art. 82 c.p.) b) aberratio delicti (art. 83 c.p.) c) aberratio causae a) L’art. 82 disciplina l’aberratio ictus, cioè le ipotesi in cui un soggetto per un errore nei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa cagiona un’offesa ad una persona diversa da quella che voleva offendere. Esempio: io voglio sparare a Rossi, prendo male la mira e uccido una persona diversa. Secondo l’art. 82 io rispondo di omicidio doloso come se avessi cagionato l’offesa alla persona che volevo veramente offendere. Questa ipotesi ha sollevato un ampio dibattito in dottrina, che si è posta il problema innanzitutto in relazione all’art. 60 c.p. (che regola le ipotesi di errore di persona - error in persona, es. se io voglio uccidere Rossi e vedo un soggetto che mi sembra Rossi ma non lo è e lo uccido, rispondo di omicidio doloso). L’art. 60 c.p. non ha sollevato alcun dubbio, a differenza dell’art. 82, riguardo al quale la dottrina si è spaccata in due diversi orientamenti, uno maggioritario e l’altro minoritario: • l’orientamento maggioritario della dottrina riconosce nell’art. 82 un’ipotesi di responsabilità oggettiva, perché l’art. 82 assolve alla funzione di estendere la responsabilità dolosa anche nella ipotesi di offesa a persona diversa da quella voluta. • l’orientamento minoritario della dottrina prevede che non siamo di fronte ad una responsabilità oggettiva ma all’applicazione dei principi generali in materia di dolo, perché l’art. 82 si basa sul principio della rilevanza del titolare dell’interesse leso dalla norma: ai fini della rilevanza dell’offesa (es. omicidio) è irrilevante chi è il titolare dell’interesse leso (es. la vita), a prescindere che sia reso Rossi o Verdi. Ci sono delle norme invece per cui è rilevante la qualifica soggettiva del titolare dell’interesse leso (es. delitti contro lo Stato: attentato al Presidente della Repubblica), mentre nell’omicidio doloso l’identità è ininfluente perché la legge tutela la vita umana in generale. Da questo orientamento minoritario non viene quindi riconosciuta un’estensione della responsabilità dolosa ma un’estensione dell’art. 60 c.p. Più problematico è il comma 2 dell’art. 82 c.p., che contiene la disciplina della aberratio ictus bi- offensiva. Esempio: io voglio sparare a Rossi e oltre a fare questo, sempre per un errore di esecuzione del reato, uccide anche un passante) l’autore oltre ad offendere la persona che voleva ledere, cagiona anche un’offesa ad una persona diversa a prescindere dall‘elemento doloso. La norma stabilisce l’applicazione della pena prevista per il delitto doloso aumentata della metà, non delineando un’ipotesi di concorso di reato. L’art. 82, 2 c.p. contiene una deroga rispetto ai principi generali in materia di dolo. Anche in questo caso la dottrina propone un’interpretazione correttiva: anche se siamo in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, l’offesa a persona diversa deve essere imputata a titolo di colpa. L’art. 82 c.p. non indica una disciplina per l’aberratio ictus pluri-lesiva, nella quale non si realizzano solo due offese, ma più offese: oltre alla persona che si voleva effettivamente ledere, si offendono altre persone. Secondo la giurisprudenza, la disciplina applicabile sarebbe sempre quella dell’art. 82 ma l’imputazione sarà a titolo di colpa, applicando le norme sui concorsi di reati. b) L’art. 83 contiene l’aberratio delicti in cui abbiamo sempre una divergenza tra il voluto e il realizzato, perché voglio cagionare un’offesa ad un’altra per errore, rispetto a quella che volevo, a causa, anche qui ad un errore di esecuzione del reato. Diversamente dall’art. 82 c.p. l’errore porta non a cagionare un’offesa ad una persona diversa ma a realizzare un evento/reato diverso da quello voluto. Esempio: un soggetto vuole commettere un furto in un negozio, prende un mattone per sfondare la vetrina, lo lancia e invece di colpire la vetrina, colpisce un passante e gli cagiona una lesione. L’art. 83 c.p. stabilisce che quando si cagiona un reato diverso da quello voluto, l’autore risponde a titolo di colpa del reato diverso che ha commesso, quando il fatto è previsto come colposo. Questo articolo ha posto dei problemi interpretativi per quanto riguarda il suo inciso “a titolo di colpa ”, che cosa significa? E’ stato interpretato in due modi: l’interpretazione prevalente prevede che il titolo di colpa sia un richiamo ai fini dell’applicazione delle sanzioni ai delitti colposi, cioè alle pene del delitto colposo, ossia non è altro che un caso di responsabilità oggettiva; una seconda interpretazione secondo cui l’inciso “a titolo di colpa” non è indicativo soltanto di un rinvio ai fini dell’applicazione delle pene del fatto colposo ma in realtà è indicativo del reale e necessario dell’accertamento dell’elemento della colpa. Ovviamente questo secondo orientamento, che non è il più seguito dalla dottrina, ha ricevuto invece un avvallo importantissimo in giurisprudenza. Infatti la giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite con sentenza del 2009 è intervenuta non direttamente in materia di articolo 83 c.p. ma su una norma, di fatto speciale, che richiama l’art. 83 c.p.: la norma sul 586 (che ha una struttura simile alla preterintenzione, cioè si parla sempre del delitto voluto ma se ne cagiona uno non voluto) che al suo interno richiama l’art. 83 c.p.. Questa sentenza è molto importante perché afferma che l’inciso “a titolo di colpa” non è un mero richiamo alle pene del colposo ma è necessario un effettivo accertamento della prevedibilità, l’evento non sarà imputato al soggetto a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto se l’evento diverso sarà prevedibile ed inevitabile dal soggetto. Questa sentenza è importantissima perché parla di colpa generica da accertare in concreto e non in astratto. Questa interpretazione dell’art. 83 c.p. porta a una interpretatio abrogans dell’art. 83 c.p., perché non è altro che l’applicazione del principio generale in materia di colpa. L’ L’art. 83,2 c.p. contiene l’elemento della aberratio delicti bi-lesiva, perché oltre all’elemento voluto si cagiona anche l’elemento non voluto. c) La aberratio causae è una aberratio dell’iter causale. Esempio: io voglio uccidere un soggetto, sono su un ponte, in realtà lo spingo giù da un ponte e questo non muore in conseguenza del volo ma perché annega. Questo errore ha rilevanza rispetto all’esclusione del dolo? No, non ha rilevanza nei reati a forma libera, come l’omicidio, visto che l’iter causale è irrilevante e li sconto dolosamente a prescindere. Potrebbe assumere rilevanza la aberratio nei reati a forma vincolata. La giurisprudenza si interroga su ipotesi un po’ particolari di aberratio causae: un soggetto voleva uccidere Rossi sparandogli e ne nasconde il corpo, ma il soggetto non muore in conseguenza delle ferite ricevute ma muore soffocato perché seppellito. E’ rilevante? La giurisprudenza spezza in due l’iter causale e parla di tentativo di omicidio doloso e nell’ultimo segmento di omicidio colposo. Questa divisione è discutibile perché si potrebbe parlare di aberratio causae senza spezzare questi reati. Queste sono responsabilità anomale perché parliamo di interpretazioni speciali della responsabilità oggettiva. La locuzione “responsabilità anomala” deriva da una analisi di una sentenza della Corte Costituzionale, che a metà degli anni ’60 ha interpretato l’art. 116 c.p. iniziando a parlare di responsabilità anomala: tecnicamente io rispondo di un reato a titolo di dolo ma in realtà io non ho l’elemento oggettivo del dolo ma l’elemento soggettivo della colpa. Un’altra ipotesi di errore è l’errore motivo, cioè l’errore che a date motivazioni e a date ipotesi può anche escludere l’elemento soggettivo, cioè il dolo. Questo può essere di due tipi: errore di fatto e errore di diritto, detto anche errore sul precetto. L’errore di fatto è fondato su una falsa ed errata rappresentazione della realtà ed è disciplinato dall’art. 47 c.p. nei suoi vari commi. Il primo comma disciplina l’errore di fatto sul fatto (errore fondato sulla falsa percezione della realtà che incide sull’elemento costitutivo del reato, cioè sul fatto di reato) e il terzo comma tratta dell’errore di fatto fondato su di una legge extra-penale. L’errore di diritto che non investe un errore sul precetto che trova la sua disciplina nell’art. 5 c.p.. L’art. 5 contiene una disciplina molto rigida, cioè l’errore che investe il contenuto precettivo della norma non ha rilevanza ai fini dell’esclusione della rilevanza della legge penale, non scusa, non ha rilevanza ai fini del dolo. Il soggetto che agisce non può invocare l’ignoranza della legge penale, se non a date condizioni. Questa disciplina è stata introdotta nel 1930 prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Come si fa a muovere un rimprovero ad un soggetto che non conosce la legge penale? E’ compatibile con il principio di colpevolezza? Di fronte a questa disciplina, la giurisprudenza di legittimità, prima dell’intervento della Corte Costituzionale, e più frequentemente la giurisprudenza di merito (dei tribunali) avevano riconosciuto una efficacia scusante alla “buona fede” in relazione ad alcuni tipi di contravvenzioni come la materia di reati edilizi, urbanistica, ambiente. Chi commette reati in “buona fede” in relazione a queste contravvenzioni può essere scusato per ignoranza della legge penale. Questa giurisprudenza che riconosceva un valore scusante alla buona fede, non era così svincolata, perché riconosceva il valore scusante alla buona fede, ma solo alla buona fede qualificata, cioè in presenza di un comportamento negativo (assenza di conoscenza della normativa) e di un comportamento positivo (es. la pubblica amministrazione poteva aver indotto in errore il privato che aveva agito in assenza di concessione). Si trattava però di interpretazioni della giurisprudenza limitate ad alcune situazioni specifiche, cioè le contravvenzioni. La Corte Costituzionale perciò è intervenuta e ha dichiarato incostituzionale, con la sent. 364 del 1988, l’art. 5. Questa sentenza è stata chiamata a valutare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, quindi la disciplina della scusabilità dell’errore. L’art. 5 è quindi stato dichiarato illegittimo nella parte in cui non esclude l’errore inevitabile, normalmente l’ignoranza della legge penale non scusa, a meno che non sia una ignoranza inevitabile. La Corte ripercorre l’origine storica dell’art. 5, richiama i lavori preparatori e la ratio che l’aveva giustificato che però non appare compatibile con l’art. 27 Cost.: si potrà rimproverare l’ignoranza al soggetto solo nel caso non abbia potuto conoscere la norma penale, di fronte alla ignoranza inevitabile al soggetto non potrà essere mosso alcun rimprovero di natura soggettiva, nei casi previsti dalla Corte. L’art. 5 non è incompatibile solo con l’art. 27 Cost ma anche con l’art. 2 Cost. perché va contro al principio di solidarietà sociale: il cittadino ha l’obbligo di informarsi del contenuto precettivo della norma in modo tale da essere in grado di conoscere e comprendere il significato e il contenuto dell’illiceità dei suoi comportamenti. Parliamo ancora di incostituzionalità tra l’art. 5 e l’art. 25 Cost. (in relazione al dovere dello Stato di informare i soggetti del contenuto della norma) l’art. 73 Cost. (la pubblicazione delle leggi). La Corte Costituzionale non si ferma qui ma cerca di individuare dei criteri di quando siamo in presenza di una ignoranza evitabile o inevitabile, per fare questa distinzione ci sono diversi criteri che sono di tre tipi: alcuni sono fondanti altri no, possono essere i criteri utilizzati dal giudice che sono di tre tipi: criteri oggettivi, criteri soggettivi o criteri misti. 1. criteri oggettivi (hanno efficacia erga omnes) e rendono oggettivamente impossibile l’inevitabile ignoranza, es. un testo legislativo difficilmente interpretabile oppure un contrasto giurisprudenziale molto forte ed evidente su di un settore. 2. criteri soggettivi che non hanno fondamento per quanto riguarda l’inevitabilità dell’errore, cioè l’evitabilità o l’inevitabilità dell’ignoranza non possono essere fondate sulle caratteristiche del soggetto, non si può dare valore al fatto che il soggetto non ha un livello culturale non troppo elevato, questo non significa che il livello di conoscenza richiesto sia uguale per tutti (esempio: i reati multiculturali). 3. criteri misti: ad esempio, adeguarsi ad una prassi applicativa non corretta e illegittima potrebbe essere un criterio idoneo a escludere il dolo e a rendere la rilevanza della legge penale inevitabile o frequenti assoluzioni in materia. La Corte Costituzionale esclude dalle ipotesi giustificative dell’ignoranza della legge penale la buona fede. La buona fede è esclusa dalle ipotesi, ammettendo la possibilità solo nel settore delle contravvenzioni. La giurisprudenza ha un atteggiamento rigidissimo nei confronti della sentenza della Corte riguardante l’art. 5 . Sono pochissime e rarissime le sentenze di legittimità nella quali la giurisprudenza abbia riconosciuto un valore scusante all’errore sulla legge penale. Più frequenti esistono alcune deroghe, che consistono in ipotesi in cui un soggetto, privo della capacità di intendere e di volere, può essere dichiarato colpevole. 2) le cause che escludono/limitano l’imputabilità. I due presupposti dell’imputabilità sono disciplinati dall’art. 85: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Il nostro codice non definisce la capacità di intendere e di volere; la dottrina, però, ha fornito una possibile interpretazione: c. capacità di intendere = capacità di comprendere il significato del proprio comportamento, la capacità di rappresentarsi in maniera corretta la realtà esterna. d. capacità di volere = capacità di autodeterminarsi; non è sinonimo, però, di “libero arbitrio”. Soltanto in presenza di entrambi si può parlare di colpevolezza. La capacità di intendere e di volere deve sussistere in relazione al momento della verificazione del fatto di reato. Una possibile perdita successiva alla verificazione del fatto di reato non è rilevante ai fini dell’imputabilità. Esistono tuttavia delle deroghe a tale accertamento. L’imputabilità non può essere valutata in generale, ma soltanto in relazione a un determinato fatto di reato: un soggetto può essere in astratto capace di intendere e di volere in relazione a un reato, ma non in relazione ad un altro reato. Il codice penale si limita a prevedere in negativo l’imputabilità, dicendo che l’imputabilità è esclusa quando il soggetto non ha la capacità di intendere e di volere (art. 85). Negli artt. successivi il codice fa una serie di ipotesi che possono escludere totalmente o parzialmente l’imputabilità. Si è discusso circa la natura giuridica di tali disposizioni: sono ipotesi tassative oppure no? Esistono ulteriori ipotesi rispetto a quelle previste dal c.p. (ossia ubriachezza, utilizzo di sostanze stupefacenti, minore età, …)? Secondo l’opinione maggioritaria l’art. 85 (clausola generale) è applicabile anche a ipotesi non previste dal c.p. Cause che escludono/limitano l’imputabilità 1) La minore età (nello studio coordinare minore età – circostanze, cap. successivo) L’art. 98 disciplina l’imputabilità dei minori, distinguendoli in due categorie: minori di anni 14 e minori di età compresa tra i 14 e 18 anni. L’art. 98 è uno dei pochi artt. del c.p. che tratta del minore come autore di reato (e non come vittima dello stesso). Per i minori di 14 anni il c.p. prevede una presunzione assoluta di imputabilità. Non può essere mosso, a suo carico, alcun rimprovero di colpevolezza. Per i minori di età compresa tra i 14 e i 18 anni il c.p. prevede che si debba verificare la capacità di intendere e di volere degli stessi (capacità di autodeterminarsi e di comprendere le conseguenze delle proprie azioni). In tal caso, non è esclusa l’imputabilità; potrà essere mosso al minore il rimprovero relativo al principio di colpevolezza. La sanzione penale eventualmente applicabile è però diminuita: la minore età è una circostanza attenuante personale di natura soggettiva (ossia relativa alla condizione del soggetto = minore età), a effetto comune. Quando il legislatore, come in questo articolo, utilizza la locuzione “la pena è diminuita”, bisogna far riferimento ai principi generali dell’art. 63: la diminuzione può arrivare a un massimo di ⅓ (c.d. circostanza a effetto comune). Il giudice può talvolta trovarsi dinnanzi ad un concorso di circostanze attenuanti e aggravanti, che possono rispettivamente diminuire e aumentare la pena. Esempio: minore di 18 anni (circostanza attenuante) che ha realizzato un furto per motivi futili (circostanza aggravante). In ipotesi del genere il giudice deve procedere al giudizio di bilanciamento; gli esiti possono essere tre: 1. decidere di dichiarare valente l’aggravante (l’attenuante soccombe); 2. decidere di dichiarare valente l’attenuante (l’aggravante soccombe); 3. decidere di annullare aggravante e attenuante, tramite un giudizio di valore (non matematico); si applica, in questo caso, la pena base. Secondo la dottrina, il fatto di riconoscere la natura giuridica di circostanza alla minore età potrebbe comportare il rischio di vanificare il diverso trattamento sanzionatorio dei minori (autori di reati) rispetto agli adulti (autori di reati) perché, in un eventuale giudizio di bilanciamento, essa potrebbe essere annullata. Sarebbe più opportuno riconoscere sempre il valore della minore età. Con la sent. 168/1994 la Corte Costituzionale ha blindato la minore età nel giudizio di bilanciamento, in limitate ipotesi: quando l’attenuante concorre con aggravanti che comportano la pena dell’ergastolo o con circostanze che accedano ad un reato che prevede, nella forma base, la pena dell’ergastolo. Tale blindatura viene definita “indiretta” dalla Corte: il fatto di blindare la minore età, non comporta l’illegittimità costituzionale dell’art. 63 (giudizio di bilanciamento); la sent. 168/1994 dichiara invece illegittimi gli artt. 17 e 22, nella parte in cui non escludono l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile. Sono incapaci di intendere e di volere i soggetti che non hanno superato i 14 anni o che, anche se più avanti con l’età, non hanno capacità di intendere e di volere. A tali soggetti si possono applicare alcune misure di sicurezza. Esse si basano su due presupposti: la commissione di un reato e la pericolosità sociale (ossia la probabilità che il soggetto possa commettere nuovi fatti di reato). Le misure di sicurezza applicabili possono essere la libertà vigilata, il riformatorio (sostituito dalla sent. 448/1998 con il collocamento in comunità), … 2) Il vizio di mente: è disciplinato dagli artt. 88 e 89, c.p. Esso può essere di due tipi: • vizio totale di mente (art. 88: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”), che esclude totalmente l’imputabilità; a tale soggetto si potrà applicare una misura di sicurezza. • vizio parziale di mente (art. 89: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”). Il vizio, in tal caso, non esclude la capacità di intendere e di volere; essa è grandemente scemata. Se si accerta che, nonostante il vizio, residua comunque una certa capacità di intendere e di volere, si potrà applicare una pena diminuita (fino a ⅓)  circostanza attenuante personale di natura soggettiva, a effetto comune. Il codice non definisce precisamente il vizio di mente. Gli orientamenti principali a riguardo erano due, i quali sono stati recentemente superati da una sent. delle Sezioni Unite (2005). Secondo il primo orientamento (più risalente) per vizio di mente si intendeva soltanto la presenza di quelle infermità (non solo psichiche, ma anche fisiche) che avevano una base organica, cioè che venivano riconosciute come tali dalla scienza medica: la schizofrenia, le paranoie, … A questa interpretazione, molto rigida, se ne contrapponeva una seconda, quella delle Sezioni Unite (def. più estesa): per vizio di mente si intendeva la presenza di infermità anche non riconosciute dalla scienza medica, che presentavano una particolare gravità tale da incidere in concreto sulla capacità di intendere e di volere, escludendola in via totale o parziale. La giurisprudenza successiva alla sent. delle Sezioni Unite non ha riconosciuto valore di infermità al vizio del gioco, né agli stati emotivi e passionali. 10 aprile 2013 3) Il sordomutismo: è disciplinato dall’art. 96, che recita “Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità la capacità d’intendere o di volere. Se la capacità d’intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita”. Il soggetto solo sordo o solo muto non potrà beneficiare di tale previsione. La disciplina è simile a quella del vizio di mente (totale o parziale), sia con riferimento alla pena che alle misure di sicurezza. 4) L’ubriachezza e l’intossicazione derivante da sostanze stupefacenti: sono disciplinate agli artt. 91, 92, 94 e 95. Il codice penale distingue diverse tipologie di ubriachezza: • art. 91: ubriachezza derivante da caso fortuito o da forza maggiore. Esempio: l’operaio che lavora in una distilleria si ubriaca inalando i fumi dell’alcool mentre lavora. In tal caso si distinguere tra esclusione totale o parziale (pena diminuita). • art. 92: ubriachezza preordinata (comma 2) e ubriachezza dolosa o colposa (comma 1). L’ubriachezza preordinata si ha quando il soggetto si è ubriacato volontariamente per commettere un reato o per precostituirsi una scusa per la commissione del reato. In tal caso, l’imputabilità non è esclusa e, addirittura, la pena è aumentata. Si tratta dell’ipotesi dell’actio libera in causa, cioè di un’incapacità di intendere e di volere che è frutto di una scelta libera, volontaria e preordinata. Naturalmente, il reato rispetto al quale il soggetto viene ritenuto imputabile, nonostante l’alterazione mentale, deve essere quello preordinato, non un altro; in tal caso, tornerebbe ad applicarsi l’art. 85. Esempio: Tizio si fa ipnotizzare per uccidere la moglie, ma poi invece commette una violenza sessuale ai danni di un’altra donna. Non si tratta di actio in libera causa; per cui, si applica l’art. 85. Nemmeno l’ubriachezza dolosa o colposa diminuisce o esclude la punibilità. Il comma 1 è stato oggetto di diverse interpretazioni: a che titolo andrà a rispondere del reato commesso il soggetto che si trova in un concreto stato di ubriachezza (e quindi non è capace di intendere e di volere)? A titolo di dolo o di colpa? Secondo l’interpretazione più risalente, avallata dalla sent. 33/1970 della Corte Costituzionale, va considerato se il soggetto si è posto in una condizione di ubriachezza dolosamente o colposamente. Tale interpretazione, anche se approvata dalla Corte, è stata sottoposta a numerose critiche da parte della dottrina e della giurisprudenza successiva: essa confonderebbe lo stato mentale che ha portato il soggetto ad ubriacarsi con l’elemento soggettivo del reato. Esempio: Tizio si ubriaca colposamente perché esagera nel bere ad una festa e poi, tornando a casa in macchina, cagiona la morte di un soggetto. Egli risponderà, secondo tale teoria, di omicidio colposo. Tuttavia, nel codice della strada si parla anche di omicidio doloso, non solo colposo. Secondo un’altra interpretazione, l’art. 92.1 contiene una finzione di imputabilità: il soggetto non è imputabile in concreto perchè si trova in uno stato di ubriachezza; tuttavia, il legislatore decide di introdurre una fictio iuris, come se fosse imputabile. Il titolo di responsabilità soggettiva alla stregua del quale egli sarà punito (colposa, dolosa, preterintenzionale) non deve essere valutato con riferimento al momento nel quale il soggetto si è ubriacato, ma si dovrà far riferimento al momento della commissione del reato. Anche in questo caso, però, si confonde lo stato mentale che ha portato il soggetto ad ubriacarsi con l’elemento soggettivo del reato. Secondo un’altra interpretazione, l’atteggiamento del soggetto andrebbe considerato nel momento in cui il soggetto si è ubriacato, in relazione al singolo fatto di reato. • art. 94: ubriachezza abituale, ossia frequente abuso di alcool e frequente stato di ubriachezza. Il legislatore non esclude l’imputabilità del reo; anzi, viene previsto un aumento di pena e una misura di sicurezza. • art. 95: cronica intossicazione da sostanze alcoliche o stupefacenti. La disciplina è analoga a quella del vizio di mente. Sono intossicazioni croniche tutte quelle ubriachezze che hanno alla base un’alterazione patologica permanente, indipendente dall’eventuale ulteriore assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti, che può portare a una degenerazione dei processi volitivi o rappresentativi. Se la capacità è totalmente esclusa, il soggetto non è imputabile e può essere sottoposto a misure di sicurezza (se socialmente pericoloso). Se è parzialmente esclusa, la pena è diminuita (possibile previsione di misure di sicurezza). La disciplina del codice in materia di imputazione delle circostanze ha subito un’evoluzione. Gli articoli a riguardo sono l’art. 59, l’art. 1 e l’art. 3. La disciplina originaria del codice Rocco non distingueva il criterio di imputazione delle aggravanti dal criterio di imputazione delle attenuanti: entrambe si imputavano oggettivamente al soggetto, a prescindere dall’accertamento dell’elemento soggettivo, ossia l’effettiva conoscenza del soggetto  responsabilità oggettiva. Già nel codice del 1930 vennero previste delle deroghe (in particolare in relazione alle aggravanti): • nell’ipotesi dell’error in personam (errore della persona offesa)  art. 60: “Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti. Le disposizioni di questo articolo non si applicano, se si tratta di circostanze che riguardano l’età o altre condizioni o qualità, fisiche o psichiche, della persona offesa”. • in alcune ipotesi di circostanze aggravanti, in cui era necessario l’accertamento del profilo soggettivo (ad esempio, la circostanza aggravante comune disciplinata dall’art. 61, n. 1: “aver agito per motivi abbietti o futili”). Tale disciplina contrastava palesemente con l’art. 27, Cost. Con la legge 19/1990, il legislatore ha modificato il criterio di imputazione delle circostanze, diversificando il criterio di imputazione delle aggravanti rispetto a quello delle attenuanti. Al comma 1 dell’art. 59 viene mantenuta la valutazione oggettiva delle attenuanti: “Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”; il comma 2 viene invece modificato, prevedendo un’imputazione colpevole anche in relazione alle circostanze aggravanti: “Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”. Affinché si possano applicare delle aggravanti, il soggetto deve o conoscerle o ignorarle per colpa. Il comma 3 prevede la non rilevanza delle circostanza putative “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui”. Perché il legislatore interviene solo nel 1990 e non prima? Perché il legislatore si è adeguato alle sent. 364/1988 e 1085/1988 della Corte Costituzionale. Trovano sempre applicazione due eccezioni: la rilevanza dell’elemento soggettivo in relazione alla singola circostanza e l’art. 60. Il computo delle circostanze Bisogna distinguere due ipotesi (art. 63, art. 64, art. 69): a) presenza di una sola circostanza: l’art. 63 detta delle discipline differenti a seconda che la circostanza sia a effetto comune o a effetto speciale, oppure autonoma o indipendente. • circostanza a effetto comune: aumento o diminuzione fino a ⅓ rispetto alla pena base (pena base = pena da applicare senza alcuna circostanza). In caso di aggravante (a effetto comune) la pena è aumentata fino a ⅓ rispetto alla pena base e la pena della reclusione da applicare in seguito all’aumento non può superare gli anni 30. In caso di attenuante (a effetto comune) la pena è diminuita fino a ⅓ rispetto alla pena base e la pena dell’ergastolo è sostituita dalla reclusione da 20 a 24 anni. • circostanza a indipendente o a effetto speciale: l’aumento o la diminuzione di pena per le altre circostanze non opera sulla pena base del reato a sulla pena stabilita per le predette circostanze. b) presenza di più circostanze (concorso di circostanze). Il concorso può essere: • concorso omogeneo (vedi pag. 449 del manuale); • concorso eterogeneo: è l’ipotesi più problematica. L’art. 69 è stato oggetto di vari interventi del legislatore e della Corte Costituzionale. Si deve ricorrere al giudizio di bilanciamento. La ratio del giudizio di bilanciamento la si ricava sia dalla lettura della giurisprudenza, sia dalla lettura dei lavori preparatori del codice del 1930: in tale occasione, esso è stato definito come “un giudizio di valore (non di carattere aritmetico), complessivo e sintetico, sulla personalità del reo e sulla gravità del reato”. Attraverso il giudizio di bilanciamento, il giudice è in grado di adeguare meglio al pena al singolo soggetto e alla gravità del reato. L’art. 69, però, non indica i criteri che il giudice deve utilizzare per bilanciare le circostanze. Normalmente si richiama l’art. 133: in assenza di una disposizione espressa, il giudice, per valutare il peso delle circostanze, deve utilizzare i criteri relativi alla capacità a delinquere e alla gravità del reato indicati a tale articolo. Gli esiti del giudizio di bilanciamento possono essere tre: • decidere di dichiarare valente l’aggravante (l’attenuante soccombe); • decidere di dichiarare valente l’attenuante (l’aggravante soccombe); • decidere di annullare aggravante e attenuante, tramite un giudizio di valore (non matematico); si applica, in questo caso, la pena base  giudizio di equivalenza. Le circostanze che possono entrare nel giudizio di bilanciamento sono state modificate nel tempo da numerosi interventi della Corte Costituzionale: a. secondo l’interpretazione originaria (codice 1930), il giudizio di bilanciamento era blindato: non tutte le circostanze erano bilanciabili. Entravano nel giudizio di bilanciamento solo le circostanze a effetto comune. Erano escluse le circostanze a effetto speciale; le circostanze autonome e indipendenti; le circostanze attenenti al profilo soggettivo del reo (come ad esempio la recidiva o al minore età). Queste ultime erano escluse perché, se ammesse, si sarebbe corso il rischio di vanificare l’effetto della circostanza attenuante o aggravante in base ad una caratteristica soggettiva del reo. Le circostanze a effetto speciale e le circostanze autonome e indipendenti erano invece escluse perché, in relazione alla particolare gravità del reato, il legislatore aveva già previsto una pena di specie diversa rispetto a quella ordinaria o determinata in misura indipendente. b. Nel 1974 il legislatore, dopo diversi tentativi falliti, modifica tale disciplina (d.l. 99/1974), estendendo il giudizio di bilanciamento anche alle circostanze a effetto speciale, alle circostanze autonome e indipendenti e alle circostanze attenenti al profilo soggettivo del reo. Tale intervento era giustificato dall’intento del legislatore di porre un rimedio al rigorismo sanzionatorio che caratterizzava alcune fattispecie di frequente verificazione, in cui la pena appariva sproporzionata rispetto all’entità dei fatti e alla personalità del colpevole. c. A partire dalla fine degli anni ’70 (soprattutto dal dicembre del 1979), il legislatore ha previsto delle ipotesi di esclusione dal giudizio di bilanciamento. Infatti, con l’ampliamento dello stesso, nasceva il rischio di dare un eccessivo potere al giudice in sede di commisurazione delle pene, anche a causa dell’assenza di una norma che disciplinasse i criteri su cui doveva basarsi il giudizio di bilanciamento. Nascono così delle circostanze blindate (o privilegiate), escluse dal giudizio in relazione alla loro particolare gravità. La prima circostanza ad essere blindata è quella relativa alla finalità di terrorismo (legge 15/1980). Successivamente il legislatore ha ampliato sempre più il catalogo delle circostanze privilegiate, comprendendo anche le circostanze in materia di contrabbando; le circostanze rappresentate dall’uso del metodo mafioso; … Col tempo il legislatore ha inserito delle circostanze blindate altre nel codice penale (ad esempio, in materia di rapina); una circostanza blindata è stata prevista anche all’interno dell’art. 69.4, c.p. (la recidiva reiterata obbligatoria). Le circostanze blindate possono essere di due tipologie: a base totale o a base parziale. Nelle circostanze a base totale sono preclusi tutti gli esiti del giudizio di bilanciamento, tranne uno. Esempio: le circostanze aggravanti della rapina (art. 628.4) Hanno una formulazione pressoché uguale per tutte: le circostanze attenuanti che concorrono con le circostanze blindate non possono essere dichiarate prevalenti o equivalenti. Inoltre, le diminuzioni di pena delle attenuanti possono applicarsi successivamente. Prima il giudice dovrà procedere all’aumento di pena (dovuto alla presenza dell’aggravante blindata) e, sulla quantità di pena che risulta da tale aumento, potrà poi applicare l’attenuante. Nella versione originaria mancava la parte relativa all’eventuale successiva applicazione delle attenuanti. In assenza di questa locuzione era stata presentata una questione di legittimità costituzionale, per lesione del principio di uguaglianza. Nelle circostanze a base parziale è precluso un solo esito del giudizio di bilanciamento. Le circostanze blindate non sono sempre efficaci. Talvolta il risultato del giudizio è lo stesso del giudizio di bilanciamento (senza circostanze blindate): infatti, aumentare la pena (per una circostanza blindata) e poi diminuirla per un’attenuante porta comunque alla pena base, la quale si sarebbe raggiunta anche con un bilanciamento aggravante-attenuante (giudizio di equivalenza). Normalmente la blindatura delle circostanze è indicata dal legislatore. Soltanto in due casi è di matrice giurisprudenziale: nel caso della circostanza blindata della minore età (art. 98), quando l’attenuante concorre con aggravanti che comportano la pena dell’ergastolo o con circostanze che accedano ad un reato che prevede, nella forma base, la pena dell’ergastolo; nel caso della circostanza attenuante blindata della dissociazione mafiosa. Come si distinguono le circostanze dagli elementi costitutivi? In relazione alle circostanze a effetto comune tale problema non si pone: è già il codice che contiene l’elenco delle stesse. La distinzione è fondamentale perché diversa è la disciplina applicabile; le differenze sono molte: • possibilità o meno di procedere al giudizio di bilanciamento. Esso si può verificare solo nel caso della circostanza, non dell’elemento costitutivo. • l’imputazione. Per quanto riguarda il reato autonomo, si risponde per colpa solo nei casi determinati dalla legge; per quanto riguarda le circostanze, la disciplina appare diversa. • possibilità o meno di configurabilità del tentativo. Il linea di principio il tentativo (art. 56) è ammissibile per quasi tutti i reati autonomi; per quanto riguarda le circostanze, dipende dal tipo delle stesse. • computo della prescrizione (art. 158). I termini sono diversi in caso di reato autonomo o di reato circostanziale. • condizioni di procedibilità. Tali problemi si pongono soprattutto in relazione alle norme di parte speciale. Il codice non stabilisce un criterio di distinzione. Inoltre, non esistono ipotesi che siano ontologicamente circostanze o ontologicamente reati autonomi; spesso una stessa fattispecie può essere entrambe le cose Esempio: ex. art. 624-bis, il furto in abitazione è un reato autonomo. La rapina in abitazione è una circostanza aggravante blindata. Il criterio che deve utilizzare la giurisprudenza per differenziare le due ipotesi è, in prima battuta, il principio di specialità; tuttavia, esso è necessario ma non sufficiente. Il principio di specialità, infatti, opera solo in negativo: se non c’è un rapporto di specialità tra le due norme, ma tra esse sussiste un rapporto di alternatività, si è di fronte ad un’ipotesi di reato autonomo; se c’è un rapporto di specialità, si è in presenza di una circostanza. Esempio: ex. art. 582, si ha lesione quando un soggetto cagiona ad un altro soggetto una malattia nel corpo o nella mente. Ex. art. 583, si ha lesione grave quando la malattia o l’ incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni dura più di 40 giorni. Le due norme sono in rapporto di alternatività o di specialità? L’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni è simile alla malattia oppure è qualcosa di diverso? Dipende dall’interpretazione che si dà alle due ipotesi: se si considerano differenti (rapporto di alternatività), allora si è in presenza di due reati autonomi; se invece si considerano uno stesso elemento (più un quid pluris, nel senso che l’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni è sì una malattia, ma con un qualcosa in più), allora l’incapacità in questione sarà una circostanza aggravante. Gli altri criteri utilizzabili possono essere di diversa natura: strutturale o teleologica/ontologica. Normalmente non si dà grande valore alle rubriche del codice, perché inserite successivamente Perché questa duplicazione? Perché il legislatore fa riferimento ai delitti di evento e ai delitti di condotta. L’elemento positivo è invece costituito dagli atti idonei e diretti in modo non equivoco. La disciplina del codice Zanardelli è differente da quella del codice Rocco: il primo prevedeva che vi fosse tentativo solo se l’agente avesse realizzato atti esecutivi della condotta tipica; il secondo parla invece di atti idonei e diretti in modo non equivoco (sembra ampliare le potenzialità applicative del tentativo, eliminando la necessità di atti esecutivi). Direzione non equivoca Ogni atto può essere indirizzato al compimento di una o più condotte. Esempio: tirare fuori dalla giacca la pistola potrebbe portare alla realizzazione di condotte diverse. Esistono varie teorie a riguardo: • Secondo la teoria soggettiva, l'atto è inequivoco quando vi sia la prova dell'intenzione criminosa dell'agente, desunta dalla confessione del colpevole, da una verosimile chiamata di un complice, da esplicite intercettazioni telefoniche tra i complici della banda dei sequestratori. Questa soluzione si presta a molteplici critiche, in quanto, in primo luogo, confonde un elemento oggettivo della struttura del delitto tentato con la prova del dolo, che rileva invece a titolo soggettivo. Inoltre, dovendosi sempre, da parte del giudice, dare la prova della volontà colpevole di chi compie una fattispecie dolosa, come è il tentativo, il requisito della non equivocità degli atti finirebbe col perdere qualsiasi autonomia, restando lettera morta, mentre l'interprete si deve sforzare di dare ad ogni elemento della fattispecie incriminatrice un suo autonomo ruolo nella struttura del reato. Soprattutto, la teoria soggettiva finisce per anticipare indebitamente l'inizio dell'attività punibile, anche ad attività preparatorie molto distanti con l'inizio dell'esecuzione della reato. • La teoria oggettiva varia molto nel corso del tempo:  inizialmente si sostiene che gli atti possono ritenersi non equivoci solo se, di per sé e oggettivamente considerati, sono in grado di rivelare l'intenzione criminosa del colpevole. Anche questa soluzione non risolve definitivamente la questione, dal momento che resta da chiarire alla stregua di quale osservatore gli atti devono apparire positivamente univoci. Esempio: quattro soggetti se apprestano a compiere una rapina in un istituto di credito. E si escono di casa, raggiungono con la macchina la banca e perché sono l'altro in prossimità dell'ingresso. Entrano in banca e, soltanto quando si trovano all'interno, estraggono le armi. Per osservatore esterno e essi sono dei giovani ragazzi con un borsone che entrano in banca. Ma quelle forze dell'ordine, che da tempo intercettano le loro conversazioni, essi sono dei possibili rapinatori. Quindi, da quando sarà possibile intervenire per interrompere l'iter criminis?  successivamente, fino al 2008, si afferma che gli atti diretti debbano costituire l’inizio dell’azione tipica. Nel 2008 la Cassazione si discosta da questo orientamento e dà rilevanza penale ad atti preparatori con particolare gravità, che costituiscono un indizio dell’attività punibile. Anche l'art. 115 prevede la non punibilità degli atti preparatori; essa infatti impedisce di considerare punibile a titolo di tentativo ogni attività prodromica, non solo quando si manifesti nelle forme dell'accordo o dell'istigazione ma, a maggior ragione, quando si tratti di comportamenti monosoggettivi, che non raggiungono ancora la soglia dell'inizio dell'attività punibile. L' art. 115, pertanto, prevedrebbe la non punibilità dell'accordo e dell'istigazione quando non si raggiunga almeno la soglia del tentativo, intesa quale compimento di un atto esecutivo.  sono atti diretti quegli atti che, per la loro gravità, sono in grado di offendere un bene giuridico tutelato (principio di offensività). Atti idonei Un atto è idoneo quando è probabile che, nell'ordinario svolgimento dei fatti e nel loro concatenarsi, porti alla consumazione del delitto. L'idoneità finisce, pertanto, per coincidere con la pericolosità oggettiva degli atti stessi. In concreto, accingersi ad aprire una cassaforte utilizzando una fiamma ossidrica è atto idoneo al compimento del delitto di furto, mentre colpire su una spalla, con una leggerissima stampella di carbonio, una persona giovane e in buona salute, non potrà essere considerato tentato omicidio. In realtà il concetto di probabilità si presta a qualche ambiguità, dal momento che la percentuale statistica che da un certo atto derivi la realizzazione dell'evento può essere di difficile valutazione, ma soprattutto ci si domanda se anche percentuali basse possono portare a ritenere integrato il requisito dell'idoneità degli atti. La risposta dovrebbe essere negativa. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile del delitto di tentate lesioni personali dolose gravissime colui che, essendo sieropositivo, ha volontariamente ferito con una siringa sporca del suo sangue due persone, anche se la probabilità di contagio è particolarmente modesta (intorno all'1%). Pronunce in tal senso, anche se inducono valutazioni di dubbia compatibilità con il principio di offensività, si giustificano alla luce della grande rilevanza del bene in gioco (la salute o la vita stessa). Anche con riferimento al punto di osservazione nel quale porsi per valutare l'idoneità degli atti, vi è una sostanziale convergenza di vedute: il giudice dovrà operare una c.d. prognosi postuma, cioè collocarsi idealmente al momento nel quale la condotta viene tenuta, per domandarsi se, valutati ex ante, gli atti compiuti potevano portare alla consumazione del delitto. Qualsiasi valutazione ex post, infatti, porterebbe sempre a escludere l'idoneità dell'atto. Più complessa è l'individuazione della base del giudizio che deve essere operato dal giudice. A riguardo, si contendono due soluzioni: • secondo una prima impostazione, il giudice deve prendere in considerazione solo le circostanze della fatto conosciute o conoscibili dal reo o da un osservatore esterno. Questa concezione è detta a base parziale; • la valutazione a base totale, invece, tiene conto anche di quelle evenienze del fatto che, seppur previe, non erano conoscibili del reo o da un terzo estraneo e sono state scoperte solo in seguito. Può avvenire che la circostanza, previa ma sconosciuta dall'arrivo, attinga all'inesistenza assoluta dell'oggetto materiale della condotta. Esempio: Tizio spara a Caio, coricato sul letto, credendolo addormentato; tuttavia Caio è già morto. In tal caso l’agente non è punibile, poiché si è verificato un caso di reato impossibile per inesistenza dell'oggetto materiale della condotta; egli potrà essere sottoposto ad una misura di sicurezza, se ritenuto socialmente pericoloso. Al di fuori del caso dell'inesistenza assoluta, la soluzione impone di distinguere le situazioni nelle quali il bene tutelato non ha corso il minimo pericolo (Tizio spara con una pistola scarica), dal caso nel quale la circostanza scoperta in seguito renda solo accidentalmente non realizzabile l'evento (la pistola si inceppa e non spara, ma avrebbe potuto sparare). Elemento soggettivo del tentativo La colpa è compatibile con il tentativo? No, perché: • l'art. 56 non lo prevede; • a causa della struttura del tentativo: nel tentativo gli atti devono essere diretti in modo non equivoco; tale requisito non è compatibile con la colpa, perché manca l'intenzione/la volontà del soggetto. Molto più problematica è la questione della compatibilità del tentativo con tutte le forme diverse di intensità del dolo, in particolare con il dolo eventuale. Esempio: un datore di lavoro non mette in sicurezza una linea di produzione dell'acciaio a forte rischio di incendio, per evitare un'ingente spesa di denaro. Egli agisce nella piena consapevolezza che già più volte, in passato, sia nel suo stabilimento che in altri si sono sviluppati incendi, che solo per fortuna non hanno prodotto vittime. Se l'incendio si verifica, ma i lavoratori riportano solo delle lesioni, egli dovrà rispondere di diritto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e di lesioni personali o anche di tentato omicidio? Una prima tesi ritiene che vi sia una sostanziale identità, dal punto di vista soggettivo, tra delitto consumato il delitto tentato. Nessun riferimento testuale, infatti, introduce distinzioni a riguardo. Pertanto, il dolo del delitto tentato deve coincidere con quello del delitto consumato. A questa prima affermazione si ribatte che il delitto tentato ha una sua piena e totale autonomia rispetto alla corrispondente fattispecie consumata, rendendo del tutto verosimile che, anche dal punto di vista dell'imputazione soggettiva, possono valere regole diverse. Secondo una seconda teoria, il tentativo non è compatibile con tutti i tipi di dolo; infatti, nel dolo eventuale non si ha volontà. Ciò è stato affermato nel 1995 dalle Sezioni Unite, anche se non in maniera molto chiara. Come in ogni in ogni delitto doloso, anche per il tentativo si pongono problemi di accertamento e di prova, che divengono particolarmente rilevanti quando si tratti di distinguere se, a seguito di un'aggressione contro l'integrità fisica della vittima, si debba ritenere consumato il delitto di lesioni personali dolose, o se l’agente vada punito a titolo di tentato omicidio. Spesso la condotta dell'agente può infatti prestarsi ad entrambe le letture e solo l'accertamento della reale intenzione del reo consente di risolvere la questione. La nostra giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri che permettono, attraverso il ricorso a fondate massime di esperienza, di ricostruire la reale intenzione dell’agente. In particolare, il giudice dovrà prendere in considerazione il tipo di arma utilizzato, il numero e la forza di colpi inferti, le zone del corpo della vittima attinte. Compatibilità del tentativo con i vari delitti Alcuni diritti pongono problemi di compatibilità con il tentativo: • delitti attentati: il tentativo non è compatibile con quei delitti in cui legislatore dà rilevanza penale anche al tentativo come se si fosse consumato. I delitti di attentato incriminano gli attentati (ad esempio, l'art. 281). Essi hanno posto problemi interpretativi, dal momento che non prevedono entrambi i requisiti del tentativo, ma parlano solo di atti diretti. Nel 1974 la Corte Costituzionale afferma che è necessario anche l'altro requisito, ossia l'idoneità. Nel 2006, con la legge che ha modificato l'art. 2, sono stati modificati anche alcuni tipi di reato di attentato, introducendo, in alcuni di essi, il requisito dell'idoneità. Perché solo in alcuni? Innanzitutto, per motivi di politica criminale; secondariamente, per una svista del legislatore. • contravvenzioni: ex, art. 56, sono escluse dal tentativo; • delitti unisussistenti: prevedono una sola condotta; • delitti preterintenzionali: nella preterintenzione si ha un sentimento doloso e un elemento colposo. La seconda parte non è compatibile col tentativo; per la prima, alcuni affermano che possa essere compatibile con il tentativo, ex art. 586 (morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto). Nell'art. 584 (omicidio preterintenzionale), si verifica un problema, perché esso riproduce nel suo testo un solo requisito del tentativo, anche se in astratto è compatibile. • reati omissivi:  impropri: sono compatibili con il tentativo. Esempio: il medico/l’infermiere, dovendo procedere ad un intervento terapeutico finalizzato a salvare la vita del paziente, se ne astiene dolosamente con l'intenzione di causarne la morte. Se l'evento viene evitato da un altro sanitario, ci sarà responsabilità a titolo di tentato omicidio per chi non si è attivato per impedire l'evento morte.  propri: si discute sulla loro compatibilità con il tentativo. Secondo un'interpretazione tradizionale, non si ha compatibilità, dal momento che il reato omissivo prevede sempre un termine, prima dello spirare del quale sarebbe sempre possibile che il soggetto tenesse la condotta omessa e, pertanto, non si potrebbe ancora parlare di tentativo. Dopo lo scadere del termine, invece, il delitto sarebbe consumato. Secondo altri autori, si potrebbe parlare di tentativo nel caso in cui un soggetto, pur non essendo ancora spirato il termine per adempiere, abbia tenuto una condotta idonea e diretta in modo non equivoco a porsi nell'impossibilità di adempiere. Questa seconda soluzione è proponibile solo quando la fattispecie incriminatrice omissiva propria descrive un termine temporale di durata. Nei casi nei quali il Nei reati abituali è necessario un dolo unitario? No. Tale ipotesi appare eccessiva, poiché non si darebbe rilevanza alle varianti. È sufficiente il dolo nelle singole condotte che, unificate, danno vita al reato abituale. Nei reati abituali è ammissibile il tentativo? Anche nei reati abituali è possibile individuare sia il momento perfezionativo (quando viene realizzata almeno una delle condotte), sia il momento consumativi. Ciò può portare alla compatibilità del tentativo con il reato abituale. Cosa accade in caso di successione di leggi penali nel tempo? Una nuova norma creatrice che prevede un reato abituale non è applicabile a condotte precedenti; si applica solo se dopo l’entrata in vigore di tale norma si realizzano almeno due condotte. In caso di norma modificatrice (non creatrice), essa si applica solo se dopo l’entrata in vigore di tale norma si realizza almeno l’ultima condotta. La prescrizione del reato abituale inizia a decorrere quando cessa la reiterazione. La querela per reato abituale si può presentare a partire dal compimento dell’ultimo atto. Anche per il reato abituale si può parlare di concorso di persone, morale o materiale, anche per quanto riguarda solo due condotte (forma minima). Il concorso è possibile anche nei reati omissivi. Esempio: la madre non agisce quando il padre maltratta i figli. Il sistema sanzionatorio La locuzione “Non è punibile” viene usata dal legislatore per: cause di giustificazione, cause di non punibilità, cause di esclusione e di estinzione, … Non tutte, però, escludono la punibilità, anche se l’effetto ultimo è comunque quello. Infatti: • le cause di giustificazione rendono lecito ciò che, normalmente, è illecito; • le cause di esclusione del dolo escludono la colpevolezza; • le cause di estinzione del reato escludono in astratto la punibilità, in maniera anticipata rispetto al reato; • le cause di estinzione della pena escludono in concreto la punibilità, in maniera successiva rispetto alla sentenza di condanna; • le cause di non punibilità in senso stretto sono situazioni antecedenti o concomitanti al fatto di reato dalle quali deriva la non applicazione della pena in virtù di un bilanciamento di interessi compiuto dal Legislatore. Tali circostanze escludono la mera punibilità e non intaccano minimamente il fatto che rimane reato (a differenza delle c.d. scriminanti o cause di giustificazione, come ad esempio la legittima difesa, che eliminano il reato ab origine). La disciplina dell’errore è diversa per ogni causa. Ad esempio, nelle cause dio giustificazione ha rilevanza anche la supposizione erronea, come anche nelle cause di esclusione del dolo. Anche l’estensione ai concorrenti è diversa: è possibile nelle cause di giustificazione, ma non nelle cause di non punibilità in senso stretto (le quali hanno efficacia strettamente personale). Differente è anche il momento in cui intervengono: le cause di giustificazione prima o contemporaneamente al fatto di reato; le cause di non punibilità intervengono anche se sopravvenute; le cause di estinzione intervengono successivamente al reato. Appaiono diversi, inoltre, gli effetti sulle obbligazioni civili (risarcibilità del danno): non nascono per quanto riguarda le cause di giustificazione (eccetto l’indennizzo in caso di stato di necessità); per quanto riguarda tutte le altre cause, si. Le cause di estinzione Esistono cause di estinzione della pena e cause di estinzione del reato. Estinzione del reato: • morte del reo; • amnistia; • querela; • prescrizione del reato; • oblazione; • sospensione condizionale; • perdono giudiziale. Estinzione della pena: • la morte del reo dopo la condanna definitiva; • prescrizione della pena; • indulto; • grazia; • liberazione condizionale; • riabilitazione. Le cause di estinzione possono essere: • generali / speciali; • condizionate / non condizionate; • legate ad eventi naturali (prescrizione) / legate a manifestazioni di volontà (oblazione). La sospensione condizionale della pena La sospensione condizionale della pena ha efficacia dopo la sentenza di condanna, al verificarsi di alcuni requisiti e all’adempimento di alcuni obblighi. La sospensione può essere: • ordinaria, disciplinata dall’art. 164 (limiti di ammissibilità), dall’art. 165 (obblighi imposti al condannato), dall’art. 166 (effetti della sospensione condizionale), dall’art. 167 (effetto ultimo della sospensione condizionale), dall’art. 168 (revoca della sospensione condizionale). Essa è concessa dal giudice di cognizione che pronuncia la sentenza di condanna; questo elemento distingue le cause di estinzione dalle misure alternative, che invece sono pronunciate dal giudice nella fase di esecuzione. I requisiti della sentenza devono essere: condanna alla reclusione o all’arresto per un tempo non superiore ad anni 2, ovvero condanna con pena pecuniaria che, una volta ragguagliata, non comporti la reclusione superiore ad anni 2. Per i minori di anni 18 la condanna non deve essere superiore ad anni 3. Per i soggetti di età compresa tra i 18 e i 21 anni o di età superiore ai 70 anni la condanna non deve essere superiore a 2 anni e 6 mesi. La condanna per delitto può essere sospesa per 5 anni; la condanna per contravvenzione può essere sospesa per 2 anni. La sospensione condizionale non può essere applicata a soggetti che sono stati dichiarati delinquenti abituali, occasionali o per tendenza. Che cosa può essere sospeso? Possono essere sospese le pene principali e le pene accessorie. Il problema fondamentale riguarda le misure di sicurezza, che assolvono ad una funzione di prevenzione speciale: possono essere sospese tutte le misure di sicurezza, tranne la confisca. Quante volte può essere concessa la sospensione? Di regola può essere concessa una sola volta. Può essere concessa una seconda volta se la seconda pena, sommata alla prima, non superi i limiti dell’art. 163 (anni 2). Altro requisito della sospensione è la prognosi non recidiva (art. 164.1): il giudice presume che un soggetto compirà ulteriori reati. In sede pratica la sospensione condizionale è caratterizzata da un ampio automatismo, sulla base dei requisiti formali, svilendo il requisito della prognosi. Art. 165.1: “La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata”. “Può” significa che il giudice ha la facoltà di subordinare la sospensione condizionale all’adempimento di alcuni obblighi. Spesso la sospensione condizionale viene definita una “scatola vuota” a causa dell’eccessivo automatismo. Inoltre, in luoghi diversi possono essere imposti obblighi diversi. • speciale: è stata introdotta nel 2004. È disciplinata dall’art. 163, ultimo comma. In questo caso, possono essere sospese pene non superiori a un anno e, congiuntamente, in caso di riparazione (risarcimento, restituzione, …) del danno spontanea ed efficace. Se nei 5 o nei anni successivi il reo non commette altri reati, il reato è dichiarato estinto e non si ha esecuzione della pena. 03 maggio 2013 La prescrizione Tra le cause di estinzione assume una rilevanza fondamentale la prescrizione del reato: il decorso del tempo può, a date condizioni, comportare l’estinzione del reato. Essa ha sollevato ampi problemi nel corso degli anni, sia in dottrina che in giurisprudenza. È stata oggetto, infatti, di numerose riforme: l’ultima è stata quella del 2005 (legge 251/2005, la c.d. ex Cirielli). Tale legge è stata oggetto di ampie critiche perché, in relazione ad alcuni reati, ha inspiegabilmente ridotto i termini di prescrizione. La prescrizione ha posto numerosi problemi, in modo particolare, in relazione alla sua ratio: perché il decorso del tempo dovrebbe far estinguere il reato? La ratio non è di certo prevista in un’ottica retribuzionistica. Ridurre i tempi di prescrizione comporta un alleggerimento dei casi giudiziari, con una conseguenza negativa sul punto di pressione. La disciplina attualmente in vigore non è vista in maniera favorevole, soprattutto dopo la riduzione dei termini di prescrizione, ad opera della legge ex Cirielli. L’ultimo governo Berlusconi aveva istituito una Commissione finalizzata alla riforma del meccanismo di calcolo necessario per prescrivere il reato; il progetto, essendo caduto il governo, non è mai stato approvato. Come si calcola la prescrizione? Fino al 2005 l’individuazione del tempo necessario a prescrivere si ricava direttamente dall’art. 157, il quale prevedeva diverse classi di reati e i rispettivi termini. Tale meccanismo è stato modificato nel 2005: l’art. 157.1 prevede che la prescrizione estingue il reato, decorso il tempo che corrisponde al massimo della pena prevista per la singola fattispecie penale. Per individuare il tempo di prescrizione bisogna verificare il massimo edittale previsto per la pena in questione. La prescrizione, in ogni caso, non deve essere inferiore a 6 anni, per quanto riguarda i delitti, e a 4 anni, per quanto riguarda le contravvenzioni (punite anche con la pena pecuniaria). Ma in tal caso, a che pena si deve guardare? Si deve guardare alla pena prevista per il delitto consumato o tentato, senza dar conto delle circostanze (aggravanti o attenuanti), ad eccezione delle aggravanti a effetto speciale (pena di specie diversa o aumento di pena > a ⅓). Prima della riforma del 2005 esse venivano computate, realizzando una sorta di pre-bilanciamento delle circostanze nel calcolo della prescrizione: infatti, mentre il bilanciamento si effettua nella fase di commisurazione della pena (dopo aver individuato la pena base), il pre-bilanciamento veniva realizzato in sede precedente. L’art. 157 prevede anche la non possibilità della prescrizione per alcune ipotesi di reato, per le quali è prevista la pena dell’ergastolo (o come pena base o come pena derivante dalla presenza di circostanze aggravanti). Per alcune ipotesi di reato è previsto il raddoppio dei termini di prescrizione; esse vengono indicate dall’art. 449. Tale norma, contenuta tra i delitti contro la pubblica incolumità, estende la responsabilità per colpa a tali delitti. Il raddoppio è previsto anche per particolari ipotesi di omicidio colposo (art. 589). L’ultimo comma dell’art. 157 fa riferimento a una norma del c.p.p., l’art. 51, comma 3-bis e 3- quater (catalogo aperto di reati per cui è previsto il raddoppio). La prescrizione può essere rinunciabile. L’art. 157 prevede dei termini diversi in relazione a ipotesi criminose diverse per cui è prevista una pena diversa dalla detenzione o dalla pena pecuniaria: il comma 5 prevede che, quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva o da quella pecuniaria, si applica il termine di 3 anni. Tuttavia, tale norma non trova applicazione: nel nostro c.p. non vi sono norme che non prevedano una pena diversa dalla detenzione o dalla pena pecuniaria. Si farebbe riferimento, allora, a sanzioni diverse (come la preminenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità), non previste nella parte speciale. Qualche anno fa, infatti, alcuni reati sono stati trasferiti alla non si occupa direttamente della questione, ma se ne occupa in maniera riflessa. Ciò è accaduto, ad esempio, nella sent. 68/2012, in cui è intervenuta in maniera indiretta perché non ha dichiarato incostituzionale la norma che prevede il sequestro a scopo che di estorsione, ma l'ha dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevede una circostanza attenuante che possa graduare la pena principale, (molto elevata); tale previsione appariva necessaria a giudizio della Corte, dal momento che esistono diversi tipi di sequestro a scopo di estorsione. Si verifica quindi un'evoluzione del sistema sanzionatorio, favorita dalla introduzione di nuovi tipi di sanzione o di misure che o sostituiscono le pene o sono alternative alle stesse (l. 689/1981). Le sanzioni alternative, introdotte nel 1975, sono applicate non dal giudice di cognizione, ma dal giudice di esecuzione. Il panorama delle sanzioni è stato ampliato nel 2000, con il dlgs. 274/2000, in base al quale il giudice di pace ha competenza penale per alcuni reati. Per quanto riguarda le pene principali, esse si differenziano tra delitti e contravvenzioni: per i delitti le pene principali sono reclusione, ergastolo e multa; per le contravvenzioni, arresto e ammenda. L’ergastolo La pena dell'ergastolo, prevista per alcuni reati contro la personalità dello Stato, contro l'incolumità pubblica e contro la vita, secondo quanto indicato dall'art. 22, è perpetua. L'ergastolo è previsto come pena base o come risultante dall'applicazione di una circostanza aggravante. Si assiste ad una progressiva erosione della durata perpetua della pena dell'ergastolo: infatti, ex. art. 176, comma 3, è prevista la possibilità per il condannato all'ergastolo di usufruire della liberazione condizionale, quando abbia scontato almeno 26 anni di pena; inoltre, ex. art. 54, Ord. penit., il termine per poter usufruire della liberazione condizionale può essere abbreviato di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata, come riconoscimento della partecipazione del condannato alle attività finalizzate alla sua rieducazione. Infine, è consentito ai condannati all'ergastolo di usufruire, dopo l'espiazione di almeno 10 anni, dei permessi premio e, dopo 20, della semilibertà. La pena dell'ergastolo è stata oggetto di dubbi di legittimità costituzionale, dal momento che non sembrava compatibile con la funzione rieducativa della pena. La Corte Costituzionale ha affermato la legittimità costituzionale dell'ergastolo, sostenendo che funzione della pena non è il solo riadattamento sociale del condannato e che la liberazione condizionale consente il reinserimento nella società civile del soggetto, escludendo il carattere della perpetuità dell'ergastolo. Con la sent. 168/1994, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità degli artt. 17 e 22 del codice penale, nella parte in cui non escludono l'applicabilità della pena dell'ergastolo ai minori imputabili; la minore età è, infatti, una circostanza blindata. La pena detentiva: reclusione e arresto Le pene detentive sono la reclusione (delitti) e l'arresto (contravvenzioni). Le due tipologie si differenziano in merito alla possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione e sul piano della ripartizione dei detenuti. Gli artt. 23 e 25 prevedono per entrambe le tipologie limiti minimi e massimi edittali generali: la reclusione si estende da 15 giorni a 24 anni e l'arresto da 5 giorni a 3 anni. Si tratta di limiti derogabili dal legislatore in relazione a particolari figure criminose: per esempio, il sequestro a scopo di estorsione e il sequestro a scopo di terrorismo o di eversione prevedono la pena della reclusione da 25 a 30 anni. Le pene accessorie Le pene accessorie hanno tendenzialmente carattere interdittivo, dal momento che consistono in una privazione di determinati diritti o facoltà o nella limitazione del loro esercizio. Sono previste pene accessorie specifiche per i delitti (l'interdizione dai pubblici uffici; l'interdizione da una professione o da un'arte; l'interdizione legale; l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;...) e per le contravvenzioni (sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte; sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;...). Caratteristica delle pene accessorie, oltre al loro tendenziale inevitabile collegamento con le pene principali, è quella di un maggiore automatismo. Questo si manifesta attraverso una ridotta discrezionalità del giudice, che non solo è tenuto ad infliggere la pena accessoria in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, ma è spesso vincolato nella determinazione della loro durata. Quando la legge stabilisce che la condanna importa una piena accessoria temporanea e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontrarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso, essa può anche passare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria. In tema di pene accessorie la discrezionalità del giudice è fortemente limitata. La commisurazione delle pene principali La discrezionalità del giudice appare in dimensioni più ampie nella commisurazione delle pene principali. Fanno eccezione l'ergastolo e le rare ipotesi di pena fissa. Negli altri casi il legislatore delinea una cornice edittale, fissando un minimo e un massimo, all'interno della quale è attribuito al giudice un potere di stabilire discrezionalmente la pena concretamente inflitta. I criteri indicati per l'esercizio del potere discrezionale da parte del giudice sono la gravità del reato e la capacità a delinquere del soggetto. La gravità del reato deve essere desunta dal giudice: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dall'intensità del dolo o dalla grado della colpa. La capacità a delinquere deve essere ricavata: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente alla reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Si tratta di un elenco pressoché onnicomprensivo. 10 maggio 2013 Le sanzioni sostitutive Il giudice di cognizione può sostituire la pena detentiva breve con sanzioni di tipo diverso. La ratio è la rieducazione del reo. Le sanzioni sostitutive non erano previste dal c.p. del 1930. La funzione rieducativa della pena trova infatti fondamento nella costituzione. A metà degli anni ’70 vengono introdotte le misure alternative. Nel 1981 il legislatore, con la legge 689/1981, ha introdotto le sanzioni sostitutive (art. 53 e segg.). Le sanzioni sostitutive di una pena detentiva breve sono: • semi-detenzione: è disciplinata dall’art. 53.1 e dalla legge 689/1981. Il giudice, se ritiene di dover applicare una pena detentiva la cui durata è di anni 2, ha la facoltà di sostituire tale pena con una semi-detenzione; • libertà controllata: il giudice, se ritiene di dover applicare una pena detentiva la cui durata è di un anno, ha la facoltà di sostituire tale pena con la libertà controllata; • pena pecuniaria: il giudice, se ritiene di dover applicare una pena detentiva la cui durata è di mesi 6, ha la facoltà di sostituire tale pena con una pena pecuniaria. Non è facile individuare la sfera di applicazione delle sanzioni sostitutive, poiché l’art. 53.1 non la individua con precisione: infatti, la locuzione “entro due anni” ricomprende anche pene di un anno o di sei mesi. La scelta spetterà al giudice, in base al suo potere discrezionale (art. 58, legge 689/1981, che richiama l’art. 133 c.p.). il giudice dovrà scegliere così la pena più idonea al rinserimento sociale del reo. Il comma 2 dell’art. 58, legge 689/1981 dice che il giudice dovrà anche effettuare un giudizio di prognosi di pericolosità; egli potrà poi sostituire la pena con un’altra pena, a condizione che si presuma che il soggetto adempirà gli obblighi. Alcuni soggetti non possono però usufruire delle sanzioni sostitutive (esclusioni soggettive): • il reo che, essendo già stato condannato in precedenza (con una o più sentenze) a più di 3 anni di reclusione, abbia commesso un altro reato nei 5 anni successivi (art. 59.1); • il reo che è stato condannato per più di due volte per reati della stessa indole; • il reo a cui è stata revocata la semilibertà; • il reo che ha compiuto un reato durante l’esecuzione di una misura di sicurezza. L’art. 60 della legge 689/1981 prevedeva (fino al 2003) un catalogo di reati per cui era precluso l’accesso delle sanzioni sostitutive (preclusioni oggettive): reati contro la pubblica amministrazione; corruzione; evasione; usura; … NB: il giudice non è obbligato ad applicare le sanzioni sostitutive; è una sua facoltà! È ammessa la sostituzione in caso di art. 81 (reato continuato e concorso di reato)? Ex art. 53 della legge 689/1981 si. In che modo si applica la sostituzione? Si distinguono due ipotesi: 1) se per ogni singolo reato di cui è composto il reato continuato/il concorso di reato è consentita la sostituzione della pena detentiva breve, allora si applica la sostituzione e i reati non vengono scomposti. Si guarda se la violazione più grave rispetta i limiti di 2 anni, un anno o 6 mesi; 2) se la sostituzione è prevista solo per alcuni reati, il giudice dovrà specificare la parte di pena per cui opererà la sostituzione. La semidetenzione È disciplinata dall’art. 55. È diversa dalla semilibertà: la semidetenzione prevede l’obbligo di trascorrere almeno dieci ore al giorno in carcere (si entra di notte e si sta fuori di giorno); la semilibertà è il contrario (si entra di giorno e si sta fuori di notte). Essa comporta inoltre: • il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi; • la sospensione della patente di guida; • il ritiro del passaporto nonché la sospensione della validità, ai fini dell'espatrio, di ogni altro documento equipollente;
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