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Appunti esame Botanica Caneva - Riassunto Botanica Mauseth, Sintesi del corso di Botanica Generale

Riassunto per l'esame di Botanica con la prof Giulia Caneva, basato su rielaborazione di appunti personali e studio del libro “Botanica” di Mauseth, anno 2003. Integrato con appunti delle lezioni, VEDI L'INDICE degli argomenti a fine pagina.Fra gli argomenti: eucellula vegetale, fusto, foglie, radici, cambio cribro-vascolare, xilema, floema, impollinazione, fotosintesi, procarioti, funghi, alghe, muschi, epatiche, antocerote, crittogame, angiosperme, gimnosperme.

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

In vendita dal 11/08/2014

blacksun
blacksun 🇮🇹

4.6

(11)

9 documenti

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Scarica Appunti esame Botanica Caneva - Riassunto Botanica Mauseth e più Sintesi del corso in PDF di Botanica Generale solo su Docsity! BOTANICA dal libro “Botanica” di Mauseth 2 5 particolare, per alcuni organismi l’O è indispensabile (aerobi obbligati), per altri quello che è di- sponibile è troppo concentrato (microaerobi), per altri ancora è tossico (anaerobi obbligati), e altri possono alternare momenti di aerobiosi e di anaerobiosi (aerobi facoltativi), come i Lieviti. CATENE TROFICHE I vegetali Eucarioti e alcuni Procarioti (che insieme sono detti produttori) accumulano le risorse energetiche della biosfera e le servono agli animali eterotrofi (consumatori). Altri organismi, quali Funghi e molti Batteri, utilizzano invece le sostanze di scarto del materiale organicato (feci o car- casse) e sono detti decompositori o saprofiti, perché demoliscono sostanze per gli altri impossibili da utilizzare, che rientrano così nel ciclo biologico (catena del detrito). I simbionti invece ricavano le sostanze nutritive di cui hanno bisogno dagli organismi con cui sono in contatto. La simbiosi può essere mutualistica (con guadagno di entrambe le parti o almeno senza svantaggio per una delle due) o parassitica (in cui uno dei due individui subisce un danno e l’altro ne trae vantaggio). I rapporti simbiontici si instaurano in genere tra un autotrofo e un eterotrofo ed i simbionti possono essere obbligati o facoltativi, a seconda di quanto hanno bisogno di questo rap- porto. Le simbiosi più conosciute sono parassitiche ed i parassiti si dividono in ectoparassiti, che vivono sopra l’ospite, ed endoparassiti che vivono dentro l’ospite, più in particolare tra le sue cellule (pa- rassita intercellulare) o dentro le sue cellule (parassita intracellulare). Se tutta la pianta è invasa dal parassita si parla di infezioni sistemiche. Mentre i parassiti basano la loro potenza sui geni per la virulenza, la pianta attaccata si basa su quelli per la resistenza. Parassita e pianta si riconoscono grazie a speciali segnali: quando la pianta è attaccata emette, ad esempio, delle fitoalessine, molecole specifiche che bloccano il parassita, mentre quest’ultimo blocca le attività della pianta tramite tossine (esotossine, le classiche, o endotossine, più potenti, emesse se l’ospite prende il sopravvento). Le simbiosi mutualistiche invece prevedono vantaggi per entrambi gli organismi, nonché per l’ambiente esterno: la simbiosi mutualistica tra radici e Funghi (micorrize) regola l’apporto di fo- sfato dell’oltre 80% delle piante; la simbiosi tra Batteri e radici regola invece la nutrizione azotata di tutta la biosfera attraverso i meccanismi di fissazione dell’N. 6 7 PARTE PRIMA LA STRUTTURA DELLA PIANTA 10 ORIGINE DEGLI EUCARIOTI: LA TEORIA ENDOSIMBIONTICA Agli inizi del 1900 venne proposta una teoria che potesse spiegare l’origine degli Eucarioti. In seguito fu abbandonata, ma venne ripresa negli anni ’60, prendendo il nome di teoria endosim- biontica. Secondo questa teoria, plastidi e mitocondri sono dei Procarioti viventi all’interno degli Eucarioti. Lo scetticismo che portò ad abbandonare la teoria la prima volta che venne proposta, fu definitivamente cancellato quando si poté osservare che entrambi gli organelli possedevano un pro- prio DNA circolare, una doppia parete, ribosomi 70S ed avevano una divisione tipica dei Procarioti, senza microtubuli. Si pensa che inizialmente una cellula procariote si sia evoluta sviluppando una doppia membrana attorno al nucleo e ribosomi 80S. Questa cellula viveva inglobando e digerendo i Procarioti che tro- vava, finché non le capitò di ingerirne, ma non digerirne, uno. L’endosimbiosi che si stabilì era van- taggiosa per entrambi: il Procariote ingerito otteneva gli zuccheri, ed in cambio cedeva ATP alla cellula più grande. Era nato il mitocondrio. L’origine dei plastidi deve essere stata simile. Visto che tutti i cloroplasti possiedono clorofilla a e nessuno ha la batterioclorofilla, si pensa che i Cianobatteri (che hanno la clorofilla a) possano esse- re dei loro possibili antenati, in particolare Prochloron, che somiglia molto ai cloroplasti e vive co- me simbionte obbligato all’interno di invertebrati marini. MEMBRANE Le membrane sono essenziali per regolare il metabolismo della cellula e dividere gli organelli uno dall’altro, e rappresentano la superficie di attacco degli enzimi. Senza le membrane la vita non esi- sterebbe ed è per questo che molti veleni agiscono disgregandole. COMPOSIZIONE DELLE MEMBRANE Tutte le membrane sono formate da proteine e due strati di fosfolipidi. Il rapporto fra proteine e lipidi nella membrana vede in genere la presenza di un 60% di proteine ed un 40% di lipidi. In acqua le membrane formano un monostrato, in cui i fosfolipidi (che hanno una testa idrofilica formata dal glicerolo e dal fosfato, ed una coda idrofobica formata dall’acido grasso) tengono la te- sta in acqua e la coda rivolta verso l’esterno, all’aria. Se l’acqua è agitata o se i lipidi sono troppi per formare un solo strato nel contenitore, si forma un doppio strato, una struttura a forma di cer- chio in cui le teste idrofiliche si trovano tutte e contatto con l’acqua, mentre le code idrofobiche si trovano ben isolate al centro del cerchio. Le membrane plasmatiche contengono per la maggior parte fosfolipidi. Essi possono diffondere al suo interno grazie ad un movimento chiamato diffusione laterale, che consiste nello scambio o spostamento di molecole di fosfolipidi in un solo foglietto del doppio strato ed è basato su libere ro- tazioni attorno ai legami C-C. Per questo si dice che i doppi strati lipidici sono fluidi bidimensiona- li. Il movimento di flip-flop o diffusione trasversale è invece un evento molto raro perché, affin- ché avvenga, la testa polare deve attraversare la zona non polare. In pratica un lipide passa da un la- to all’altro della membrana. La maggior parte delle proteine è ricca di zone idrofiliche, attraverso le quali la proteina entra in contatto con la testa dei fosfolipidi e l’acqua, e di zone idrofobiche, che gli consentono invece di in- serirsi nella membrana e associarsi con gli acidi grassi. È le presenza contemporanea di queste zone in una proteina che ne determina la posizione rispetto alla membrana: sulla superficie, parzialmente immersa in essa (proteina intrinseca) o esterna ad essa (proteina estrinseca o periferica), nel qual caso non compone la struttura della membrana. Sempre grazie alle sue caratteristiche, una pro- teina può formare dei canali idrofilici per il passaggio di piccole molecole attraverso la membrana. Alcune proteine intrinseche possono diffondere lateralmente come i fosfolipidi e trasportare dei 11 composti legati su una superficie, oppure possono associarsi ad altre proteine di membrana e forma- re dei domini extracellulari oppure citoplasmatici. I componenti della membrana, di conseguenza, non hanno completa libertà di movimento, altrimen- ti molte delle sue funzioni specifiche non potrebbero essere esercitate ed essa diverrebbe una strut- tura omogenea: poiché la membrana è un fluido eterogeneo, è definita un mosaico fluido. Certe membrane contengono degli zuccheri, in genere meno dell’8%, sotto forma di oligosaccaridi legati a proteine intrinseche (glicoproteine) o più raramente a lipidi (glicolipidi). Pare che questi zuccheri abbiano come funzione principale quella di rendere la membrana riconoscibile, funzione essenziale nel caso della difesa immunitaria, e per questo sono disposti solo sulla superficie esterna. Le piante comunque non hanno un sistema immunitario, quindi gli oligosaccaridi sono meno impor- tanti. PROPRIETÀ DELLE MEMBRANE La prima proprietà delle membrane è la capacità di accrescimento: i componenti della membrana sono sintetizzati in regioni specifiche e trasportate al giusto posto attraverso vescicole. Attraverso le vescicole viene trasportato anche del materiale cellulare, accumulato nel lume della vescicola. A seconda del tipo di movimento di queste, si parla di:  Esocitosi: consiste nella liberazione di sostanze verso l’esterno della cellula e rappresenta una comune modalità di escrezione di sostanze tossiche, scorie, proteine, polisaccaridi. Ad esempio, il movimento delle radici nel terreno è favorito dal trasporto di mucillagine all’esterno delle cellule, o la secrezione del nettare è sempre un meccanismo dovuto ad eso- citosi.  Endocitosi: consiste nell’acquisizione di materiale extracellulare, con formazione di una ve- scicola verso l’interno. È un processo comune nelle Alghe, che usano questo sistema per nu- trirsi, ma non è noto quanto sia frequente nelle piante superiori. Altra proprietà essenziale è la permeabilità: tutte le membrane biologiche sono selettivamente permeabili, nel senso che alcune sostanze le attraversano più facilmente di altre. Visto che la parte interna di un doppio strato è idrofobica, la membrana è più permeabile verso le sostanze idrofobi- che. Quelle idrofiliche sono costrette a passare attraverso canali formati da proteine specifiche della membrana, secondo una modalità detta diffusione facilitata o trasporto passivo, che segue sempre il gradiente di concentrazione. Per viaggiare contro un gradiente di concentrazione, alcune proteine formano delle pompe molecolari, che trasportano molecole con un meccanismo che richiede ener- gia (trasporto attivo). Le membrane sono essenziali per la compartimentalizzazione, cioè la formazione di compartimen- ti interni alla cellula: ogni organulo è rivestito da una membrana che ne determina la permeabilità specifica. L’INTERNO DELLA CELLULA VEGETALE Cellula animale Cellula vegetale - forma ovale - piccole dimensioni, per osservarle serve un microscopio - solo membrana cellulare - il nucleo è centrale - molto citoplasma - mancano i cloroplasti - forma allungata - grandi fino a qualche cm, addirittura 10 cm in certe Alghe - parete cellulare (morta) + membrana - il nucleo è schiacciato dal vacuolo - poco citoplasma - cloroplasti 12 IL PROTOPLASMA E IL CITOPLASMA Tutte le cellule, sia procariotiche che eucariotiche, sono fatte di una sostanza detta protoplasma. Eccetto la parete e la membrana plasmatica o plasmalemma, ogni parte della cellula è protoplasma, che quindi contiene gli organuli. Se si escludono il nucleo ed il vacuolo, invece, si ottiene il citopla- sma, formato da tutti gli altri organuli e dal citosol o ialoplasma, che comprende gli elementi del citoscheletro, l’acqua, gli enzimi, i prodotti intermedi delle reazioni e cose simili. IL NUCLEO Il nucleo è l’organulo più prominente nella cellula (a volte ne occupa il 50%) poiché è il depositario di quasi tutta l’informazione genetica e svolge un ruolo fondamentale nella divisione cellulare. Nel- le cellule giovani soprattutto il nucleo è molto grosso, mentre dopo la specializzazione aumenta la dimensione dei corpiccioli specifici. Questo particolare organulo permette il prelievo delle informazioni producendo copie di parti del DNA sotto forma di RNA, quando queste sono necessarie. Si è probabilmente originato per la prima volta dall’invaginazione in corrispondenza dei cromosomi del plasmalemma di un Procariote, che ha finito col creare all’interno del citosol batterico una ve- scicola che conteneva l’informazione genetica. Per questo il nucleo ha una doppia membrana. Il nucleo di una cellula eucariotica è sempre circondato da un involucro nucleare, formato da una membrana esterna ed una membrana interna separate da uno spazio intermembranale, che si fondono all’altezza dei pori nucleari. I pori nucleari sono strutture complesse che regolano il pas- saggio dei materiali. Mentre la sostanza interna alla cellula si chiama protoplasma, quella interna al nucleo si chiama nu- cleoplasma, ed è composto da DNA, enzimi che leggono, riparano e mantengono il DNA, proteine istoniche (associate al DNA per formare la cromatina), vari RNA, acqua e altre sostanze utili. La composizione del nucleoplasma comunque varia a seconda della fase della vita in cui si trova la cel- lula: durante la divisione sarà ricco di DNA in forma di cromosomi, istoni ed enzimi di replicazio- ne, mentre dopo il differenziamento saranno presenti soprattutto frammenti di RNA ed enzimi per la trascrizione. Come nei nuclei animali, anche in quelli delle cellule vegetali la cromatina è organizzata in forma di eterocromatina inerte ed eucromatina attiva ed uniforme. Si ordina in nucleosomi, costituiti da un cilindro di istoni (un tipo di proteine) circondato da circa due spire di DNA. In base all’organizzazione della cromatina, il nucleo può apparire di tipo cromocentrico o di tipo reticolato. Il primo presenta masse di cromatina addensata (cromocentri) verso la periferia, il se- condo invece presenta la cromatina organizzata in cordoni, i cromonemi. All’interno del nucleo si trovano uno o più nucleoli, in cui vengono sintetizzati e parzialmente as- semblati i ribosomi. IL VACUOLO Le cellule vegetali sono caratterizzate dalla presenza di un grosso vacuolo delimitato da una mem- brana detta tonoplasto, responsabile di molte particolari funzioni. Il volume del vacuolo può occu- pare anche il 90% dell’intera cellula e contiene il succo vacuolare, composto per la stragrande maggioranza da acqua. A causa delle sue grandi dimensioni, schiaccia tutti gli organuli contro la pa- rete e sempre per lo stesso motivo è di ostacolo alla divisione cellulare, per cui è tipico di cellule già divise, mentre le altre hanno vacuoli molto piccoli. Il tonoplasto è una membrana asimmetrica, ricca di proteine nella parte esterna (in genere sono gli- coproteine), pompe per gli elettroni, che creano una forza protonica per il trasporto di ioni e meta- boliti, e pompe ad idrogeno, che mantengono un pH acido all’interno. Il doppio strato lipidico del tonoplasto è anomalo a causa della scarsità di fosfolipidi, mentre predominano i glicolipidi. 15 bilità. Il fluido interno è detto stroma e il DNA è circolare. Esistono diversi tipi di plastidi: cloroplasti, cromoplasti e leucoplasti (divisi in amiloplasti ed ezioplasti). I diversi tipi di plastidi derivano o dalla differenziazione dei proplastidi, organuli dall’aspetto ame- boide, o da quella di altri plastidi già maturi (ad esempio nella buccia dell’arancia i cloroplasti si trasformano in cromoplasti; oppure nella buccia della patata gli amiloplasti esposti alla luce si diffe- renziano in cloroplasti inverdendo la patata). In presenza di luce dai proplastidi si sviluppano i cloroplasti, che rappresentano gli organuli depu- tati alla fotosintesi e sono più grandi dei mitocondri. In alcune Alghe rappresentano l’unico tipo di plastidio e sono chiamati cromatofori. Una cellula normale può contenere fino a 50 cloroplasti. Il nome “cloroplasto” deriva dalla presenza della clorofilla, di cui esistono vari tipi. La più comune è la clorofilla a, la prima comparsa (2,8 miliardi di anni fa) e la più importante, che dona il colore verde. I cloroplasti hanno una faccia piatta ed una curva, e sono disposti nella cellula nella parte che si tro- va disposta più verso la luce. Ognuno è avvolto da un involucro a due membrane che trasporta i metaboliti fuori e dentro il cloroplasto, sintetizza varie macromolecole, si occupa della biogenesi del cloroplasto stesso. Dalla membrana interna si staccano delle lamelle che si organizzano nel si- stema dei tilacoidi, la cui funzione è quella di aumentare la superficie fotosintetizzante. Le mem- brane tilacoidi si estendono nello stroma, l’equivalente della matrice nei mitocondri, dove si orga- nizzano in grana (sacchetti vescicolari impilati uno sull’altro): essi sono necessari per accumulare i protoni in un piccolo spazio (spazio intertilacoidale), creando il gradiente per la fotosintesi, e sono tutti collegati dalle lamelle stromali. Mentre il sistema fotosintetico di trasformazione della luce in energia si trova sulle membrane tila- coidi, gli enzimi responsabili dell’organicazione dell’anidride carbonica assorbita sono nello stro- ma: quindi la fase luminosa avviene nei tilacoidi e quella buia nello stroma. Quando l’attività fotosintetizzante è eccessiva e dunque la quantità di zuccheri sintetizzati è supe- riore alle necessità, questi vengono accumulati temporaneamente sotto forma di granuli d’amido nei cloroplasti stessi (amido primario). L’amido è un polisaccaride costituito da catene lineari di glucosio unite da legami  1 4 (ami- losio) o da più catene unite da legami  1 6 (amilopectina). Di solito, invece, l’accumulo di zucchero come riserva avviene all’interno degli amiloplasti, un al- tro tipo di plastidi, il cui contenuto è rappresentato per la maggior parte da amido secondario. A partire da un centro detto ilo, si sviluppa il granulo di amido. I granuli sono semplici o composti, e si depositano soprattutto nelle radici. Poiché non è fotosintetizzante, il sistema di membrane interne dell’amiloplasto è molto poco svi- luppato per fare posto ai granuli d’amido. Comunque, se esposto alla luce o se manca l’amido, l’amiloplasto può convertirsi in cloroplasto. Se la pianta, invece di essere esposta alla luce e differenziare i cloroplasti, viene tenuta al buio, svi- luppa ezioplasti, in cui le lamelle tipiche del cloroplasto sono state scomposte. Gli ezioplasti con- tengono un sistema particolarissimo di membrane in cui è presente una piccola quantità di proto- clorofillide, precursore della clorofilla. Al buio, la pianta sviluppa dei ponti fra i protilacoidi pre- senti e aumenta la protoclorofillide. Se di nuovo esposta alla luce, subito il sistema della pianta svi- luppa cloroplasti. Comunque non è solo la situazione al buio che porta al differenziamento in ezio- plasti: sembra che questo sia legato anche a degli errori nella regolazione interna della pianta. Ezioplasti e amiloplasti, entrambi non pigmentati, privi di clorofilla e di pigmenti lipidici, possono essere classificati come leucoplasti. I cromoplasti sono plastidi colorati, non fotosintetici, presenti nei fiori, nei frutti, nelle radici, e 16 possono contenere lipidi di colore giallo, arancione o rosso. Quindi hanno funzione vessillare e de- rivano da cloroplasti invecchiati che hanno sintetizzato cromolipidi: questo accade, ad esempio, quando la frutta matura e non è più verde, oppure in autunno, sia a causa del freddo che degrada la clorofilla, sia perché, prima che la foglia cada, la clorofilla dei cloroplasti è riassorbita e si formano i cromoplasti. Comunque non sempre il colore deve essere associato ai cromoplasti, perché può dipendere anche dai flavonoidi e dagli antociani presenti nel vacuolo. I cromoplasti sono privi di grana ed i pigmenti possono essere associati alla membrana o trovarsi sotto forma di cristalli o goccioline separate (plastoglobuli). L’organizzazione dei pigmenti dipende dalla pianta considerata e possono essere xantofille (giallo/arancione) o carotenoidi. Le xantofille sono ossigenate, mentre i carotenoidi non lo sono. In entrambi i casi sono sostanze insolubili in ac- qua. I cromoplasti, oltre ad avere funzione vessillare, fungono da schermo per i cloroplasti sottostanti nei confronti dei raggi UV. Nelle piante giovani che non hanno schermo, infatti, le gemme sono scure a causa del mascheramento operato dalle xantofille create apposta per la situazione. Il ferro è un componente molto importante per le piante ed è legato ad una grossa proteina, simile a quella umana, chiamata fitoferritina. Mentre la ferritina animale si accumula nel citoplasma e nel nucleo, quella vegetale è contenuta esclusivamente in alcuni plastidi, per la maggior parte cloropla- sti e leucoplasti (in particolare negli amilopasti dei semi). I RIBOSOMI I ribosomi sono le particelle responsabili della sintesi proteica. Sono formati da tre molecole di RNA ribosomiale e vari tipi di proteine che si associano a formare due subunità, una piccola ed una grande. I ribosomi trovati negli eucarioti sono denominati 80S, mentre quelli dei procarioti sono detti 70S. La S sta ad indicare un’unità di misura usata per calcolare il tempo di sedimentazione di una particella in una centrifuga. Raramente i ribosomi si trovano liberi nel citoplasma, ma in genere sono associati al reticolo endo- plasmatico, formando il reticolo endoplasmatico ruvido. La quantità di questi organuli è maggiore dove c’è più necessità di sintetizzare le proteine, come ad esempio i semi: i ribosomi sono infatti il mezzo attraverso cui avviene la traduzione dell’mRNA. IL RETICOLO ENDOPLASMATICO Molte molecole piccole si muovono attraverso il citoplasma per diffusione. Questo sistema non è adatto alle grandi molecole come le proteine, che devono invece essere trasportate attraverso vesci- cole specifiche. Queste vengono formate dal reticolo endoplasmatico (RE), un sistema di tubuli, derivante da invaginazioni della membrana interna, che attraversa tutto il citoplasma. Se al RE sono attaccati dei ribosomi si forma il RE ruvido o RER. Quando uno di questi ribosomi sintetizza una proteina, essa entra nel lume del RER: qui può essere accumulata, oppure può essere escreta (nettare, enzimi digestivi, mucillagine, …), nel qual caso il RE si rigonfia e forma delle ve- scicole che seguono il processo di esocitosi. Se le proteine sintetizzate devono essere modificate, il RE crea delle vescicole dirette ai dittiosomi, che provvedono ai cambiamenti necessari. Il RE privo di ribosomi è detto invece reticolo endoplasmatico liscio o REL, ed è coinvolto nella sintesi di lipidi e nell’assemblaggio delle membrane, sempre attraverso la formazione di vescicole che si fondono con essa. Il REL è abbondante soprattutto nelle cellule ricche di acidi grassi (cutina e cere), oli (olio di Palma, di Cocco e di Girasole) e sostanze volatili, responsabili del profumo dei fiori. 17 I DITTIOSOMI I dittiosomi sono un complesso di cisterne discoidali che si dispongono una sull’altra. Un dittioso- ma è formato da una faccia cis (o faccia di formazione), molto reticolata per continuità con il reti- colo endoplasmatico, da cui riceve numerose vescicole, e una faccia trans (o faccia di maturazio- ne), da cui si distaccano le vescicole ricche di sostanze già elaborate. Queste vescicole sono dotate di appositi segnali di riconoscimento che gli permettono di raggiungere il compartimento giusto. Tutto questo passaggio di membrane da un sito all’altro ci fa pensare che in realtà gli organuli di una cellula siano molto più connessi fra di loro di quanto si pensi, e per questo si parla di sistema di endomembrane. Anche le cellule animali possiedono i dittiosomi, ma poiché esse secernono una grossa quantità di proteine, i dittiosomi si associano formando una struttura tipica detta apparato di Golgi. Nelle piante sono molto rare le volte in cui si forma questa struttura complessa. L’attività principe dei dittiosomi è la trasformazione del materiale portato dalle vescicole oppure delle vescicole stesse. Questa modificazione avviene attraverso un processo detto glicosilazione, per cui alcuni zuccheri vengono legati alle proteine di membrana con formazione di glicoproteine, che compongono la membrana plasmatica, la parete cellulare e i prodotti di riserva dei semi. I dittiosomi inoltre sintetizzano le sostanze peptiche e le emicellulose per la parete. I MICROCORPI Nelle cellule vegetali sono presenti numerosi, piccoli corpiccioli, chiamati microcorpi, la cui fun- zione è molto varia. Ne esistono di due tipi: perossisomi e gliossisomi. Entrambi contengono enzimi tipo catalasi e ossidasi, necessari per rendere inattive le sostanze tossi- che. Ad esempio, una reazione fondamentale per la cellula, operata dalla catalasi dei perossisomi, consiste nella conversione di due molecole di perossido di idrogeno o acqua ossigenata (H2O2, ge- nerata dalla fotosintesi) in due molecole di acqua più una di ossigeno, per prevenirne l’accumulo. Visto che il perossido è un prodotto della fotosintesi, i perossisomi sono in genere associati ai clo- roplasti. I gliossisomi partecipano alla conversione dei lipidi in zuccheri e dunque sono essenziali nella ger- minazione dei semi oleosi (Arachidi, semi di Girasole e di Cocco). IL CITOSCHELETRO I microtubuli sono gli elementi del citoscheletro più abbondanti. Donano la forma specifica alle cellule, che se ne fossero prive avrebbero semplicemente forma sferica, oppure guidano le vescicole permettendo o vietando l’accesso a certe zone, o ancora staccano la membrana plasmatica dalla pa- rete, permettendo l’accumulo di sostanze nello spazio intermedio. I microtubuli consentono il mo- vimento degli organelli e del nucleo durante la divisione cellulare, e formano il fuso mitotico. Sono composti da due tipi di proteine globulari, l’ tubulina e la  tubulina, che si associano in un dimero chiamato semplicemente tubulina. I vari dimeri formano una spirale, in cui l’ tubulina si trova sempre più in alto rispetto alla  tubulina (il dimero è in posizione verticale), e alla fine questa spirale si cristallizza in un microtubulo. Il processo di formazione del microtubulo è reversibile: quando non serve più viene depolarizzato in monomeri che si disperdono nel citosol, sempre a parti- re da un’estremità. In tutti gli animali e in alcuni Funghi ed Alghe le cellule possiedono una coppia di organuli, detti centrioli, formati da nove triplette di microtubuli. Non è ben chiaro il ruolo che svolgano, sebbene inizialmente si pensasse che guidassero la formazione del fuso: in realtà i regolatori di questa ope- razione nelle piante sono degli organizzatori dei microtubuli chiamati COMT. I microtubuli si associano in modo molto elaborato nelle ciglia, corte e numerose, e nei flagelli, lunghi e in genere isolati. I flagelli sono presenti in molti tipi di Alghe (specialmente le unicellulari) 20 La parete secondaria è più spessa della primaria ed è intrisa di lignina, una sostanza in grado di re- sistere all’attacco di Funghi, sostanze chimiche e batteri: è formata da acido coniferilico ed è più indigeribile della cellulosa. L’acquisizione della lignina da parte delle cellule provoca l’incrostazione della parete primaria, di cui vengono alterate le proprietà. Si forma un complesso idrofobico e rigido che costituisce la base strutturale per la costruzione dei tessuti vascolari e di sostegno. Quindi la capacità di sintetizzare li- gnina è stata una forte spinta evolutiva. La sintesi della lignina inizia quando vasi, fibre e sclereidi (vedi oltre) hanno finito il differenzia- mento: a partire dalla lamella mediana, la lignina quindi passa alla parete primaria e infine alla se- condaria. La presenza di lignina elimina l’acqua dagli spazi interfibrillari e crea un legame fortissimo fra que- sta e le microfibrille di cellulosa, per cui la parete diventa resistente alla tensione e alla compressio- ne. Altri componenti tipici della parete secondaria possono essere la cutina e la suberina. La cutina è un polimero composto da lunghe catene di acidi grassi saturi e insaturi da 16 e 18 atomi ci carbonio. É associata a sostanze cerose e dunque è altamente impermeabile ed usata per ricoprire le superfici. I componenti della cutina si assemblino nella porzione più esterna della parete seconda- ria, in modo che dalla parete secondaria fino alla matrice sia tutto impregnato di cutina (cutinizza- zione). Quindi si forma uno strato esterno di cutina detto cuticola, che ricopre tutta la superficie esterna aerea della pianta, limitando l’eccessiva traspirazione e la diffusione dei gas, e permetten- dogli di resistere alle drastiche variazioni ambientali. La suberina è un polimero le cui unità monomeriche sono acidi grassi con C14 o C30 legati covalen- temente a composti fenolici. Viene sintetizzata nelle cellule del sughero, che hanno uno strato ester- no di suberina. Lo strato di suberina è morto, e può essere molto o poco spesso e sovrastato da uno strato di cellulosa. Queste cellule suberinizzate limitano la traspirazione, sono una barriera per l’attacco dei patogeni e fungono da isolante termico. La suberina è presente anche nelle cellule della radice che costituiscono l’endoderma e l’esoderma. Si assembla alla lignina formando la scorza, che noi chiamiamo impropriamente corteccia. ASSOCIAZIONI DI CELLULE Negli organismi pluricellulari, è ovvio che le cellule interagiscano fra loro: dividono gli stessi pro- dotti fotosintetici, della respirazione, l’acqua, l’ossigeno, i sali, … Le interazioni non sono importanti solo per scambiarsi materiale, ma anche per far rendere conto ad ogni cellula di quale parte dell’organismo è parte, in modo che possa differenziarsi nel modo giusto. Un primo mezzo di comunicazione, simile a quello che usano gli organismi unicellulari, è il rilascio di sostanze che informano le cellule adiacenti. Il contatto fisico è un secondo sistema. Nelle cellule vegetali, però, il contatto non avviene molto direttamente a causa della presenza delle due pareti primarie e della lamella mediana. Per questo, sono state ideate delle particolari strutture della parete dette plasmodesmi. I plasmodesmi perforano le pareti primarie e mantengono un rapporto di continuità tra i protoplasti di cellule adiacenti. Al loro interno passa ad una struttura stabilizzante detta desmotubulo, secreta da reticolo endopla- smatico. Nelle zone in cui i plasmodesmi sono molto abbondanti e associati in gruppi (il che accade in gene- re nelle cellule incrostate di lignina, che non possono assorbire i nutrienti dalla membrana), la pare- te secondaria è assente e quella primaria è molto rarefatta, e si forma il campo di punteggiatura primaria, molto frequente anche nelle cellule ghiandolari. Il plasmodesma fa in modo che diminuisca l’individualità delle cellule a causa della connessione tra protoplasti: tutto il protoplasma di una pianta entra a far parte di un unico sistema detto simplasto. Molte cellule non sono in diretto contatto fra loro, ma possiedono degli spazi intercellulari in co- mune. Quando questi sono molto vasti, il simplasto rappresenta davvero una piccola frazione del si- 21 stema. Allora, gli spazi intercellulari e la parete costituiscono l’apoplasto, attraverso cui passa il flusso apoplastico. Il flusso diminuisce notevolmente in presenza di polimeri quali la suberina, la lignina e la cutina. L’apoplasto funziona quindi come una serie di canali e spazi che permettono la diffusione dell’acqua e dei gas. Apoplasto e simplasto insieme costituiscono tutta la pianta. 22 25 L’anafase inizia quando i due cromatidi fratelli si separano all’altezza del centromero (disgiunzio- ne), originando due cromosomi figli (dunque i cromatidi fratelli prima sono chiamati così, e poi cromosomi figli). La separazione avviene per trazione da parte dei microtubuli del cinetocoro, che si depolarizzano a partire dai poli e trascinano i cromosomi figli da una parte o dall’altra della cellu- la. Nella tarda anafase comincia la citodieresi. Durante la telofase termina la migrazione dei cromosomi figli, che si distendono e cominciano ad assumere la forma caratteristica dell’interfase. I due gruppi di cromosomi vengono circondati da una membrana nucleare, scompaiono i microtu- buli del fuso e si riformano i nucleoli. CITOCHINESI La citochinesi è un processo molto meno complesso ed esatto della mitosi: non è necessario infatti che ogni cellula figlia riceva esattamente la metà degli organelli della madre, perché questi possono rigenerarsi fino a raggiungere le dimensioni e il numero ottimale. Secondo il calcolo delle probabili- tà, infatti, è praticamente certo che con una divisione casuale del protoplasma ogni cellula figlia ab- bia almeno uno degli organuli di cui ha bisogno. Per i geni ovviamente non è la stessa cosa, perché se uno di essi viene perso nessun altro può rimpiazzare l’informazione che portava. Nelle piante, ma non negli animali, la citochinesi comporta la formazione del fragmoplasto, costi- tuito da corti microtubuli allineati parallelamente ai microtubuli del fuso. Il fragmoplasto si forma esattamente dove si trovava la piastra metafasica e si estende in direzione centrifuga, verso la peri- feria. I microtubuli intrappolano delle vescicole, che si fondono in un’unica grande vescicola, da cui si formano la lamella mediana e due pareti primarie. La nuove vescicole vengono intrappolate dai microtubuli appena formati: quelli vecchi semplice- mente si depolarizzano. Si compone così la piastra cellulare, che continua ad espandersi finché non incontra la membrana cellulare della cellula madre e si fondendo con essa. Contemporaneamente, anche le pareti primarie appena formate incontrano quella della madre, si fondono con essa e termina la divisione. MEIOSI La meiosi è il tipo di divisione utilizzata durante la riproduzione sessuale. Durante questo processo, due cellule sessuali, i gameti, si fondono a formare un’unica cellula detta zigote, diploide in quanto contiene due set completi di cromosomi. I gameti invece sono aploidi, in quanto contengono un so- lo set di cromosomi per nucleo. In pratica, l’unione dei gameti porta alla formazione di uno zigote che contiene uno dei due set di geni materni ed uno dei due set di geni paterni. A partire dallo zigote si originano per mitosi le cellule dell’organismo, che quindi saranno tutte di- ploidi. Se l’individuo producesse i gameti per mitosi, lo zigote sarebbe tetraploide. Mentre la mitosi veniva detta divisione duplicativa, la meiosi è detta divisione riduzionale. Quindi, poiché ogni set cromosomico si è replicato durante la fase S, la meiosi deve andare incontro a due divisioni, cioè la cellula esegue due cicli cellulari senza che avvenga la fase S nel secondo ci- clo: meiosi I e meiosi II. La meiosi I inizia ovviamente con la profase I, simile in tutti i meccanismi generali alla profase della mitosi, ma molto diversa nel trattamento dei cromosomi. Per questo la profase I si divide in cinque stadi:  Leptotene: i cromosomi si condensano ma ancora non sono distinguibili al microscopio. Un evento chiave in questo stadio è l’appaiamento dei cromosomi omologhi che, avendo pas- 26 sato la fase S, sono formati ognuno da due cromatidi. Quindi sono presenti 4 set cromoso- mici: due dal padre (presenti sullo stesso cromosoma come due cromatidi) e due dalla madre (idem). Il legame ancora non è strettissimo. Zigotene: l’appaiamento lasso dei cromosomi omologhi è sostituito da un legame strettissi- mo, la sinapsi, a forma di chiusura lampo lungo tutta la lunghezza di cromatidi (complesso sinaptonemale). Visto che ogni insieme è formato da quattro cromatidi, prende il nome di tetrade bivalente. A questo punto si verifica il crossing over, lo scambio reciproco tra cromosomi omologhi di segmenti cromosomici localizzati nella stessa posizione lungo il cromosoma. Quindi, se fra i due cromosomi ci sono differenze (e ci saranno perché hanno diversa origine), si crea una nuova combinazione genica (ricombinazione genetica). Per questo si parla di cromosoma ricombinante.  Pachitene: in questo stadio termina la formazione del complesso sinaptonemale e i cromo- somi, che avevano raggiunto nello stadio precedente il massimo della condensazione, rico- minciano a distendersi.  Diplotene: i cromosomi omologhi cominciano ad allontanarsi, ma non si staccano perché sono tenuti assieme dai centromeri e da zone di attorcigliamento dette chiasmi, formate in corrispondenza degli scambi durante il crossing over. Gli oociti spesso si fermano a questo stadio della meiosi. Ogni mese, quando avvengono le mestruazioni, un solo oocita termina la meiosi I e avviene l’ovulazione. Se l’oocita viene fe- condato, allora termina anche la meiosi II.  Diacinesi: la separazione dei cromosomi omologhi si fa più netta e i chiasmi si spingono al- le estremità dei cromosomi in un processo di terminalizzazione: in pratica le braccia dei cromosomi scivolano una sull’altra e l’unione attraverso i chiasmi rallenta la divisione. Scompaiono i nucleoli e inizia a dissolversi la membrana nucleare. Le fasi successive della meiosi I sono estremamente simili a quelle della mitosi. In metafase I bisogna notare che la piastra metafasica non si forma con i cromosomi omologhi, ma con i bivalenti, così come nell’anafase I si separano le coppie di bivalenti, ma alle due estremità troviamo comunque tutte coppie di omologhi (e non i cromatidi fratelli). Come nella mitosi, durante la telofase I termina la migrazione delle diadi (i due cromosomi appaia- ti) e si formano due cellule aploidi perché ognuna porta un set cromosomico (l’omologo si trova nell’altro nucleo). La telofase I non è sempre uguale. A volte i cromosomi non si distendono e non si formano i nuclei. La cellula può saltare la telofase come noi la conosciamo e a volte anche la profase II, sebbene la maggior parte inizi almeno un abbozzo di telofase I. Ovviamente in ogni caso la fase S dell’interfase è soppressa. Questo intervallo di passaggio è detto intercinesi, durante la quale può avvenire o meno la citodieresi. Tutte le fasi della meiosi II sono identiche alla mitosi. Se avviene la telofase I, la fase iniziale della meiosi II deve essere necessariamente la profase II, che prepara di nuovo il nucleo alla divisione, ma non è suddivisa in stadi come la profase I. Alla fine si formeranno quattro gameti aploidi, in cui ogni nucleo contiene un solo set di cromo- somi, ossia solo cromatidi singoli. TIPI PARTICOLARI DI DIVISIONE Alcune cellule non seguono la normale sequenza cariocinesi + citochinesi. Il tessuto nutritivo (en- dosperma) di molti semi ad esempio esegue numerose cariocinesi ma non le citochinesi, ottenendo così cellule multinucleate. La stessa cosa accade in molte Alghe, che hanno poche cellule che con- tengono moltissimi nuclei. Queste particolari cellule sono dette cenocite. 27 Spesso in seguito alla formazione di una cenocita avvengono numerosissime citodieresi senza ca- riocinesi. A volte la citochinesi può non avvenire necessariamente alla fine della meiosi I e poi della meiosi II, ma magari avviene solo dopo la meiosi II, sempre con formazione di quattro gameti. Oppure la citochinesi non avviene mai (anche negli animali) e si formano in una stessa cellula quattro nuclei aploidi, di cui tre degenerano ed uno solo resta attivo, con il bilancio di una cellula aploide da una diploide. DIVISIONE CELLULARE DEI PROCARIOTI E DEGLI ORGANELLI La mitosi e la meiosi non avvengono nei procarioti (Batteri, Cianobatteri ed Archibatteri). Il materiale genetico si presenta come un singolo anello di DNA privo di istoni, attaccato al plasma- lemma. Quando si replica, entrambi gli anelli sono attaccati alla membrana. Contemporaneamente, la cellula cresce e i due anelli si allontanano sempre di più. Il lungo plasma- lemma si strozza finché le due cellule figlie si dividono. I cloroplasti e i mitocondri si dividono allo stesso modo. Ovviamente, avendo un proprio DNA, è necessario che durante la divisione della cellula eucariotica almeno un plastidio e un mitocondrio si trovino nella cellula figlia. A volte non sono presenti plastidi, per cui la cellula assume gli zuccheri da quella adiacente. La sua generazione sarà comunque priva di plastidi, fatto che nella foglia si tra- duce nella presenza di una macchia bianca. Per i mitocondri questo discorso non vale, perché una cellula non è in grado di importare ATP da quella adiacente, quindi degenera e muore. 30 Le cellule del tessuto meristematico sono specializzate nel dividersi secondo un modello spaziale e temporale ordinato e sono caratterizzate dalla presenza di pareti cellulari molto sottili. Si distinguono due tipi di meristemi:  Meristemi primari (vetrino): presenti nell’embrione e attivi per tutta la vita della pianta, in cui producono i tessuti primari. Le cellule di questo tessuto sono piccole, caratterizzate dal- la presenza di un nucleo molto grosso in confronto al vacuolo, ed in genere sono disposte in modo ordinatissimo, una accanto all’altra senza spazi intercellulari: da queste caratteristi- che è chiaro che determinino il modello di crescita della pianta e il suo accrescimento inde- finito. L’osservazione ad alto ingrandimento permette di vedere i cromosomi in diverse fasi del ci- clo cellulare.  Meristemi secondari o cambiali: non presenti nell’embrione, si possono differenziare o meno a seconda della pianta. Producono i tessuti secondari. Sono caratterizzati dalla pre- senza di cellule più grosse, allungate e appiattite, con un nucleo poco voluminoso. I meristemi primari possono a loro volta distinguersi in apicali, se sono localizzati all’apice del fu- sto o della radice, o intercalari, se sono localizzati fra i tessuti adulti, in genere ai nodi. I meristemi secondari, invece, sono detti anche laterali per la posizione che assumono nella pianta, e si distinguono in cambio cribro-vascolare e cambio subero-fellodermico (o fellogeno) a secon- da del tessuto da essi prodotto. Cellule meristematiche isolate costituiscono i meristemoidi, responsabili della crescita di strutture particolari della pianta come i peli e gli stomi. I meristemoidi sono meristemi secondari perché de- rivano da cellule differenziate che si sdifferenziano. In seguito a ferite si formano i meristemi avventizi, un tipo particolare di meristema secondario. TESSUTO PARENCHIMATICO Le cellule parenchimatiche compongono il tessuto più diffuso della pianta, di cui costituiscono tutte le parti molli. Sono caratterizzate dalla presenza di una parete primaria molto sottile, ampi va- cuoli, e piccolissimi spazi intercellulari (vetrino). In genere restano vive dopo il differenziamento. Hanno capacità rigenerative impressionanti: pezzi di parenchima in coltura possono riassumere la capacità di dividersi, oppure singole cellule possono sdifferenziarsi e ridare vita all’intera pianta. Il tessuto parenchimatico svolge un numero molto elevato di funzioni differenti:  Clorenchima: è formato da cellule specializzate per la fotosintesi, con parete sottile per as- sorbire meglio l’anidride carbonica, oppure da altre cellule pigmentate dei fiori e dei frut- ti, con pareti sottili che permettono ai pigmenti di essere visti.  Transfer cells: sono anch’esse cellule parenchimatiche, che hanno il compito di mediare il trasporto rapido di sostanze per brevi distanze, grazie ad un fitto sistema di pompe mole- colari. Hanno forma ramificata per toccare più punti possibile.  Parenchima di riserva: si trova in grande abbondanza negli organi di riserva come radici, semi e frutti. Le cellule che lo compongono sono prive di cloroplasti, ma ricche di amilopla- sti. Nelle Succulente questo tessuto è presente in forma di parenchima acquifero, perché la pianta non accumula amido ma acqua. Alcune cellule parenchimatiche svolgono la loro funzione morendo: ad esempio le antere e i frutti liberano il polline ed i semi a causa di una lacerazione del tessuto. Stessa cosa accade per la forma- zione degli spazi intercellulari (aerenchima - vetrino), particolarmente importanti nelle piante ac- quatiche perché favoriscono il galleggiamento. All’interno dell’aerenchima, per evitare il collasso, si trovano strutture rigide a forma di spina dette idioblasti. 31 Costruire le cellule parenchimatiche non è molto dispendioso: per questo le foglie, che sono in ge- nere molto numerose, sono costituite praticamente tutte di parenchima. Dopo poche settimane di fo- tosintesi hanno restituito alla pianta tutto l’ATP speso per la loro costruzione, ed il resto va tutto in guadagno. Le cellule ghiandolari, che secernono nettare, profumi, mucillagini, resine, tannini e oli essenziali, rappresentano un esempio di cellule parenchimatiche molto particolare, tanto da far sì che alcuni autori le considerino un differente tipo di tessuto (il secretore). TESSUTI MECCANICI I tessuti meccanici svolgono ovviamente una funzione di sostegno e si dividono in collenchima e sclerenchima. Le cellule collenchimatiche (vetrino), sempre vive, hanno una parete primaria di spessore diffe- rente a seconda del lato considerato, ma soprattutto negli angoli. La caratteristica maggiore di que- ste cellule è la loro forte plasticità, donatagli dalle pectine, cioè la capacità di cambiare forma se sottoposte a pressione o tensione e di mantenere tale forma anche quando queste spinte cessano. Visto che le pareti sono spesse, è necessaria una quantità di glucosio abbastanza elevata per pro- durre le cellule del collenchima, per cui la pianta lo utilizza solo nei punti in cui ne ha realmente bi- sogno. È presente quindi negli apici lunghi e flessibili dei germogli, come quelli delle rampicanti (per cui ne impedisce la rottura ma permette l’allungamento), e può differenziarsi subito sotto l’epidermide dei fusti o in prossimità dei fasci conduttori (es. nervature delle foglie). La funzione di sostegno esercitata dal collenchima è dovuta interamente alla pressione di turgore: nei fusti, la tendenza del parenchima ad espandersi è controbilanciata dalla resistenza del collenchima, per cui il fusto si mantiene dritto. Le cellule sclerenchimatiche hanno sia una parete primaria che una secondaria, quasi sempre ligni- ficata (grazie alla lignina). Mentre le cellule collenchimatiche erano caratterizzate da una forte pla- sticità, quelle sclerenchimatiche sono caratterizzate dall’elasticità, per cui la cellula si deforma sot- to pressione o tensione, ma quando queste sponte cessano torna alla forma originale. Lo sclerenchima si sviluppa nelle cellule già mature e rappresenta un sostegno ideale per le zone che ormai devono solo mantenere la propria forma. A differenza del collenchima, lo sclerenchima sostiene la pianta con la sua sola forza e non si piega in seguito ad appassimento. Le sue cellule non assorbono molta acqua, anche perché sono abbastanza robuste da impedire l’espansione del protoplasto e quindi hanno una capienza limitata. Esistono due tipi di cellule sclerenchimatiche, entrambe con pareti secondarie molto ispessite e li- gnificate:  Fibre, lunghe e flessibili. Il legno della maggior parte delle Angiosperme contiene molte fi- bre, la cui forza sostiene l’albero e la cui elasticità permette ai rami di curvarsi sotto il vento ma anche di tornare alla forma originale subito dopo. Fasci di fibre sclerenchimatiche for- mano le fibre tessili vegetali.  Sclereidi (vetrino), corte e più o meno isodiametriche. Costituiscono un tessuto duro e rigi- do, perché hanno pareti ricchissime di lignina e orientate in tutte e tre le direzioni dello spa- zio. Spesso costituiscono le strutture di rivestimento del seme, come le noci di cocco o i noccioli delle ciliegie. Sono presenti anche nel parenchima dei frutti (pera). Le cellule dello sclerenchima possono morire (accade molto spesso) dopo la deposizione della pa- rete secondaria, perché è metabolicamente più favorevole mantenerle. Se invece restano vive (il che accade più spesso per le fibre che per le sclereidi), contribuiscono all’accumulo di amido e cristalli di ossalato di calcio. 32 La cellula, schermata per la presenza di lignina nella parete secondaria, è impermeabile e può trarre i nutrienti solo attraverso i plasmodesmi e non anche attraverso la membrana come accade nel pa- renchima e nel collenchima. Di conseguenza, la parete secondaria non è deposta sui plasmodesmi, che quando diventano numerosi formano la punteggiatura. TESSUTI CONDUTTORI Nelle piante (ma non in quelle unicellulari o costituite da pochissime cellule) sono presenti due tipi di tessuto conduttore:  Il tessuto vascolare, parte dello xilema o legno, che conduce acqua e minerali dalle radici alle foglie.  Il tessuto cribroso, parte del floema o libro, che distribuisce gli zuccheri e i minerali dalle foglie alle radici. Al contrario di quanto accade negli animali, nelle piante non esiste un sistema circolatorio. Il succo xilematico (o linfa grezza) viaggia attraverso un sistema di cellule morte dalle radici al resto della pianta. Una volta raggiunti i germogli, l’acqua evapora dalla superficie delle foglie ed i minerali so- no assorbiti. Affinché la linfa grezza possa muoversi contro la forza di gravità, deve essere presente una forza abbastanza forte da contrastarla: si tratta della differenza di potenziale tra l’acqua delle parti aeree della pianta (a potenziale molto basso a causa della traspirazione) e quella presente nell’apparato assorbente. Le cellule del floema invece sono vive. Esse traggono lo zucchero dalle foglie, dai tuberi e dai ri- zomi e lo trasportano (in soluzione con l’acqua sotto forma di linfa elaborata) agli apici dei ger- mogli in crescita, alle radici, alle giovani foglie e ai fiori. Alla fine dell’estate, lo zucchero è traspor- tato più che altro ai frutti e agli organi di riserva delle piante perenni. Al contrario dello xilema, che per trasportare le sostanze utilizza un sistema passivo di differenze di potenziale, il trasporto nel tes- suto cribroso avviene attivamente con dispendio di energia. Lo xilema è caratterizzato dalla presenza di due tipi di cellule conduttrici: le tracheidi e le trachee, entrambe provviste di parete secondaria ispessita e lignificata come lo sclerenchima. Il termine “elemento tracheale” si riferisce ad entrambi i tipi. Quando una cellula si differenzia in un elemento tracheale, blocca la sua crescita e cessa di divider- si, diventando allungata e stretta, con una spessa parete secondaria. Dopo poco tempo tutto il proto- plasma degenera e muore, e resta una cellula composta solo da parete primaria e secondaria. Visto però che la parete secondaria è impermeabile, è importante che non rivesta completamente la cellula, per permettere il passaggio dell’acqua. Nelle forme più semplici la parete secondaria forma una serie di anelli (ispessimenti anulari), che risolvono il problema dell’acqua ma non sono molto resistenti: quando l’acqua entra in un elemento tracheale, aderisce alle molecole di cellulosa e risuc- chia le pareti del vaso verso l’interno mano a mano che sale verso l’alto. La parete primaria tende a collassare a causa dell’attrito dell’acqua (specialmente in ambienti secchi), ma se la parete seconda- ria è abbastanza resistente questo non accade. Né gli ispessimenti anulari né gli ispessimenti elicoi- dali offrono abbastanza resistenza. Nell’ispessimento scalariforme la parete secondaria forma una scala, con tanto di pioli e assi late- rali, mentre nell’ispessimento reticolato forma una fitta rete. Gli elementi più resistenti sono caratterizzati da punteggiature circolari areolate (anche nei tessuti conduttori le zone in cui la parete secondaria non è presente sono dette punteggiature), in cui la pa- rete secondaria è fittissima. Le punteggiature semplici delle fibre e delle sclereidi possono rappre- sentare dei punti di debolezza meccanica; quelle areolate invece sono provviste di quattro estrofles- sioni della parete secondaria (due da un lato e due dall’altro) che formano una calotta, un’areola at- torno alla punteggiatura. Inoltre, al centro dell’areola è presente un dischetto chiamato toro che funziona come un tappo che si sposta a destra o a sinistra a seconda di quale cellula lo stia risuc- chiando: in questo modo può bloccare il flusso della linfa grezza se si verifica un’embolia. 35 Ne esistono di diversi tipi: squamiformi, ramificati, stellati, ghiandolari (gli unici vivi), semplici. Per indicare i peli complessivi di una pianta si usa il termine indumento, proprio perché i peli pos- sono essere molti diversi fra loro. I tricomi proteggono la Pianta dall’eccessiva traspirazione e dai raggi del Sole (molti muoiono subi- to dopo la differenziazione e si riempiono d’aria, generando uno strato coibente e riflettendo la luce solare), oppure sono gradevolmente profumati e richiamano gli Insetti impollinatori; al contrario, possono essere urticanti. Per questo si dividono in urticanti, scutati, secretori e aggrappanti. I peli urticanti, come quelli dell’ortica, sono appuntiti e provvisti di una cellula urticante, che na- sce alla base del pelo e conduce il veleno fino all’apice. Il veleno contiene silice, scagliette di vetro, e quando il pelo viene sfiorato, l’apice si rompe conficcando nella carne dell’animale che l’ha toc- cato le scagliette di vetro. I peli scutati sono come quelli che sono presenti sulle foglie di ulivo, sopra verdi e sotto grigie. La diversa colorazione è dovuta proprio a questi peli a forma di ombrello piatto, che servono a trattene- re l’acqua al di sotto. Sono disposti nello stesso lato in cui si trovano gli stomi, quello opposto a do- ve batte il Sole, in modo che l’acqua persa possa essere riassorbita. I peli secretori secernono i sali in eccesso o sostanze deterrenti per gli erbivori o, nel caso delle piante carnivore, producono enzimi digestivi. Alcuni peli particolari sono quelli radicali, presenti su tutta la radice per assorbire l’acqua; i peli tattili, che provocano bruschi movimenti dell’organo stimolato e sono utili nell’impollinazione; i peli squamosi assorbenti, che formano dei tappi, che alzandosi ed abbassandosi chiudono il poro dell’epidermide. Altre particolari cellule dell’epidermide sono le cistoliti, che contengono cristalli di CaCO3, ed an- che le cellule bulliformi, disposte sulla foglia: sono ingrossate per il turgore, ma in caso di deficit fanno accartocciare la foglia. TESSUTO SECRETORE È formato da cellule secretrici, cioè tubi latificeri oppure tasche lisigene. I tubi latificeri sono ca- nali a fondo cieco che contengono lattice, che può formare coaguli sulle ferite (stella di Natale, Fi- co), oppure funge da deterrente verso gli animali per i suoi componenti alcaloidi. Le tasche lisigene, per espellere il loro secreto, devono essere rotte e possono contenere olii essenziali (esempio Alloro e Arancio). TESSUTO GHIANDOLARE Può essere interno o esterno. Quello interno può comprendere tasche schizzogene, canali mucipa- ri oppure canali resiniferi; quello esterno può comprendere i peli epidermici, le squame secretri- ci oppure i nettari. IL FUSTO ERBACEO ORGANIZZAZIONE ESTERNA Nel fusto si distinguono i nodi, le regioni in cui sono inserite le foglie, e gli internodi, le regioni comprese fra i nodi. La lunghezza degli internodi è estremamente variabile: da quelli lunghissimi alle piante rampicanti a piante come la lattuga o il cavolo, in cui gli internodi sono talmente stretti da far accavallare le foglie una sull’altra. Grazie ai lunghi internodi, i rampicanti espongono alla lu- ce le gemme ed hanno la possibilità di sondare il terreno. Gli internodi possono a questo scopo mo- dificarsi in viticci, foglie o rami modificati che servono per aggrapparsi meglio al substrato, oppure in stoloni, che vanno in cerca di un microhabitat adatto dove far nascere una nuova pianta completa. 36 Nelle zone all’ombra, invece, gli internodi sono lunghi per dare alla pianta la possibilità di allungar- si e trovare la luce. La zona subito al di sopra del punto di inserzione delle foglie si chiama ascella fogliare e al suo in- terno si trova la gemma ascellare, un piccolo germoglio con un meristema apicale quiescente e numerose giovani foglie. All’apice del fusto è sempre presente una gemma apicale. Molte gemme sono protette da foglie modificate in scaglie dette perule, suberificate e cerose, che si staccano in primavera quando la gemma si accresce e produce le foglie. D’inverno, invece, cadono le foglie ascellari, lasciando una cicatrice coperta da uno strato di sughero, per evitare infezioni. La gemma può essere vegetativa, se diventerà un ramo, oppure fiorale, se formerà uno o un gruppo di fiori. Una gemma può germogliare subito oppure restare quiescente. La sua attivazione dipende dall’ambiente circostante: negli ambienti ombrosi, molte gemme ascellari restano quiescenti per permettere alla gemma apicale di estendere il fusto, in modo che possa arrivare meglio alla luce. Viceversa avviene negli ambienti luminosi, in cui conviene avere molti rami ricchi di foglie. Le gemme possono essere anche definite “germogli non modificati”. In alcuni casi è importante che i germogli accumulino sostanze di riserva, il che li rende massicci e carnosi, ricchi di amido: in questo cosa sono definiti “germogli modificati”. L’accumulo può avve- nire nelle foglie o nei fusti:  I bulbi accumulano le riserve nelle foglie, spesse e carnose (cipolla, narciso, aglio), oppure nei fusti verticali e ingrossati, e allora hanno foglie sottili e cartacee (croco, gladiolo).  I rizomi sono fusti orizzontali carnosi, ad accrescimento indefinito, che permettono alla pianta di espandersi sottoterra (bambù, iris, canne, gigli).  I tuberi sono fusti orizzontali come i rizomi, ma hanno accrescimento definito e rappresen- tano più che altro un mezzo per accumulare i nutrienti, come per la patata, che presenta fo- glie microscopiche, ed in cui le gemme ascellari sono quelli che noi chiamiamo “occhi della patata”. Tutti questi germogli modificati si trovano sottoterra, in modo che sia più facile accumulare so- stanze utili. In una pianta comunque è impossibile che tutti i germogli siano modificati, perché al- trimenti non potrebbe effettuare la fotosintesi. Inoltre, necessitano di germogli modificati solo le piante perenni che entrano in periodi di quiescenza (mezzo mediante il quale le piante perenni so- pravvivono agli stress ambientali). La disposizione delle foglie sul fusto è detta fillotassi e segue un rigido criterio che impedisce alle foglie di ombreggiarsi una con l’altra. Esistono diversi tipi di fillotassi:  Fillotassi alternata: quando è presente una sola foglia per nodo, le foglie sono alternate.  Fillotassi opposta: quando ci sono due foglie per nodo.  Fillotassi verticillata: con tre o più foglie per nodo. Altri tipi di fillotassi si riferiscono alla relazione tra la posizione delle foglie su un nodo e quelle sull’altro:  Fillotassi distica: come nell’iris, dove le foglie sono disposte in due file.  Fillotassi incrociata: le foglie sono disposte in quattro file e si verifica solo nel caso di fo- glie opposte.  Fillotassi spiralata: in cui ogni foglia è spostata leggermente a fianco della sovrastante e della sottostante, in modo che tutte insieme formino una spirale. È la disposizione più co- mune e va bene per tutti i tipi di disposizione sul nodo. 37 ANATOMIA Innanzitutto, il fusto di una pianta erbacea è rivestito di epidermide. Al di sotto di essa si trova la corteccia (o parenchima corticale), in genere omogenea e composta di parenchima fotosintetico, in alcuni casi anche di sclerenchima e collenchima. Si tratta di un tessuto spesso compatto, ma nei rizomi, nei tuberi e nelle Succulente forma un aeren- chima spugnoso. Stessa cosa accade nelle Angiosperme acquatiche, per poter galleggiare meglio. Al di sotto della corteccia si trova il cilindro centrale o stele, che occupa tutto l’interno del fusto. È formato da meristema a cui sono associati il midollo (parenchima), i raggi midollari (o regioni in- terfasciali), i fasci conduttori e le lacune fogliari. Queste ultime si formano in corrispondenza del punto in cui deve crescere la foglia, ossia nel punto della traccia fogliare, segnato dall’intrusione dei fasci dalla stele. Le lacune interrompono la continuità dei fasci, che si ricongiungono al di sopra di esse. I fasci conduttori o fasci cribrovascolari si trovano subito sotto la corteccia, e consistono in asso- ciazioni dello xilema e del floema, che vengono detti xilema primario e floema primario, perché compongono il corpo primario di una pianta. Le quantità relative dei tipi di tessuto in un fascio di- pendono dalla funzione del fusto: se prevale la funzione di riserva avremo molto parenchima e tes- suti conduttori, mentre se prevale la funzione meccanica saranno presenti molte fibre (sclerenchi- ma). Le cellule dello xilema primario sono più grandi del floema primario. La stele possiede una struttura caratteristica, relativa alla filogenesi della pianta. La protostele è la più antica, tipica delle crittogame vascolari. Quando il fascio è formato da una colonna di floema avvolta da xilema si parla di fascio perixile- matico, tipico delle piante crittogame primitive. Un’associazione di fasci perixilematici forma la protostele mesarca (Rhyniophyte e Psilothophyte), priva di midollo e la cui struttura non permette un trasporto molto attivo, quindi la pianta è abbastanza piccola e abita in luoghi piuttosto umidi, senza vere foglie e radici. Se al posto di floema circondato da xilema, è lo xilema ad essere circondato dal floema e manca comunque il midollo, si ottiene una fascio perifloematico ed una protostele esarca (Lycophyte). I fasci perixilematici e quelli perifloematici vengono detti fasci collaterali. Direttamente dalla protostele si evolve l’actinostele, formata da fasci radiali, con lo xilema che forma una X, in cui gli spazi vuoti sono occupati dal floema. Si trova praticamente in tutte le radi- ci, più che nei fusti, perché resiste meglio allo stiramento tipico delle radici che non alla curvatura tipica del fusto. L’actinostele è comunque abbastanza differente fra Monocotiledoni e Dicotiledoni (la “vera” actinostele è tipica delle Dicotiledoni). Un insieme di fasci bicollaterali forma una stele in cui lo xilema forma una striscia che va da un capo all’altro della stele, mentre il floema forma due strisce ai suoi lati. Questo fascio si crea quan- do la pianta ha bisogno di crescere in fretta e deve trasportare molta linfa, come nel caso delle ram- picanti. Una forte evoluzione della stele ha portato all’eustele (vetrino), anch’essa tipica delle Dicotiledoni, caratterizzata da un anello di fasci collaterali aperti (“aperti” perché possiedono il cambio) disposti attorno al midollo. Tra un fascio e l’altro si trovano i raggi midollari primari. I fasci collaterali aper- ti dividono l’anello in numerosi triangoli, con la punta rivolta al centro. I triangoli sono costituiti da xilema nella parte esterna (la base del triangolo) e floema esarco, in quella interna (la punta). Tra xilema e floema si trova il cambio intrafasciale (vedi avanti), un tipo di tessuto meristematico se- condario. Attorno ai fasci si trova una guaina sclerenchimatica con funzione di protezione. Le Monocotiledoni hanno sviluppato la maggiore evoluzione della protostele, ossia l’atactostele, caratterizzata da fasci collaterali chiusi (privi di cambio) che appaiono non ordinati ma sparsi nel parenchima (che non può più essere definito “midollo”), che si continuano direttamente nelle foglie (es. Palma). Pare che l’atactostele si sia evoluta da una disgregazione dell’eustele. 40 gemma, e l’apice, privo di gemma apicale. Inoltre, le foglioline sono sempre disposte in modo al- ternato. Sebbene ai fini della fotosintesi sia più comodo avere una lamina larga, a volte è meglio avere una foglia composta che non si lacera al vento. Inoltre, il vento scorre con più turbolenza su queste fo- glie, aumentando l’apporto di anidride carbonica e rendendo più difficile l’appiglio per gli Insetti. A volte troviamo nelle foglie semplici dei punti di rottura, che possono essere forzati dal vento in modo da formare delle foglie complesse, traendo così i vantaggi di entrambe le situazioni (es. Ba- nana). Una foglia semplice molto larga può essere realizzata solo sull’acqua, come nel caso della ninfea Victoria regia. Altra distinzione morfologica nelle foglie è il tipo di margine, che può essere intero o liscio , den- tato, seghettato (con dentini molto più piccoli del margine dentato), diviso, tipico delle foglie loba- te, oppure lacerato. In una stessa pianta si possono presentare entrambi i tipi, in genere variabili seconda dell’età (cam- bia il microhabitat). In alcuni casi, poi, anche all’interno delle parti adulte ci possono essere foglie differenti, come nel Fagiolo, con foglie composte oppure semplici, o anche nell’Edera e nell’Agrifoglio (spinose verso la base della pianta e lisce all’apice): questo fenomeno è detto etero- fillia. TIPI DI NERVATURE All’interno della foglia decorrono le nervature costituite dal tessuto conduttore, responsabili della nutrizione della foglia e della sua rigidità. La loro disposizione varia a seconda che la pianta sia una Dicotiledone, nel qual caso si parla di nervature reticolate, con una nervatura principale che si dirama in altre nervature che si diramano a loro volta, arrivando a coprire tutta la superficie della foglia; oppure che sia una Monocotiledone, con nervature parallele (per cui si parla di foglie parallelinervie). Il vantaggio di avere una foglia reticolata rispetto a quella parallelinervia sta nel fatto che, se la foglia viene danneggiata in un pun- to, ad esempio lacerata, la conduzione nel resto della foglia non è compromessa, mentre nel caso delle Monocotiledoni la lacerazione porta alla necessità di aggirare la zona creando delle nervature trasversali. Alla base della foglia, in genere nel picciolo, troviamo la zona di abscissione, perpendicolare alla direzione di allungamento del picciolo. Da questa zona vengono liberati enzimi che intaccano le pa- reti provocando la caduta della foglia in inverno oppure prima se troppo danneggiata o infetta. Al posto della foglia si genera la cicatrice fogliare, coperta di sughero. La caduta delle foglie è impor- tante per rinnovare vecchie strutture, ma anche per mantenere un certo livello nutritivo nel terreno in quanto favorisce la formazione di humus. LA STRUTTURA INTERNA DELLE FOGLIE L’EPIDERMIDE L’epidermide deve essere impermeabile ma contemporaneamente anche trasparente, e permettere l’ingresso dell’anidride carbonica e l’uscita del vapore acqueo (evapotraspirazione: traspirazione sotto forma di vapore acqueo). L’epidermide della foglia e quella del fusto sono molto simili, con la differenza che la foglia mostra un orientamento tipico che determina delle caratteristiche di dorsoventralità, a causa dei differenti microclimi sulla lamina superiore e su quella inferiore. Durante la notte, a causa della traspirazione che raffredda il lato superiore (in genere più caldo) e riscalda quello inferiore, le due parti hanno praticamente la stessa temperatura, mentre di giorno la parte superiore è molto più calda di quella inferiore, fenomeno molto più accentuato nelle foglie a lamina ampia che in quelle a lamina piccola. Di giorno, la lamina superiore è più calda dell’aria circostante e quindi richiama delle correnti che, 41 se gli stomi sono aperti, portano via molte molecole d’acqua. Sulla lamina inferiore, però, viene trattenuta dell’aria da cui l’acqua persa viene recuperata. Per questo l’epidermide della lamina infe- riore è molto più ricca di stomi (il Tiglio li ha soltanto nella lamina inferiore), ed inoltre le spore e i Funghi si poggiano molto più spesso sulla lamina superiore che su quella inferiore. Molto spesso l’epidermide è pelosa: i peli aumentano l’ombra e schermano i raggi UV sulla lamina superiore, mentre su quella inferiore prevengono la turbolenza dell’aria e la perdita d’acqua dagli stomi. In qualunque posizione, impediscono il movimento degli Insetti e possono secernere sostanze urticanti. Inconsapevolmente, comunque, la pianta offre riparo a tanti piccoli Insetti, che depongono le uova tra i peli lontano dai predatori. Come le cellule del fusto erbaceo, anche quelle dell’epidermide fogliare sono rivestite di cera e cu- tina. IL MESOFILLO Il mesofillo è un parenchima che comprende i tessuti posti fra le epidermidi fogliari. Prima di que- sto strato, sotto l’epidermide superiore di molte foglie si trova uno strato di parenchima a palizza- ta, il principale tessuto fotosintetico. Al contrario di quanto potrebbe sembrare dal nome, le cellu- le di questo particolare parenchima non sono strettamente legate fra di loro, ma presentano dei pic- coli spazi intercellulari per aumentare la superficie di contatto con l’anidride carbonica. In genere il parenchima a palizzata è monostratificato, ma può raggiungere i tre o quattro strati, co- me nel caso dell’Agrifoglio. Il mesofillo vero e proprio è detto mesofillo lacunoso, un aerenchima clorofilliano che permette al- la CO2 di penetrare senza problemi e diffondersi. All’interno del mesofillo lacunoso troviamo le nervature. In alcuni casi il mesofillo lacunoso può essere compreso fra due strati di parenchima a palizzata (che a quel punto si trova sia al di sotto dell’epidermide superiore che di quella inferiore): queste foglie si dicono isofacciali e presentano stomi su tutta l’epidermide. In foglie di questo tipo, il pa- renchima a palizzata funge un po’ anche da aerenchima e contiene al suo interno le nervature. Lo schiacciamento dovuto ai due strati di palizzata è scongiurato dalla presenza di travi di sclerenchima che sorreggono l’interno come colonne. Quando invece una faccia si riduce al punto da scomparire si parla di foglie unifacciali, che posso- no essere piatte (con due file di fasci, come l’Iris) o cilindriche (con i fasci disposti a formare una circonferenza, per cui la lamina inferiore viene rivolta tutta verso l’interno del cilindro, come l’Erba cipollina), e sono tipiche delle Monocotiledoni. Le normali foglie sono dette bifacciali. La disposizione del parenchima a palizzata e quindi anche del mesofillo dipende inoltre dalla rela- zione tra posizione della foglia e Sole: nelle foglie plagiotrope (parallele al terreno), lo strato a pa- lizzata si trova solo sotto l’epidermide superiore, mentre nelle foglie ortotrope (Iris, Gladiolo, Eu- calipto), ossia perpendicolari al terreno, il parenchima è su entrambe le facce. I TESSUTI VASCOLARI I tessuti vascolari sono disposti tra il parenchima a palizzata e il mesofillo lacunoso e costituiscono, assieme alle fibre, le nervature. I fasci vascolari sono formati, come sappiamo, da libro e legno (floema e xilema): a partire dal fusto, che ha lo xilema all’interno, la foglia si estende verso l’esterno, piegandosi in modo che lo xilema si trovi a formare la parte superiore e il floema quella inferiore. Le nervature laterali e quella principale sono importanti per la conduzione, mentre le nervature periferiche si occupano della diffusione di acqua e zucchero: l’acqua esce dallo xilema e lo zucche- ro entra nel floema. Le nervature non contengono necessariamente sia xilema che floema: ce l’hanno sicuramente le nervature laterali e quella principale. Sempre questi due tipi di nervature sono sostenute dalla guai- 42 na del fascio, una serie di fasci di fibre che le circondano ed in certi casi si estendono toccando l’epidermide della foglia. Le nervature periferiche non hanno la guaina del fascio perché sono ad- dette agli scambi e risulterebbe sconveniente. Le fibre della guaina inoltre favoriscono la diffusione dell’acqua, che passa per capillarità fra le fes- sure che queste formano. IL PICCIOLO Visto che il picciolo si trova in un punto di transizione tra fusto e lamina, i tessuti che lo compon- gono sono differenti alle due estremità. L’epidermide è simile a quella della lamina, ma contiene pochi stomi e tricomi. Il mesofillo è pove- ro di spazi intercellulari e comprende una grossa parte di collenchima. Nel picciolo i tessuti vascolari si organizzano in tracce fogliari, gruppi di fasci provenienti dal ci- lindro centrale. I fasci possono restare uguali a come erano nel fusto oppure riassemblarsi, unirsi o dividersi, fino ad arrivare a volte ad essere centinaia. Se è presente una nervatura principale, i fasci possono riunirsi in essa, ma alcuni possono entrare nella lamina come nervature laterali. Alla base del picciolo possono o meno essere presenti due lembi di tessuto detti stipole, che proteg- gono l’apice del meristema apicale oppure svolgono un’adeguata funzione fotosintetica finché la foglia non si è accresciuta, quindi muoiono. COMPARSA E SVILUPPO DELLE FOGLIE DICOTILEDONI In queste piante le foglie si formano per attività del meristema apicale. Le cellule alla base del meristema crescono verso l’esterno formando la bozza fogliare o primor- dio della foglia. Sebbene parta dalla base, la bozza si accresce così in fretta da superare l’apice ve- getativo del germoglio, disposto al centro. È formata dal protoderma fogliare (un tessuto formato da cellule epidermiche immature) e dal meristema fondamentale. Una fila di cellule al centro della bozza si differenzia in tessuto procam- biale, che poi passerà a xilema e floema. Il primordio della foglia che cresce si ingrossa per formare la nervatura centrale, mentre una fila di cellule all’estremità si divide in due parti per formare la lamina oppure, nelle foglie composte, gli abbozzi delle foglioline. Fin’ora le cellule erano ancora tutte meristematiche; a questo punto invece si differenziano tutte le strutture: lamina, stomi, tricomi e alla fine il picciolo. Queste foglie, ancora racchiuse nella gemma ascellare o apicale, diventano dormienti. All’arrivo della primavera, i primordi assorbono ingenti quantità di acqua e si gonfiano molto in fretta. In questo stadio praticamente non avviene mitosi, ma più che altro la sintesi di clorofilla, cu- tina e cere. MONOCOTILEDONI Anche le foglie delle Monocotiledoni originano dall’apice meristematico e formano la bozza foglia- re. Le cellule adiacenti alla bozza più recente (cioè cellule che fanno parte di una più vecchia bozza fogliare) si allungano e la coprono come un cappuccio, che lascia comunque libera un’apertura. Quando la foglia comincia a differenziarsi, questo cappuccio formerà la parte basale della lamina fogliare. Abbiamo visto che le Monocotiledoni hanno, per la maggior parte, foglie parallelinervie, che si ac- crescono in maniera indeterminata grazie ad un meristema basale posto nel punto in cui la lamina si inserisce sulla foglia. Questo significa che il protoxilema e il protofloema sono continuamente sti- 45 La Drosena modifica direttamente sulla superficie dei peli ghiandolari che secernono un liquido digestivo appiccicoso: quando un Insetto vi si posa, i peli adiacenti si arrotolano su di lui mettendo- lo a contatto con le sostanze digestive. La Dionea ha foglie appiattite con cellule motrici situate sulla nervatura centrale, ricche di liquido: quando un Insetto si posa sulla trappola e stimola almeno due peli, il liquido esce completamente facendo chiudere di scatto le due foglie, dotate di lunghe spine che si chiudono come una tagliola, intrappolando la preda. A questo punto vengono secreti gli enzimi digestivi. VARI TIPI Le foglie che esercitano prevalentemente funzione fotosintetica, o protettiva o una qualunque delle funzioni menzionate fin’ora sono dette nomofilli. Esistono altri tipi di foglia:  Squame: si trovano nei fusti sotterranei (es. bulbi) ed hanno funzione di riserva e protezio- ne.  Brattee o ipsofilli: proteggono le gemme, specialmente quelle non dormienti e sono meno specializzate delle perule.  Sporofilli: portano gli sporangi con le meiospore, e si dividono in microsporofilli (maschi- li) e macrosporofilli (femminili).  Antofilli: o elementi fiorali.  Cotiledoni: hanno funzione di riserva negli embrioni. 46 47 LE RADICI CONCETTI GENERALI Le funzioni della radice sono principalmente tre: 1. Fissare saldamente la pianta al substrato, in modo che possa orientarsi nel miglior modo possibile verso il Sole, gli impollinatori o gli altri agenti di dispersione, ed in modo che la pianta resti verticale. 2. Assorbire acqua e minerali. Anche la foglia ha funzione di assorbimento, ma mentre in quel caso i raggi del Sole provengono sempre dalla stessa direzione, nel caso delle radici i nutrienti provengono da tutte le parti, quindi è necessaria una forma cilindrica. Questa, oltre- tutto, facilita la penetrazione nel terreno. 3. Produrre ormoni necessari per la crescita del germoglio. In questo modo si rende integrata la crescita dei due sistemi. Le radici svolgono anche altre funzioni (vedi ultimo paragrafo), come la riserva dei carboidrati durante l’inverno per le radici carnose come le Carote, le Barbabietole e i Ravanelli. Visto però che una pianta ha per forza bisogno di assorbire acqua e minerali, nella maggior parte dei casi saranno presenti più di un tipo di radice per pianta. STRUTTURA ESTERNA DELLE RADICI ORGANIZZAZIONE DEI SISTEMI RADICALI Ovviamente, è più comodo creare un sistema ramificato che un’unica radice che garantisca l’assorbimento di tutta l’acqua e ei minerali necessari: dovrebbe essere lunghissima e sarebbe im- possibile la conduzione. Ad ogni modo, molte Dicotiledoni hanno un unico fittone molto sviluppato da cui si diramano nu- merose piccole radici laterali. Il fittone si sviluppa dalla radice embrionale o radichetta, già pre- sente nel seme. Può essere davvero prominente, come nella Carota, oppure essere piccolino come nel Girasole. Dalle radici laterali possono spuntare altre simili oppure un altro fittone, come accade nella Patata dolce o nella Manioca. Non sempre è presente un fittone: gran parte delle Monocotiledoni ed alcune Dicotiledoni possie- dono una massa di radici tutte di taglia simile, molto reticolate, che formano un apparato radicale fascicolato, tipico ad esempio del Frumento o delle Cipolle. Si forma in seguito alla morte della ra- dichetta embrionale e alla formazione di numerosi primordi radicali dal fusto. Queste radici che non derivano né dalla radichetta embrionale, né dal fittone, né da radici laterali si dicono radici avven- tizie. È logico che nelle Dicotiledoni sia enormemente più frequente la radiche a fittone che quella fasci- colata, perché si tratta di piante spesso perenni e legnose, che quindi per accrescersi devono aumen- tare la quantità del legno sia nella radice che nel fusto: mettere del legno nelle radici fascicolate le uccide. La crescita si basa quindi anche sull’aumento della capacità di conduzione. Nelle Monocotiledoni, invece, una volta che si sono formati tutti i vasi, non è più possibile aumen- tare questa capacità. Quindi, nuove foglie non avranno possibilità di essere rifornite d’acqua, così come nuove radici non potranno essere rifornite di zuccheri. L’unico modo che una Monocotiledone ha per aumentare le proprie dimensioni è l’uso di stoloni e rizomi che, con i loro getti orizzontali, si ramificano e producono radici avventizie, per nutrire i nuovi germogli senza condizionamenti da parte del vecchio apparato radicale. Esistono comunque anche delle Dicotiledoni rizomatose e sto- lonifere che possono produrre radici nello stesso modo. 50 In ogni caso, lo xilema forma delle actinosteli formate da due, tre o quattro arche (biarche, triarche, tetrarche) nelle Dicotiledoni, e ancora di più nelle Monocotiledoni (pag. 236). La parte centrale è sempre costituita da grosse cellule di metaxilema, mentre le arche stesse sono formate da protoxi- lema. Tra le arche di protoxilema ci sono quelle di floema, nello stesso numero, organizzate in mo- do che il protofloema sia più vicino al protoxilema (ma non a contatto), ed il metafloema si trovi vi- cino al metaxilema. Mentre la struttura generale della radice è molto simile a quella del fusto, quella dei fasci vascolari è molto simile a quella che troviamo nelle foglie. Allo stesso modo subisce continuamente rotture a causa dell’allungamento. Le parti che si formano dopo l’allungamento hanno pareti più spesse e va- rie volte presentano punteggiature areolate. PARTI MATURE DELLA RADICE L’endoderma rappresenta una delle parti mature della pianta. In genere le sue cellule rimangono in- variate, ma capita comunque spesso di assistere alla suberificazione delle pareti tangenziali. Può se- guire la deposizione di uno strato di lignina e di un altro di suberina. Di conseguenza, in questa zona sono molto poche le cellule dell’endoderma caratterizzate dalla sola presenza della banda del Ca- spary, che vengono qui dette punti o cellule di permeazione: in altre zone rappresentano una via per l’assorbimento dei minerali, in questa zona sono solo cellule in ritardo. Questo tessuto impermeabile serve a trattenere l’acqua nei tessuti vascolari. Se le pareti dell’endoderma maturo non fossero così resistenti ed impermeabili, l’acqua sarebbe spinta ad usci- re, mentre in questo modo viene irrimediabilmente spinta verso l’alto, a nutrire i germogli (pressio- ne radicale). In pratica, l’endoderma è la parte più importante della radice, anche perché dopo la morte dei peli anche la corteccia e l’epidermide vengono eliminate. Così l’endoderma costituisce la superficie del- la radice finché non si forma il periderma, tipico delle radici di piante perenni. ALTRI TIPI DI RADICI E MODIFICAZIONI RADICALI RADICI CON FUNZIONE DI RISERVA Molte radici provvedono saggiamente ad accumulare, durante il periodo di ricchezza estiva, dei carboidrati di riserva per l’inverno. Ovviamente si tratta di una misura che si realizza solo nelle piante perenni, per far nascere i germogli o nutrire la pianta quando mancano le foglie, o quando, in inverno, si seccano lasciando solo alcuni nodi vitali inseriti sulla sommità della radice, sotto il ter- reno. Gli svantaggi sono numerosi, sia perché la riserva si trova in una posizione molto scomoda per nu- trire le parti della pianta più lontane, sia perché si trova in una posizione stabile per i predatori. In queste piante ed in particolare in quelle giovani, le radici sono talmente essenziali per la soprav- vivenza anche in inverno che prendono il nome di radice primaria, mentre la zona tra le foglie e il terreno viene detta ipocotile. In genere, invece, la zona sopra i due cotiledoni è detta epicotile e quella sotto, ossia la radice, è detta ipocotile. RADICI DI SOSTEGNO Abbiamo visto che, per accrescersi, il fusto di una Monocotiledone ha bisogno di sviluppare delle radici avventizie, che si diramano in orizzontale nel suolo, e certe volte anche nell’aria. Nelle Palme, queste radici esposte all’aria possono raggiungere i 3-4 m e svolgono funzione sia di sostegno che di trasporto, prima di raggiungere il suolo. 51 A volte queste radici presentano un accrescimento secondario, come in alcune piante del genere Fi- cus, che creano delle radici colonnari fornendo un supporto molto robusto ai rami e permettendogli di espandersi lontano. Radici di sostegno sono presenti anche nelle Mangrovie, che vivono in ambienti paludosi e necessi- tano di essere sollevate dal terreno per vincere le correnti. Le radici assumono la forma di una rag- giera. Le radici di sostengo sono dunque un buon acquisto e sono inoltre fornite di numerose lenticelle (aperture del legno) che le rendono un buon aerenchima: esso permette la diffusione dell’ossigeno molto rapidamente anche alle radici immerse nell’acqua (come proprio nelle Mangrovie). Per que- sta funzione respiratoria, certe radici prendono il nome di pneumatofori. RADICI AEREE DELLE ORCHIDEE Molte Orchidee vivono come epifite sui rami (un’epifita è una pianta che cresce su di un’altra ma non la parassita), per cui hanno le radici esposte all’aria. Sono specie che vivono in foreste pluviali, ma ugualmente devono combattere contro la siccità: nel- le poche ore non di pioggia, l’aria e la corteccia su cui vivono si asciugano molto in fretta e l’Orchidea deve evitare che prendano l’acqua di cui hanno bisogno dalle sue radici. Questa funzione protettiva è svolta dal velamen, un’epidermide formata da più strati di cellule morte che non per- mettono l’uscita dell’acqua (vetrino). Queste radici rappresentano un’eccezione perché contengono alcuni cloroplasti e mostrano delle parti verdi. RADICI CONTRATTILI Le radici di molte piante bulbose si contraggono dopo essersi espanse, in modo da mantenere il fu- sto al livello del suolo o, in caso di bulbi, al di sotto di esso. Si tratta di un meccanismo molto im- portante anche nel caso di rizomi ed altri fusti sotterranei, per mantenere la giusta profondità nel ter- reno. La contrazione è dovuta all’allungamento simultaneo in senso radiale delle cellule corticali, che così perdono circa metà della loro lunghezza. I tessuti vascolari divengono ondulati, ma ovviamente la conduzione continua. MICORRIZE Circa l’80% delle piante a seme instaura delle relazioni simbiontiche con dei Funghi del suolo. Queste associazioni si chiamano micorrize e se ne conoscono due tipi principali:  Associazione ectomicorrizica: dove le ife penetrano tra le cellule della parte più esterna della corteccia, senza invaderle.  Associazione endomicorrizica: in cui le ife entrano fino all’endoderma ma non superano la banda del Caspary. In questo caso le cellule vengono invase ma non danneggiate, ed al loro interno il Fungo sviluppa una struttura detta arbuscolo, piena di granuli di fosforo che ver- ranno assorbiti dalla pianta. La pianta dà al Fungo l’amido di riserva, mentre il Fungo dona il fosforo, per il cui assorbimento i Funghi micorrizici sono molto più efficienti dei peli radicali. Un particolare tipo di associazione micorrizica è quella fra le Orchidee ed i Funghi: queste piante producono dei semi che contengono plantule prive di radichetta, foglioline e clorofilla. Il seme ger- mina solo quando viene invaso dalle ife fungine, che sembra degradino la cellulosa delle foglie del- la lettiera, rendendo disponibili all’Orchidea gli zuccheri semplici. Non è noto quale sia il vantaggio per il Fungo. 52 NODULI RADICALI E FISSAZIONE DELL’AZOTO Le piante mancano di un sistema enzimatico per utilizzare l’azoto, per questo la sua presenza nel suolo rappresenta un grosso fattore limitante per la loro sopravvivenza. Solo pochi procarioti sono in grado di utilizzarlo, incorporandolo nella loro cellula come amminoa- cidi o nucleotidi. Questo processo di conversione dell’azoto atmosferico in azoto utilizzabile è detto fissazione dell’azoto. In particolare, si osserva spesso un rapporto simbiontico volto a questo scopo tra le piante legumi- nose e Rhizobium, un batterio azotofissatore (vetrino). Questi batteri liberi nel suolo secernono una sostanza che fa incurvare i peli radicali, in modo da creare una fessura chiamata filamento di infe- zione, che ne permette l’ingresso nella pianta. Le cellule adiacenti a questo filamento si moltiplica- no per mitosi creando dei noduli radicali. Da questi noduli, i batteri di Rhizobium si diffondono all’interno delle cellule dell’ospite riempiendole di cellule batteriche (batteroidi), che convertono l’azoto in composti azotati liberandoli nella pianta. Questa, da parte sua, dona ai batteri gli zuccheri necessari per la trasformazione. Il nodulo può restare semplice oppure evolversi in un nodulo complesso che comprende una regione meristematica, un tessuto vascolare ed un endoderma. Proprio in virtù di queste associazioni ormai sviluppatesi da milioni di anni, i batteri e la pianta si sono modificati in modo da aiutarsi a vicenda anche in un altro modo: i batterti azotofissatori sono sensibili all’ossigeno, che li avvelena. Per fare in modo che restino nelle sue radici, la pianta gli for- nisce una particolare sostanza proteica detta leghemoglobina, che si lega all’eme prodotto dal batte- rio: questo complesso si lega all’ossigeno e protegge i batteri. AUSTORI, RADICI PARASSITE Gli austori sono delle radici modificate tipiche delle Angiosperme parassite. È difficile descriverli con una generalizzazione, perché visto che devono penetrare nel fusto delle altre piante, hanno evoluto col tempo meccanismi specifici per ciascuna di esse. Comunque, in ogni caso devono aderire strettamente all’ospite e quindi secernono tutte sostanze adesive. La penetrazione avviene con l’inserimento di un filamento di cellule nella corteccia dell’ospite, in modo che queste entrino in contatto con lo xilema. In genere, a questo punto sia le cellule dell’austorio che quelle dell’ospite si dividono, e si crea un sistema di conduzione che collega la pianta principale direttamente con il parassita. Alcuni austori entrano in contatto solo con lo xilema e realizzano da soli la fotosintesi, altri sia con lo xilema che con il floema e quindi non fanno fotosintesi. SPINE E GERMOGLI Le radici del Salice o di altre piante, a sviluppo orizzontale, producono esse stesse dei germogli che fuoriescono dal terreno. Questa è una riproduzione vegetativa simile a quella delle piante stolonifere o rizomatose, ma in questo caso interessa la radice e non i fusti. In certe Palme, le radici fuoriescono dal fusto e formano delle grosse spine. Nell’Edera e in molte rampicanti le radici si sono modificate a formare degli appigli. 55 Le iniziali fusiformi si dispongono invece in file perpendicolari alle precedenti ordinate (cambio stratificato, chi si riscontra solo nelle Dicotiledoni più evolute) o disordinate (cambio non stratifi- cato). In genere non ci sono zone in cui sono presenti solo cellule di un tipo, ma i due tipi sono mischiati. Una iniziale fusiforme può dividersi più volte trasversalmente in modo da creare una fila di cellule iniziali dei raggi. Allo stesso modo, se una cellula iniziale radiale diventa abbastanza ampia, può trasformarsi in una fusiforme. XILEMA SECONDARIO TIPI DI CELLULE DEL LEGNO Lo studio del legno viene detto dendrologia. Abbiamo visto che tutte le cellule situate internamente al cambio cribro-vascolare sviluppano il le- gno o xilema secondario. Nessun tipo di cellula nuova è presente nello xilema secondario rispetto al primario: il legno contiene infatti trachee, tracheidi, fibre, sclereidi e parenchima. La differenza principale sta nel tipo di disposizione, che riflette quella delle iniziali fusiformi, e nell’origine (dalle iniziali fusiformi e radiali) Trachee o tracheidi, oppure entrambe, compongono il sistema assiale, che effettua la conduzione verticale dell’acqua nel legno. I vasi possono essere presenti singolarmente o accoppiati ad altri, e sono presenti sia vasi stretti che larghi: i primi assicurano il passaggio dell’acqua quando il terreno è secco, i secondi permettono il passaggio di grandi quantità d’acqua. In molte Dicotiledoni, il sistema assiale contiene anche fibre, che conferiscono forza ed elasticità al legno, per cui si parla di legni duri (con questo termine si indicano ormai i legni di tutte le Dicoti- ledoni, anche quelli morbidi come la Balsa). I legni delle Conifere hanno poche o nessuna fibra e quindi sono detti legni dolci o teneri, anche se certe volte sono più robusti dei legni duri. Inoltre, le fibre sono più presenti nel legno estivo, la cui funzione maggiore è la resistenza, che non nel legno primaverile, caratterizzato più che altro da ampi vasi. Le trachee e le tracheidi sono sempre allungate perché derivano da iniziali fusiformi mature. Certe volte, però, le iniziali fusiformi non maturano e subiscono delle divisioni trasversali diventando cel- lule parenchimatiche (parenchima del legno). Il parenchima dello xilema assiale è importante co- me riserva di acqua, perché nei periodi di siccità svuota i vacuoli e riempie i vasi, oppure nelle notti molto umide i vacuoli si riempiono d’acqua perché le foglie non riescono ad eliminarne abba- stanza. Le Conifere hanno un parenchima assiale molto scarso, per cui non hanno molte riserve d’acqua: per questo hanno foglie cerose che la trattengono bene. La complessità del legno varia molto in relazione al tipo di pianta: nelle Gimnosperme sono presen- ti solo fibrotracheidi, senza fibre e cellule parenchimatiche, al contrario delle Dicotiledoni in cui so- no presenti tracheidi, fibre e cellule parenchimatiche. Le fibre sono in genere disposte in gruppi. Attorno ai vasi si trovano quindi il parenchima e poi un anello di fibre, che ne evitano il collasso. Nelle Angiosperme, il sistema radiale dello xilema contiene solo parenchima, disposto in strisce più o meno seriate chiamate raggi midollari. Nei raggi, durante la dormienza, si accumulano car- boidrati ed altri nutrienti, e vengono effettuati degli scambi a breve distanza in direzione radiale. Le cellule parenchimatiche presenti nei raggi delle Dicotiledoni sono di due tipi: cellule erette e cellule procombenti. Le prime si trovano disposte in verticale sopra e sotto il raggio, mentre le se- conde sembrano essere dei mattoncini orizzontali nella parte interna. Connessioni tra il sistema radiale e quello assiale avvengono più che altro attraverso le cellule eret- te: se queste si trovano adiacenti a quelle parenchimatiche assiali, si stabiliscono connessioni trami- 56 te plasmodesmi; se invece si trovano adiacenti a tracheidi o trachee, queste ultime mostreranno del- le punteggiature, mentre le cellule erette avranno pareti molto sottili. All’arrivo della primavera, al- beri come l’Acero consumano come prima riserva l’amido accumulato nelle cellule erette, che passa attraverso questi sistemi nei vasi. Quello invece accumulato nelle cellule procombenti deve essere prima traslocato a quelle erette. Anche nelle Gimnosperme si ritrova la stessa organizzazione a raggi, più che altro uniseriati (multi- seriati solo se contengono un canale resinifero), ma a differenza delle Dicotiledoni, al posto delle cellule erette sono presenti le tracheidi del raggio, cellule orizzontali e rettangolari simili a quelle delle Dicotiledoni, ma provviste di pareti secondarie e punteggiature areolate circolari. CERCHIE ANNUALI Il cambio cribro-vascolare entra in quiescenza nelle situazioni di stress ambientale (secco o freddo). Subito dopo (primavera) ricomincia a produrre libro e legno, e la pianta produce nuove foglie, prive di cuticola: queste foglioline perdono molta acqua e quindi è necessario che la pianta sviluppi un maggiore sistema di conduzione in breve tempo. Si sviluppa di conseguenza un legno primaverile ricco di vasi nelle Dicotiledoni, mentre le Gimnosperme aumentano semplicemente il numero di fi- brotracheidi (anche se si parla comunque di legno primaverile). Quando le foglie maturano, la cuticola si ispessisce e i vasi formati conducono a velocità più eleva- ta: il legno prodotto in questo periodo è detto legno estivo e presenta meno vasi. Ora la pianta ha un anno in più e il legno estivo deve garantire in sostegno meccanico necessario per sostenere le nuove foglie e rami: più fibre nelle Angiosperme e fibrotracheidi più strette con pareti più spesse nelle Gimnosperme. Quando il cambio rientra in dormienza, le ultime cellule prodotte diventano fibre (o fibrotracheidi modificate) con una parete particolarmente spessa, che divide una cerchia annuale dall’altra. In alcune specie si ha la produzione dei vasi anche durante la stagione vegetativa, per cui il legno estivo non risulta molto differente da quello primaverile: si parla di legno a porosità diffusa, in contrapposizione con quello a porosità anulata. Esempi di alberi a porosità diffusa sono la Betulla, il Pioppo tremulo, l’Acero, mentre esempi di alberi a porosità anulata sono la Quercia e il Carrubo. Nei climi tropicali miti, il cambio può rimanere attivo praticamente tutto l’anno e quindi è molto difficile distinguere le cerchie annuali. Certe volte un fusto si trova a dover crescere su un terreno pendente, tanto che la forza di gravità potrebbe portare i rami a piegarsi in modo innaturale: per questo la pianta sviluppa un legno di rea- zione. Le cerchie annuali di queste parti del legno, osservati in sezione, sono eccentrici, ed hanno una differente disposizione e composizione tra Dicotiledoni e Conifere:  Dicotiledoni: producono il legno di tensione, con cerchi annuali più larghi nella parte supe- riore del ramo. Questo legno è ricco di fibre gelatinose, formate soprattutto da cellulosa ma con poca lignina: le fibre esercitano una tensione sul ramo evitando che si pieghi, oppure fa- cendo in modo che assuma un andamento più verticale (quindi in ogni modo che non vada verso il basso).  Conifere: producono il legno di compressione, con gli anelli di crescita più spessi sul lato inferiore del ramo. Il legno è ricco di lignina e povero di cellulosa, e la sua funzione è la stessa che per le Dicotiledoni. ALBURNO E DURAMEN Nella parte centrale di un fusto, il legno ha quasi sempre un colore più scuro rispetto a quello ester- no, ed è più secco e fragrante come un cracker. Questo legno scuro è detto duramen, mentre la par- te chiara è detta alburno. Esistono queste regioni differenti perché le trachee e le tracheidi non sono sempre funzionanti, per- ché le colonne d’acqua possono interrompersi per congelamento o simili. Di conseguenza, bloccan- 57 do il flusso e le differenze di potenziale, i vasi non funzionano più. Sebbene i vasi disattivati siano pochi, può accadere che ciò provochi la caduta delle foglie della cerchia annuale e che quindi questa sia completamente disattivata. Diventa allora più facile l’infestazione da parte di Funghi, batteri o Insetti, per cui quando il vaso si svuota è importante che la pianta riesca a tapparlo: le cellule parenchimatiche adiacenti al legno svi- luppano delle estroflessioni che, attraversando le punteggiature, entrano nel vaso e formano un tap- po detto tilla. La produzione di sostanze aromatiche, lignina e tannini limita ancora di più l’infestazione. Così modificate, queste cellule muoiono e formano il duramen, aromatico e resisten- te alla marcescenza. Comunque, dopo molto molto tempo il duramen può marcire lo stesso e diven- tare cavo all’interno. Visto però che i tessuti ancora attivi sono i più esterni, l’albero vive ancora, ma probabilmente non resisterà a lungo agli stress meccanici. Il trasporto è attivo quindi solo nell’alburno: nelle piante caducifoglie questa attività si estende solo alla cerchia più esterna, in continuità con le foglie formate lo stesso anno, mentre nelle piante sem- preverdi il trasporto resta attivo anche nelle altre cerchie. Mentre il colore scuro del duramen è dovuto alla presenza di tannini che si insinuano nelle sue cel- lule, il colore chiaro dell’alburno è dovuto ai granuli di amido contenuti nelle cellule parenchima- tiche ed agli elementi tracheali pieni d’acqua. Di media, ogni anno si forma una nuova cerchia di alburno e una di queste diventa duramen: quindi il duramen diventa ogni anno più ampio mentre l’alburno mantiene sempre più o meno lo stesso spessore. Nei fusti giovani, però, dove il duramen ancora non si è formato, si ha praticamente solo alburno. FLOEMA SECONDARIO Come lo xilema secondario, anche il floema secondario presenta un sistema assiale ed uno radiale. Il sistema assiale provvede, sia nella radice che nel fusto, alla conduzione dall’alto verso il basso. Nelle Dicotiledoni contiene tubi cribrosi e cellule compagne, mentre nelle Gimnosperme solo cellu- le cribrose. Questi elementi funzionano per meno di un anno, poi collassano, per cui nel fusto solo lo strato più interno del floema è attivo nella conduzione. Quando collassano, le cellule cribrose di- ventano ondulate per cui sono facilmente individuabili. Sia nelle Gimnosperme che nelle Dicotiledoni, il floema secondario assiale contiene anche le fibre e il parenchima non di conduzione: ovviamente il parenchima è adiacente ai vasi e le fibre sono ester- ne ad esso. Nel floema secondario non si assiste alla formazione di strutture tipo le cerchie annuali o i tipi di le- gno diversi a seconda della stagione. Anche in questo caso si formano i raggi, che si proseguono a partire dallo xilema. Hanno la stessa funzione dei raggi xilematici (riserva), anche se sono meno specializzati. Nel floema, le cellule dei raggi si dividono tangenzialmente, formando delle piramidi rovesciate (parenchima di dilatazione), con la punta che termina in corrispondenza del cambio cribro- vascolare (e si continua con i raggi xilematici): questa proliferazione serve a fare in modo che la corteccia non si laceri con l’accrescimento. CAMBIO SUGHERO-FELLODERMICO PERIDERMA E SUGHERO Quando si formano nuove cellule dello xilema secondario, sia il cambio cribro-vascolare che le cel- lule del floema secondario sono spinte verso l’esterno. Le nuove cellule del floema saranno interne alle cellule più vecchie ed esterne al cambio cribro-vascolare per cui, durante il periodo di matura- zione, spingeranno sempre più all’esterno le vecchie cellule del floema secondario, che possono al- largarsi o lacerarsi, o entrambi, sebbene la presenza dei raggi dilatati nel floema limiti il fenomeno. 60 Il vantaggio di questa posizione potrebbe essere in una maggiore protezione del floema dall’attacco di Insetti e altri animali nocivi, dovuta a vari strati di legno. ATTIVITÀ INEGUALI DEL CAMBIO VASCOLARE In genere il cambio ha un’attività identica in ogni sua parte, per cui la sezione trasversale mostra un fusto circolare. Nelle Viti legnose, però, due settori opposti sono attivi, mentre gli altri sono com- pletamente inattivi, per cui il fusto assume, in sezione, la forma di un manubrio. In un normale fusto a crescita regolare, l’allargamento circolare consente di aumentare la conducibi- lità, ma diminuisce la flessibilità. La Vite legnosa, invece, mantiene inalterata la capacità di condu- zione, aumentando con la forma piatta la propria flessibilità. ACCRESCIMENTO SECONDARIO E PRIMARIO INSOLITO NELLE MONOCOTILEDONI Le Monocotiledoni non hanno un accrescimento secondario, ma alcune, come gli Alberi di Giosuè (del genere Yucca), le Dracene e le Palme mostrano un aspetto legnoso. I primi due tipi di piante hanno un accrescimento secondario anomalo, mentre le Palme hanno un accrescimento primario anomalo. Negli Alberi di Giosuè (o Tronchetto della felicità) e nelle Dracene si organizza un cambio cri- bro-vascolare alla periferia dei fasci più esterni, che deriva da cellule della corteccia. Questo cam- bio, tuttavia, produce solo parenchima e non elementi di conduzione: questa mancanza è sopperita dalle modificazioni delle cellule parenchimatiche, che si dividono rapidamente e formano delle co- lonne (fasci vascolari secondari) contenenti xilema e floema. In questi fasci, le cellule più esterne si differenziano in fibre, che donano l’aspetto legnoso e hanno capacità di conduzione e solidità molto elevati. L’albero può crescere senza bisogno di formare le radici avventizie, necessarie invece nelle Palme. Le Palme sono alberi insoliti perché i loro fusti non diventano affusolati all’apice né si ramificano. Non si forma mai un cambio vascolare e sono presenti solo tessuti primari. Il fusto diviene robusto e legnoso solo perché sono presenti guaine di fibre molto resistenti attorno ad ogni fascio vascolare, e perché sono presenti numerose cicatrici fogliari molto ampie. La possibilità di crescere così tanto è data da un accrescimento primario anomalo, per cui si forma- no delle radici avventizie che contengono sempre un numero di arche maggiore delle radici sotto- stanti. 61 LA RIPRODUZIONE E IL FIORE La riproduzione consiste sia nella formazione di due individui geneticamente identici, sia in quella di due nuovi individui geneticamente diversi dai genitori. La scelta dell’una o dell’altra opportunità dipende dal tipo di ambiente: se si tratta di un ambiente soggetto spesso a cambiamenti, converrà adottare una riproduzione sessuata, altrimenti sarà me- glio scegliere una riproduzione asessuata per non rischiare che il nuovo individuo sviluppi delle caratteristiche meno adattate. Comunque, lo svantaggio del generare una popolazione geneticamen- te identica sta nel fatto che un’epidemia o un forte stress può uccidere tutti gli individui, mentre al contrario potrebbero sopravvivere quelli con corredo genetico più forte. Nella riproduzione sessuata, il dispendio energetico per produrre una singola cellule sessuale è mol- to basso, ma ogni fiore (l’organo deputato alla riproduzione sessuale) ha una produzione assai co- stosa. Poiché però contiene numerosissimi semi e milioni di cellule sessuali, tutte differenti, la pian- ta ha la sicurezza di produrre numerosi embrioni di cui la maggior parte sarà ben adattata all’ambiente, e quindi vale la pena usare tante energie per produrre il fiore. L’aspetto negativo della riproduzione sessuale delle piante è che occorrono due individui per attuar- la e le cellule sessuali devono quindi muoversi da una pianta all’altra. Alcune piante sono autofe- condanti, ma perdono il privilegio di ricevere nuovi geni. Alcune piante si riproducono sia sessualmente che asessualmente, ad esempio la Fragola, che può riprodursi anche mediante stoloni, o il Bambù, che si riproduce regolarmente per rizomi e solo ra- ramente produce semi. Dopo la fecondazione, nel caso della riproduzione sessuata, anche i semi devono essere dispersi, per cui hanno sviluppato delle strutture idonee al mezzo. Certo molti embrioni o, prima della feconda- zione, molti gameti andranno perduti, ma statisticamente è certo che ancora più saranno quelli che germineranno e vivranno. La riproduzione sessuale tramite il fiore può essere eseguita da tutte le Spermatofite, cioè Angio- sperme e Gimnosperme. Nel secondo caso, però, il fiore manca del pistillo e non viene prodotto il frutto. RIPRODUZIONE ASESSUALE O VEGETATIVA La riproduzione asessuale consiste nella produzione di nuovi individui in seguito alla suddivisione in due o più parti del corpo di un individuo, o al semplice distacco di una sua parte. A causa della staticità del genoma, la riproduzione vegetativa viene mantenuta solo in acqua, men- tre sulla terraferma, in situazioni in cui le condizioni mutano più spesso, l’evoluzione ha preferito produrre dei genomi differenti ed adattabili. La riproduzione vegetativa può avvenire in modi diversissimi:  Scissione: tipica dei Procarioti ma anche degli Eucarioti unicellulari, consiste nella semplice divisione mitotica.  Gemmazione: differisce dalla scissione solo perché una delle due cellule figlie è più piccola dell’altra e può continuare a riprodursi mentre è ancora legata alla cellula madre.  Frammentazione: è il tipo di riproduzione asessuale più comune nelle piante a fiore. Acca- de ad esempio nelle Viti, in cui l’individuo si allunga moltissimo finché non sviluppa delle radici avventizie e forma due individui autosufficienti. Anche nei Cactus, molti rami sono attaccati solo debolmente al fusto, per cui capita spesso che cadano a terra e producano nuo- ve radici. In pratica, quindi, nella riproduzione per frammentazione si stacca una parte del corpo dell’individuo detta propagulo, capace di accrescersi e formare un nuovo individuo. Propaguli tipici sono i bulbilli, gruppi di cellule ricche di sostanze di riserva all’ascella delle foglie, che si formano al posto dei fiori e, staccandosene, formano il nuovo individuo. Alcu- ni Salici e molti Cardi producono delle gemme avventizie sulle radici, che poi spuntano e 62 producono una nuova pianta. La frammentazione può avvenire anche negli alberi, per cui si è recentemente scoperto che una piantagione di Pioppi tremuli dello Utah, molto ampia, in realtà rappresenta un solo individuo. Altri propaguli tipici sono quelli di Kalanchoe, una succulenta che produce nuove piantine sui margini delle foglie, provviste di radici, foglie e fusto ma originate per mitosi, e quindi identiche al genitore. Artificialmente la frammentazione avviene con la talea o l’innesto. RIPRODUZIONE SESSUALE CICLI VITALI Gli individui che si trovano in una fase n si dicono in fase nucleare aploide, mentre quelli che si trovano in fase 2n si dicono in fase nucleare diploide. In relazione a queste diverse fasi si distinguono due cicli vitali principali. Un ciclo è basato sull’alternanza di generazioni omologhe, in cui il passaggio da una generazione all’altra (cioè dal- la formazione di un tipo di cellula germinale a quella di un altro tipo di cellula germinale) non è ac- compagnato dal cambiamento della fase nucleare (se si parte da 2n, si resta 2n). L’altro ciclo invece è basato sull’ alternanza di generazioni eterologhe, in cui il passaggio da una generazione all’altra è accompagnato dal cambiamento della fase nucleare. I cicli con alternanza di generazioni omologhe sono due (pag. 772 e 773):  aplonti o aplobionti: sono i vegetali più primitivi e sono soprattutto organismi acquatici. Alla gamia delle cellule aploidi segue la formazione dello zigote diploide: esso può andare incontro a meiosi ma non a mitosi, quindi non si può accrescere. Ogni meiospora può dare origine a più organismi unicellulari o ad uno pluricellulare aploide (gametofito): in ogni ca- so, si produrranno degli individui che si comportano da gameti o direttamente dei gameti mobili, che effettueranno la singamia. Poi il ciclo ricomincia. Vi è un’alternanza di fase nucleare subito dopo la gamia (2n) e subito dopo la sporogonia (n), il processo di formazione delle meiospore, ma lo stato 2n non dura abbastanza a lungo da poter parlare di generazioni eterologhe. Si dice che queste piante han- no una meiosi iniziale o zigotica, perché avviene all’inizio della generazione, immediata- mente dopo la gamia.  diplonti o diplobionti: in questo caso la gamia (con formazione dello zigote 2n) è seguita da mitosi: si genera cioè una generazione 2n (con un individuo detto sporofito se l’organismo è pluricellulare). Dopo la formazione e lo sviluppo dello sporofito o dei singoli organismi diploidi, si formano per meiosi i gameti (cambiamento di fase nucleare da 2n a n) che si uniscono immediatamente per formare lo zigote (altro cambiamento di fase a 2n), senza effettuare prima la mitosi. La meiosi in questo caso è detta meiosi terminale perché avviene dopo la formazione della generazione, appena prima di una nuova gamia. Lo stato aplonte porta vari inconvenienti, primo fra tutti il fatto che ogni mutazione si rende subito manifesta essendo il corredo genetico aploide. In secondo luogo, se si uniscono due gameti derivati dallo stesso gametofito si va incontro alla genesi di individui omozigoti, con lo stesso inconveniente detto in precedenza per tutti gli aplonti, e in più il fatto di non poter dar vita a genomi differenti. Per questi svantaggi gli aplonti non sono stati in grado di affermarsi sulla terraferma, mentre i diplonti grazie al sopravvento dello sporofito sono riusciti ad eliminare tutti questi inconvenienti e a colo- nizzare ambienti differenti. 65 lo. L’ovulo possiede una massa centrale di parenchima detta nucella, circondata da due sottili strati di cellule (tegumenti) che lasciano aperto solo un orifizio nella parte più alta. Come nelle antere, alcune cellule della nucella (in genere una per ovulo) si preparano alla meiosi: sono i macrosporociti, o cellule madri delle macrospore, contenute nel sacco embrionale. Dalla meiosi si generano quattro macrospore ma, al contrario di quanto accade nelle antere, tre di queste degenerano. L’ovulo e il carpello non si aprono e le macrospore vi restano imprigionate. Le caratteristiche del fiore possono essere riassunte nella sua formula fiorale: in essa i verticilli (insiemi di parti fiorali tutte inserite sul ricettacolo allo stesso livello) vengono indicati ciascuno con una lettera seguita, dal numero dei pezzi che costituiscono il verticillo stesso. Lo schema delle lette- re è: calice K corolla C stami A carpelli G perigonio (ovviamente presente in assenza di calice e corolla) P Un calice o una corolla simpetali (con sepali o petali saldati fra loro) sono indicati con una arco so- pra al numero corrispondente. L’ovario sincarpico (il pistillo) ha il numero dei carpelli fra parentesi; se poi questo numero ha una linea sotto o sopra significherà, rispettivamente, che l’ovario è supero o infero. I GAMETOFITI Le microspore che si sono sviluppate nelle antere e sono racchiuse nel polline si sviluppano in mi- crogametofiti. Lo sviluppo avviene a partire da una divisione mitotica della microspora, che ha addossato il suo nucleo alla parete cellulare: si origina un microgametofito bicellulare, formato da una grande cellu- la vegetativa e una piccola cellula generativa, che si divide formando due cellule spermatiche, i microgameti. Nel 30% delle piante a fiore la maturazione del microgametofito avviene quando il polline è ancora racchiuso nell’antera, per cui si parla di pollini trinucleati, mentre nel 70% il polline viene liberato dopo la prima divisione e i microgameti compaiono solo dopo che il polline si è posato sullo stim- ma (pollini binucleati). Arrivato sullo stimma, il polline germoglia formando il tubetto pollinico, che penetra nello stimma assorbendone i nutrienti. Quindi il tubetto si accresce verso il basso, attraversa lo stilo (da cui è nu- trito) ed entra nell’ovario. È solo grazie alle sostanze succhiate da stimma e stilo che il polline rie- sce a germogliare, perché i granuli sono troppo piccoli per contenere delle riserve di amido. È im- portante che il tubetto pollinico sia lungo e costretto a seguire un percorso molto tortuoso, in modo che possa essere meglio selezionato il polline gradito e quello sgradito. All’interno dell’ovulo la macrospora si sviluppa in un macrogametofito. La maggior parte delle volte lo sviluppo del macrogametofito inizia con una serie di mitosi senza citodieresi, che portano alla formazione di otto nuclei aploidi. Di questi, quattro migrano verso un polo della macrospora e gli altri quattro verso l’altro. Da ognuno di questi due gruppi, un nucleo migra verso il centro. At- torno ai due nuclei centrali si forma una parete, mentre gli altri due gruppi di tre nuclei ciascuno formano una parete attorno ad ogni nucleo. Si formano sette cellule: un’ampia cellula centrale for- mata da due nuclei polari detti anche nuclei dell’endosperma secondario, tre piccole cellule anti- podali tutte uguali presso il polo superiore e, all’altro polo, si forma l’apparato dell’oosfera, di- stinto in una oosfera o cellula uovo centrale, più grossa (il macrogamete) e due sinergidi ai lati. 66 LA FECONDAZIONE La fecondazione avviene sia con plasmogamia, la fusione dei protoplasmi, che con cariogamia, la fusione dei nuclei. Germinato sullo stimma, il polline ha prodotto il tubetto pollinico, che si è accresciuto fino ad arri- vare all’altezza del micropilo, una piccola apertura. Ovviamente nelle Gimnosperme manca questo “viaggio” attraverso lo stilo e manca anche il riconoscimento del polline sullo stimma. Il più delle volte il funicolo (la striscia di tessuto che connette ovulo e ovario), è disteso, per cui os- servando un seme si nota che l’apertura del micropilo è opposta ad esso, ma altre volte (come nel caso della Fava o del Fagiolo) il funicolo non si distende e allora il micropilo si trova spostato late- ralmente rispetto ad esso. Il macrogametofito penetra all’interno dell’ovulo distruggendo una sinergide, rompe la propria estremità e rilascia entrambi i microgameti nel gametofito femminile. Uno di questi migra verso l’oosfera, mentre la sua membrana plasmatica si rompe e perde gran par- te del protoplasma. Quando il suo nucleo si fonde con quello dell’oosfera e si forma lo zigote di- ploide. Visto che lo spermio contribuisce alla fecondazione solo con il nucleo, il genoma dei proplastidi e dei mitocondri è completamente materno. Il secondo nucleo spermatico a questo punto migra verso la grossa cellula centrale binucleata e si fonde con i suoi due nuclei polari, formando il nucleo dell’endosperma secondario (stavolta uni- co) triploide, che inizia a dividersi molto rapidamente per mitosi. Visto che entrambi i nuclei spermatici hanno effettuato la loro fusione, si parla di doppia feconda- zione: il vantaggio sta nel fatto che l’endosperma si forma soltanto dopo che l’oosfera è stata fecon- data. Nelle Gimnosperme, invece, non si ha una doppia fecondazione e l’endosperma si forma co- munque, con il rischio di sprecare preziosa energia. Le mitosi che si susseguono nell’endosperma secondario non sono seguite da citochinesi, per cui si forma una cellula gigante con centinaia di nuclei. Quando le divisioni si bloccano, delle masse cito- plasmatiche si depositano attorno ai nuclei in direzione centripeda e formano la parete delle cellule. Un esempio di questo processo è il Cocco pieno di “latte”: la parte centrale cava del Cocco è una singola cellula e il liquido è il suo protoplasma. La parte bianca è la zona dove i nuclei formano le cellule. Infatti, un Cocco verde e immaturo è pieno di latte e non contiene quasi per niente la parte bianca. Col tempo, il latte è trasformato in parenchima cellulare. I tessuti che si formano in questo modo costituiscono l’endosperma, che provvede al nutrimento dello zigote. SVILUPPO DELL’EMBRIONE E DEL SEME Lo zigote inizia il suo processo di accrescimento contemporaneamente alla proliferazione del nu- cleo dell’endosperma. Una parte delle nuove cellule dello zigote entra a far parte dell’embrione stesso, mentre un’altra parte forma un peduncolo chiamato sospensore, che spinge l’embrione pro- fondamente nell’endosperma. Una delle sue estremità è attaccata alla parete interna dell’ovario (ed infatti i semi sono attaccati in questo modo), mentre l’altra parte si riorganizza e moltiplica le sue cellule, formando l’embrione. Questo stadio primitivo è detto stadio globulare. La parte distale dell’embrione comincia ad assu- mere la forma di un cuore, cioè inizia a formare i cotiledoni, per cui si parla di stadio a cuore. Nel- le Monocotiledoni, ovviamente, si forma un solo cotiledone. Lo stadio successivo è detto stadio a torpedo, in cui la forma assomiglia più ad una Y che ad un cuore: l’asse viene detto radichetta e formerà la radice primordiale. L’ipocotile è la zona fra radi- chetta e cotiledoni, mentre l’epicotile è un germoglio (un fusto primordiale) fra i cotiledoni. Alla fine di questo stadio inizia a svilupparsi il tessuto vascolare. 67 Nello stadio maturo l’embrione diventa quiescente, il funicolo può rompersi e al suo posto può re- stare una cicatrice detta ilo. I cotiledoni hanno la funzione di assorbire le sostanza nutritive provenienti dall’endosperma, che al momento della germinazione può o meno essere stato assorbito completamente. In genere non viene assorbito completamente nelle Monocotiledoni, in cui il nome cambia e il cotiledone viene detto, al momento della germinazione, austorio. A volte l’endosperma non è assorbito completamente anche nelle Dicotiledoni, ma i suoi nutrienti vengono utilizzati ugualmente. Un seme maturo in cui l’endosperma è molto abbondante viene detto seme albuminoso, mentre se è assente o quasi è detto seme esalbuminoso. Subito dopo la fecondazione, le sinergidi e le antipodali degenerano. La nucella, che contiene em- brione e endosperma, si accresce molto, ma viene poi compressa dal suo contenuto, per cui nei semi adulti non è riconoscibile. I suoi tegumenti, però, formeranno i tegumenti del seme (detti anche te- sta e tegmen). Questi tegumenti diventano, alla fine della maturazione, sclerenchimatici e spessi, per proteggere il seme dalla disidratazione e dalla triturazione nel ventre degli Uccelli. Il tipo di sviluppo embrionale è molto differente nelle varie piante. Le Orchidee, i Papaveri o il Ta- bacco hanno semi molto piccoli privi completamente di sostanze nutritive, per cui possono germina- re solo se entrano in simbiosi con un Fungo. Le Dicotiledoni hanno due foglioline che sono pronte a fare fotosintesi (in genere), mentre le Monocotiledoni sono molto più avanzate: hanno addirittura sei foglioline (al massimo, quando sono adulte, ne hanno dieci) e, prima che entri in quiescenza, il seme produce delle foglioline che spuntano dal terreno protette da un involucro cilindrico detto co- leottile. Se durante la germinazione si sviluppa più che altro dell’ipocotile, si parla di germinazione ipogea ed il seme esce dal terreno ripiegato in modo che le foglioline di cui è dotato per iniziare subito la fotosintesi non si rompano. Se invece si sviluppa di più l’epicotile, come nel Mais, la germinazione sarà epigea. Sempre nel Mais, osserviamo una grossa radichetta embrionale, che subito presenta degli abbozzi di radici laterali: ben presto la radice centrale degenererà e si formerà il classico si- stema fascicolato di radici avventizie. LA QUIESCENZA Il seme rappresenta uno “stadio di vita latente”. Quando il seme entra in quiescenza, subito dopo la maturazione, in pratica quello che avviene è lo spegnimento delle attività metaboliche e la disidratazione del seme. La fase di vita della pianta in quiescenza, che sopravvive grazie alle riserve accumulate, viene detta fase di crescita eterotrofa (a cui segue quella autotrofa). Oltre alla quiescenza, le piante possono manifestare anche il fenomeno della dormienza, in cui i semi sono incapaci di germinare a meno che non si trovino in ambienti favorevoli. La dormienza può essere provocata da vari fattori:  Fattori meccanici: il rivestimento duro e impermeabile del seme non permette la germina- zione. Questo tipo di dormienza è molto importante, così non tutti i semi germinano nello stesso anno, ma quelli più permeabili, ad esempio, germinano prima degli altri. Oppure il seme germina solo dopo che la sua parete è stata indebolita dai succhi gastrici dell’apparato digerente di altri animali, in modo che la germinazione lontano dalla Pianta madre è prati- camente assicurata. Addirittura, l’indebolimento della parete può anche essere prodotto dal fuoco, per cui dopo un incendio ci sono già dei semi pronti a germinare.  Sostanze inibitrici: accade ad esempio nelle piante che vivono in luoghi aridi, i cui semi contengono nella parete delle sostanze inibitrici della germinazione, a meno che non so- praggiunga una forte pioggia.  Temperatura: in genere il tegumento permette al seme di germinare solo dopo aver passato un lungo periodo freddo. Questo perché, se le piante germinassero subito, le plantule appena nate potrebbero trovarsi in balia dei freddi venti invernali e quasi certamente morirebbero. In 70 to all’altra. Questi fiori vengono detti attinomorfi o regolari. Gli animali però hanno simmetria bi- laterale, per cui solo facendo un taglio a metà dall’alto al basso si possono ottenere immagini specu- lari: i fiori più evoluti hanno anch’essi simmetria bilaterale (fiori zigomorfi – spesso Orchidee). In questo modo l’impollinatore è costretto ad entrare nel fiore secondo un certo orientamento per cui, mentre si nutre del nettare, il polline è deposto su una parte ben precisa del suo corpo, in modo che, visitando il fiore successivo, posi il polline direttamente sullo stimma. Nei fiori impollinati dai Pipistrelli, le corolle si aprono solo al crepuscolo. IMPOLLINAZIONE ANEMOGAMA Visto che in questo caso non è importante quanto il fiore sia bello e colorato, la prevenzione a tutte le modificazioni che potrebbero vertere in questo senso è molto importante. Petali e sepali sono spesso ridotti o assenti, per cui il fiore risulta molto piccolo. Gli stimmi sono grandi e piumosi, per poter attaccare la maggior quantità possibile di polline che, visto che si di- sperde molto facilmente, è sempre prodotto in grande quantità. Ancora, per diminuire la presenza di ostacoli alla diffusione del polline, in alcune specie i fiori fioriscono prima che la Pianta emetta le foglie. Le specie impollinate dal vento, come le Querce, le Graminacee, i Noci americani e tutte le Conife- re, crescono in dense popolazioni, in modo che il polline si disperda il meno possibile. Un altro tipo di impollinazione completamente affidato agli agenti atmosferici è l’impollinazione idrogama, che avviene con le poche Angiosperme acquatiche ed in cui i fiori maschili si staccano dalla Pianta e galleggiano fino a quelli femminili. POSIZIONE DELL’OVARIO Gli ovuli e l’ovario devono essere protetti dall’azione diretta degli impollinatori, che potrebbero danneggiarli o mangiarli. Questo scopo è stato raggiunto sviluppando varie modificazioni, che pre- suppongono in ogni caso la presenza di stili e stami molto lunghi:  Ovario infero: si forma dopo che si sono formati gli abbozzi di tutte le parti fiorali, quando il ricettacolo si allunga e circonda gli ovari; o sempre dopo la formazione degli abbozzi, quando le basi degli stami, dei sepali e dei petali si fondono assieme, creando uno strato di tessuto protettivo che circonda l’ovario. Le parti del fiore, quando l’ovario è infero, si dico- no epigine.  Ovario supero: si ha quando l’ovario è libero da protezioni e situato sopra alle basi delle al- tri parti fiorali, per cui queste vengono dette ipogine.  Ovari semi-inferi: parzialmente infossati nel ricettacolo e le cui parti fiorali sono dette pe- rigine. Sembra che l’ovario supero sia quello meno evoluto, mentre l’ovario infero sia il più evoluto in quanto garantisce sia maggiore protezione, sia una maggiore distanza tra la sommità del pistillo e l’ovario, in modo che il polline possa essere meglio selezionato. LE INFIORESCENZE In genere su una pianta non viene prodotto un solo fiore, ma numerosi. Il successo nei confronti degli impollinatori dipende dalla posizione di un fiore rispetto all’altro, dalla sua altezza dal suolo o anche dalla corrispondenza con le rotte di volo, come accade nell’Albero delle salsicce, impollinato dai Pipistrelli che non amano volare fra gli ammassi di fo- glie: l’albero ha sviluppato dei peduncoli molto lunghi a cui sono appesi i fiori ma non le foglie, in modo che i Pipistrelli trovino facile raggiungerli. 71 Non sempre è conveniente, come si potrebbe inizialmente pensare, produrre dei fiori grossi e visto- si, perché come lo sarebbero per gli impollinatori, lo sarebbero anche per gli erbivori. Altro fattore importante è la produzione di nettare, che non deve essere mai eccessiva, per evitare che un impollinatore, visitato un fiore, non abbia più voglia di visitarne un altro. Bisogna poi anche pensare al costo che la pianta deve sostenere per produrre un solo fiore, per cui conviene avere più ovuli per un fiore vistoso, oppure produrre dei fiori piccoli e metterli tutti insie- me, come accade nelle infiorescenze. Il vantaggio delle infiorescenze è quello di essere immediatamente visibile per gli impollinatori ma, se un erbivoro se ne nutre, la pianta non ha subito un danno eccessivamente grave perché i fiori era- no tutti piccoli e poco costosi. Inoltre, una pianta può controllare la schiusa di ogni singolo fiore, per cui può essere pronta a ricevere il polline per molte settimane di fila. I fiori posti sulle infiorescenze devono essere tutti dello stesso tipo. Le infiorescenze possono essere di due tipi:  Infiorescenza determinata: ha un’espansione limitata, perché la gemma apicale viene mo- dificata in primordio fiorale, bloccando la crescita. Nel tipo più semplice (infiorescenza de- terminata semplice), al di sotto del fiore terminale si trovano due brattee, ognuna con un fiore ascellare. Oppure si hanno infiorescenze determinate composte, in cui al di sotto del fiore terminale si trovano inserite altre infiorescenze, che si diramano secondo un ordina- mento morfologico tipico della pianta. In questo caso si schiude prima il fiore terminale e poi quelli che sono più in basso.  Infiorescenza indeterminata: in questo caso i fiori situati più in basso e più esternamente si schiudono per primi. Ce ne sono di vari tipi. Nel racemo, su di un asse principale si sviluppano dei pedicelli, tutti più o meno della stessa lunghezza, che terminano con i fiori. Una modificazione del racemo è l’amento, con l’asse ondulato ed in cui i fiori sono imperfetti, e possono essere staminiferi o carpellati. Una spiga somiglia ad un racemo ma ha i fiori sessili (privi di pedicello). Una pannocchia è un racemo modificato con diversi fiori per ramo. Uno spadice è un’infiorescenza simile alla spiga, con fiori imperfetti a sessi distinti, per cui quelli staminiferi sono posti nella parte più alta dell’infiorescenza. L’asse principale è carno- so ed attorno a tutta l’infiorescenza si trova una struttura petaloide abbastanza resistente det- ta spata. Non sempre l’asse principale è dominante. Nel corimbo il pedicello termina con una por- zione arrotondata, da cui emergono vari pedicelli con i loro fiori terminali, tutti di diversa lunghezza in modo che si formi un disco piatto. Anche il capolino forma un disco piatto, da- to però non dai fiori e dai loro peduncoli, ma da un’espansione del peduncolo centrale, a cui sono attaccati dei fiori sessili (es. Girasole, Tarassaco, Margherita). Nei capolini la struttura è talmente ben organizzata da far pensare ad un unico fiore, e quelli che a noi sembrano i pe- tali sono in realtà i fiori più esterni, con i petali appariscenti, detti fiori del raggio, mentre quelli centrali hanno corolle praticamente inesistenti e sono detti fiori del disco. L’ombrella ha la stessa struttura del corimbo, ma i suoi pedicelli formano un ombrello perché hanno tut- ti la stessa lunghezza. TIPI DI FRUTTI E DISPERSIONE DEI SEMI I frutti si sono evoluti in modo da adattarsi al tipo di dispersione dei semi. A volte le funzioni di una parte del frutto sembrano contrastare con il principio di dispersione, come accade nella Noce americana, la Noce comune, la Noce del Brasile o la Noce di Cocco, che offrono una massima protezione ma sono troppo pesanti e dure. Quando la dispersione è affidata agli animali, parte del frutto deve essere appetibile ed il seme (che contiene l’embrione) deve essere protetto dalla distruzione. 72 FRUTTI VERI E FRUTTI ACCESSORI Nella maggior parte dei casi, il pericarpo corrisponde alla parete dell’ovario, ma in molte altre spe- cie, specialmente quelle che presentano ovari inferi, alla formazione del frutto possono partecipare anche i tessuti del ricettacolo, gli stami, i sepali o i petali. Si usa il termine frutto vero riferendosi ai frutti contenenti solo tessuti dell’ovario, mentre si dice falso frutto se sono presenti anche altri tessuti, come la Fragola, in cui la polpa è il ricettacolo e i veri frutti sono quelli che noi chiamiamo semi. Affinché si formi la fragola, che ha 100 o 200 car- pelli isolati, tutti gli ovuli devono essere fecondati. Uno può essere fecondato prima dell’altro, per cui a volte le fragole mature hanno forma più sviluppata in certi punti che in altri. Falsi frutti sono anche la mela e la noce: della noce noi mangiano il seme: rompiamo l’endocarpo e scartiamo quella lamella legnosa che è il risultato della modificazione del mesocarpo e dell’esocarpo. La mela conserva ancora stami e sepali. Il motivo della sua asimmetria è dovuto alla diversa fecondazione degli ovuli (8). Se non vengono fecondati tutti, si forma un abbozzo di mela che cade dall’albero prima di maturare. Certe volte si formano per sbaglio dei frutti senza semi, che vengono detti apireni. In natura si trat- ta di errori, ma l’uomo ha selezionato questi frutti perché è più facile tenerne sotto controllo il cor- redo genetico (es. Banana). Il modo in cui i carpelli si fondono insieme influenza il tipo di frutto. Se il frutto si sviluppa da un ovario singolo o da ovari fusi in uno stesso fiore, è semplice. Se i carpelli, prima separati, si fondo- no durante lo sviluppo, si ha un frutto composto come il Lampone. Infine, se durante lo sviluppo tutti i fiori di un’infiorescenza si fondono, si ha il frutto multiplo, come i Fichi o l’Ananas. CLASSIFICAZIONE DEI TIPI DI FRUTTI Sono stati proposti vari metodi per classificare i frutti. Il primo enfatizza la consistenza del frutto, classificandolo come carnoso, mangiato dagli animali, o secco, che invece non viene mangiato (a parte dall’uomo che deve però prima trattarlo). I frutti secchi possono a loro volta essere classificati come deiscenti, se l’endocarpo si apre a matu- rità come i legumi, oppure indeiscenti, se l’endocarpo non si rompe spontaneamente ma lo fa per macerazione (es. Ghinada). Questa classificazione non si applica ai frutti carnosi perché sono quasi tutti indeiscenti. Per quanto riguarda i frutti secchi indeiscenti, i più semplici sono i cariossidi, tipici della maggior parte delle Graminacee: ognuno si sviluppa da un carpello che contiene un singolo ovulo. Durante la maturazione, il seme riempie il frutto e si fonde con la parete. In questo modo non rappresenta un’attrattiva per gli animali. Simile al cariosside è l’achenio, il frutto del Girasole, in cui il seme è sempre molto piccolo, ma seme e frutto non si fondono. Le pareti sono cartacee. La ghianda della Quercia è un tipo di ache- nio più particolare. Un esempio di frutto secco deiscente è quello dei Fagioli e dei Piselli, ossia il legume: si forma da un singolo carpello che contiene molti semi. A maturità, le due metà del frutto si torcono e si rom- pono seguendo due spaccature, in modo che il baccello si apra esponendo i semi. Il follicolo, inve- ce, si apre seguendo un’unica spaccatura (Peonia). Per quanto riguarda i frutti carnosi, l’Uva ed il Pomodoro sono bacche, in cui tutte le parti sono soffici e gustose. Il seme è protetto dalle sue piccole dimensioni e dal rivestimento viscido. I pomi (Mele e Pere) differiscono dalle bacche sia per gli ovari inferi (cosicché solo il tessuto inter- no è il vero frutto mentre quello esterno è un frutto accessorio), sia per la protezione del seme, chiu- so in un torsolo amaro e coriaceo. 75 LA FOTOSINTESI Abbiamo già visto nel primo capitolo (paragrafo “Relazioni alimentari e vitali”) come si distinguo- no gli organismi fra autotrofi ed eterotrofi. Le piante sono ovviamente autotrofe e, per nutrirsi, han- no bisogno di effettuare la fotosintesi, il cui scopo è arrivare alla sintesi dei carboidrati. L’interazione di acqua, luce e CO2 per formare carboidrati e O2, è mediata da trasportatori di ener- gia e di elettroni. TRASPORTATORI DI ENERGIA L’ATP (adenosina trifosfato) è la molecola più comune deputata all’accumulo dell’energia ed è nella sua forma ridotta. Se non è coinvolto l’ATP, un’altra molecola molto comune è la GTP (gua- nosin trifosfato). L’ATP è costituito da un gruppo adenosina a cui sono legati tre gruppi fosforici (-PO32-) mediante un legame fosfodiestere. I gruppi fosforici sono legati fra loro da due legami fosfoanidrici. Se si sottrae un gruppo fosforico, l’ATP diventa ADP (difosfato, la forma ossidata dell’ATP) e poi AMP (monofosfato). L’ATP si sposta continuamente fra reazioni che producono e che consumano energia. Per sintetizzare l’ATP si passa attraverso tre possibili processi, che prevedono l’attacco di un grup- po fosfato all’ADP (fosforilazione).  Fosforilazione a livello del substrato: per trasferimento diretto di un gruppo fosfato. Av- viene nel citosol.  Fosforilazione ossidativa e fotofosforilazione: la respirazione cellulare e la fotosintesi agi- scono creando un gradiente di protoni tra due facce opposte della membrana. La scarica di questo gradiente è accoppiata alla sintesi di ATP da ADP e Pi. Con questo metodo si produ- ce la maggior parte dell’ATP. Ovviamente avviene nei mitocondri (fosforilazione ossidati- va) e nei cloroplasti (fotofosforilazione). REAZIONI DI OSSIDORIDUZIONE Il gradiente di protoni necessario per sintetizzare l’ATP si accumula grazie ad una reazione di ossi- doriduzione. Le reazioni di ossidoriduzione sono la fonte maggiore di energia libera per i sistemi viventi. In queste reazioni, un composto viene ridotto (acquista elettroni) mentre l’altro viene ossi- dato (cede elettroni). Il donatore di elettroni è anche detto riducente, mentre l’accettore di elettroni è detto ossidante. Un elemento si dice ossidato quando non ha tutti gli elettroni che potrebbe contenere, ed il suo sta- to di ossidazione si indica con un numero positivo o negativo. In una coppia redox, la forma ossidata ha una forte affinità per gli elettroni, mentre la forma ridotta è un donatore di elettroni. Nelle reazioni redox si ha dunque il trasferimento di elettroni. Questo trasferimento può essere utile perché viene associato al trasporto di protoni attraverso le membrane, in modo da generare un gra- diente di concentrazione. Questo ha un’entropia più bassa rispetto alla soluzione a concentrazione uniforme (cioè è più ordinato), e quindi necessita di energia per stabilirsi. Per il motivo opposto, ri- portare disordine libera energia, usata per la formazione della molecola di ATP. TRASPORTATORI DI ELETTRONI La maggior parte dei composti che si trovano nell’ambiente sono allo stato ossidato perché hanno a disposizione una grande quantità di ossigeno, mentre quelli presenti negli organismi sono in genere a stato ridotto. 76 Questo ci fa capire che gli organismi, oltre al fabbisogno energetico, necessitano di un potere ridu- cente, che converta le molecole ossidate in forma ridotta. Questo potere è particolarmente impor- tante nelle piante, che assorbono anidride carbonica ed acqua, le due forme più ossidate del carbo- nio e dell’idrogeno. Gli eterotrofi ne hanno meno bisogno perché utilizzano le molecole già ridotte presenti nelle piante, anche se a volte, come nel caso della sintesi degli acidi grassi, devono sintetiz- zare molecole ancora più ridotte. Ovviamente il potere riducente è rappresentato dagli elettroni. Il miglior modo per trasferirli è uti- lizzare delle molecole abbastanza instabili e mobili. Le due molecole più frequentemente utilizzate a questo scopo sono il NAD+ o nicotinamide adenina dinucleotide, ed i NADP+ o nicotinamide adenina dinucleotide fosfato. Non viene usato l’ATP perché esso trasporta energia e non elettroni. Entrambi possono riceve un paio di elettroni ed un protone, passando allo stato ridotto NADH e NADPH: il primo elettrone gli permette di neutralizzare la carica positiva ed il secondo di legare un protone. In genere, comunque, al NADH ed al NADPH viene associato un secondo protone, per cui il modo corretto per scriverli (necessario soprattutto per bilanciare correttamente le reazioni) è NADH + H+ e NADPH + H+. Quando queste molecole (chiamate agenti riducenti) riducono un composto trasferendogli elettro- ni, si libera un protone e vengono riformati NAD+ e NADP+ (agenti ossidanti). Così, invece di ave- re un numero enorme di molecole trasportatrici, la cellula ricicla sempre le stesse. ALTRI TRASPORTATORI ELETTRONICI I citocromi sono delle proteine che contengono gruppi eme, molecole che contengono atomi di fer- ro che saltano continuamente, a causa dei continui processi di ossidazione e riduzione, dallo stato +2 a quello +3 e viceversa. A seconda del modo in cui i citocromi assorbono la luce, essi si diffe- renziano in citocromo a, citocromo b e citocromo c. Poi, ci sono ulteriori divisioni (c1, c2, …) per bande della luce più particolari. I plastochinoni trasportano due elettroni e due protoni per volta e, come i citocromi, li trasportano all’interno della membrana. La plastocianina, invece, può trasportare un solo elettrone e lo fa grazie all’aiuto dello ione Cu2+, che passa allo stato di ossidazione +1. LA FOTOSINTESI Trasportatori di energia e di elettroni interagiscono nel meccanismo fotosintetico. Le piante e i cianobatteri utilizzano l’energia della luce trasformandola in energia chimica me- diante la fotosintesi, un processo in cui la CO2 viene fissata per formare i carboidrati (CH2O) attra- verso il trasporto di elettroni dall’acqua al NADP+. Ovviamente la reazione necessita l’energia por- tata dall’ATP. La formula della fotosintesi, completamente estesa, è: 6CO2 + 6H2O + hv 6C6H12O6 + 6O2 Si tratta di un metodo ottimale di produzione dell’energia, sia perché l’utilizzo dei carboidrati libera moltissima energia, sia perché l’acqua e l’anidride carbonica non sono tossiche, per cui la pianta ne può accumulare grandi quantità. La fotosintesi si divide in una fase luminosa ed una fase buia. Nella fase luminosa, l’ossigeno dell’acqua viene completamente ossidato ad O2 . In questa fase sono necessarie sia una fonte di elettroni (l’acqua) che una fonte di energia (il Sole). L’interazione di acqua e luce, però, non avviene direttamente, ma è mediata dall’ATP e dal NADPH, prodotti appunto nella fase luminosa. 77 Nella fase buia, ATP e NADPH interagiscono con l’anidride carbonica: il suo carbonio infatti deve essere ridotto, passando dallo stato di ossidazione +4 allo stato di ossidazione 0 dei carboidrati. Far acquisire al carbonio questi 4 elettroni non è facile, perché il carbonio è più stabile nello stato ossi- dato che non in quello ridotto. Avere carbonio ridotto lo rende disponibile per formare i carboidrati. LE REAZIONI DIPENDENTI DALLA LUCE CLOROFILLA ED ASSORBIMENTO DELLA LUCE Il principale fotorecettore della fotosintesi è la clorofilla o Chl. Esistono due tipi di clorofilla, la clorofilla a e la clorofilla b: differiscono perché la clorofilla a ha un gruppo metilico legato all’anello I, mentre la clorofilla b ha un gruppo –HC=O e viene usata come pigmento accessorio (vedi più avanti). La luce è una piccola porzione dello spettro elettromagnetico radiante, che comprende, nell’ordine dalla lunghezza d’onda minore alla maggiore, i raggi gamma, i raggi X, gli UV, la luce visibile, l’infrarosso e le onde radio. Noi possiamo vedere solo la luce visibile, compresa nelle lun- ghezze d’onda tra i 760 nm ed i 390 nm. La clorofilla riesce a trarre energia dalla luce perché ai quanti o fotoni, le particelle che compon- gono la luce, è associata una certa quantità di energia, espressa dalla legge di Planck: E = hv = hc/ dove h è la costante di Planck, c è la velocità della luce, v è la frequenza della radiazione e  la sua lunghezza d’onda. Le radiazioni con lunghezza d’onda breve hanno un’energia più elevata di quelle con lunghezza d’onda maggiore. La quantità di luce assorbita da una molecola è indicata nel suo spettro di assorbimento, un grafi- co costruito in funzione dell’assorbimento e della lunghezza d’onda, dal quale è possibile ricavare la struttura della molecola in questione. Se una sostanza assorbe tutte le lunghezze d’onda tranne il rosso, ad esempio, la luce rossa viene riflessa e la sostanza ci appare rossa: i pigmenti funzionano allo stesso modo, assorbendo precise lunghezze d’onda e rifiutandone altre. Quindi, il pigmento per eccellenza dovrebbe essere nero, per poter assorbire tutta la luce evitando ogni perdita. Invece, la clorofilla a possiede soltanto due bande di assorbimento, una nel rosso e una nel blu, e trasmette tutte le altre lunghezze d’onda, specie quelle ad alta energia. Perché? La risposta sta nel fatto che, se la clorofilla assorbisse quanti troppo energetici, l’elettrone eccitato rischierebbe di saltare completamente fuori della molecola di clorofilla, rompendola. D’altronde, non è possibile assorbire lunghezze d’onda più alte (e quindi meno energetiche) perché non potreb- bero contribuire abbastanza ad eccitare l’elettrone: l’assorbimento della luce avviene attraverso il passaggio degli elettroni dello stato esterno dal loro stato fondamentale ad uno stato eccitato, ad energia più elevata. Se questo elettrone eccitato trova utilizzo nelle reazioni chimiche che seguono, bene. Altrimenti il fotone assorbito viene emesso per fluorescenza: un fotone emesso per fluorescenza ha un’energia minore di quello che è stato assorbito inizialmente, perché viene emesso lentamente e quindi con una lunghezza d’onda maggiore (700 nm). Le reazioni primarie della fotosintesi avvengono nei centri delle reazioni fotosintetiche, che con- tengono numerosissime molecole di clorofilla ciascuno. Non tutte le clorofille, però, partecipano alle reazioni fotosintetiche: la maggior parte funge da an- tenna per raccogliere la luce, prendendo il nome di clorofille antenna. Queste clorofille si passano 80 nio, ma vista la sua instabilità questo viene scisso in due molecole a tre atomi di carbonio, il 3- fosfoglicerato o PGA, da cui il nome di “ciclo del C3”. L’enzima che conduce questa reazione è la Rubisco o ribulosio bifosfato carbossilasi/ossigenasi, uno degli enzimi più presenti sulla faccia della Terra ed anche uno dei più grossi: è formato da otto subunità leggere ed otto pesanti. Questo enzima può costituire fino al 30% delle proteine della fo- glia ed è attivo in tutti gli organismi fotosintetici tranne che nei batteri. Il nome dell’enzima è carbossilasi/ossigenasi perché può legare sia l’ossigeno che l’anidride carbo- nica. I passaggi successivi alla carbossilazione consistono nell’aggiunta di elettroni ed energia al PGA: l’ATP dona un gruppo fosforico al 3-fosfoglicerato, convertendolo in 1,3-difosfoglicerato, a sua volta ridotto dal NADPH a 3-fosfogliceraldeide (PGAL): il carbonio così viene ridotto ed energiz- zato (per il gruppo fosfato). A questo punto, una parte della PGAL esce dal cloroplasto per formare zuccheri, grassi, amminoa- cidi, acidi nucleici ed altre sostanze. Il resto della PGAL è convertito in RuBP, in modo tale che ce ne sia sempre una quantità disponibile per iniziare un’altra serie di reazioni: alla pianta conviene in- fatti riciclare sempre la stessa molecola piuttosto che importarne grandi quantità da chissà dove. LE REAZIONI ANABOLICHE A partire dal PGAL, dunque, si possono generare praticamente tutte le molecole necessarie alla pianta per sopravvivere. Queste reazioni di formazione di nuove molecole prendono il nome complessivo di anabolismo, che richiede sempre energia. Delle numerose reazioni anaboliche, quelle di sintesi dei grassi e dei polisaccaridi sono le più importanti, perché rappresentano una fonte di immagazzinamento di car- bonio ed energia. La pianta, infatti, non può accumulare molte molecole di ATP o NADPH a questo scopo, perché si tratta di molecole altamente instabili e non possono essere trasportate a lunga di- stanza (ad esempio dalle foglie alle radici). Quindi possiamo dire che una pianta ha evoluto tre tipi differenti di sistemi di riserva:  Riserve a breve termine: ATP ed NADPH, usati solo all’interno della cellula ed in breve tempo.  Riserve a medio termine: il glucosio ed il saccarosio, in grado di essere usati anche all’esterno della cellula (e quindi essere trasportati per lunghe distanze) ed essere conservati per mesi. Tuttavia, queste riserve possono alterare i processi osmotici della cellula.  Riserve a lungo termine: l’amido, un polimero del glucosio, troppo grande per essere tra- sportato ma ottimo per la conservazione dell’energia e del carbonio, anche perché non altera in alcun modo i processi osmotici della cellula. FATTORI INTERNI E FATTORI AMBIENTALI La pianta risponde alla variazioni ambientali modificando le proprie strutture, in modo da poter eseguire al meglio delle sue possibilità il processo fotosintetico. LA LUCE (E LA SPIEGAZIONE DEL PERCHÉ IL CIELO È BLU) La luce ha tre importanti caratteristiche: la qualità, la quantità e la durata. Per qualità della luce si intendono le lunghezze d’onda ed i colori che la compongono. Ad esem- pio, il Sole appare bianco perché assorbe tutti gli spettri possibili della luce visibile. Al tramonto o all’alba, quando i raggi colpiscono tangenzialmente l’atmosfera, una gran parte della luce rossa è riflessa dalle piante verso l’alto, ed infatti vediamo il cielo rosso. Invece, a mezzogior- no la luce attraversa l’atmosfera verticalmente e vengono riflesse le lunghezze d’onda del blu, per- ché soprattutto il rosso, ma anche verde e giallo, sono bloccati dalle foglie delle piante. 81 È ovvio che venga assorbito proprio il rosso e simili a mezzogiorno, quando la radiazione luminosa è più intensa, perché il blu corrisponde a lunghezze d’onda corte e quindi ricche di energia, per cui sarebbe dannoso per la pianta esporsi completamente al loro assorbimento. Questa differenza di assorbimento non si verifica, però, per le piante erbacee che si trovano, ad esempio, sotto una folta coltre di alberi e che quindi non ricevono né il blu della sera, né il rosso di mezzogiorno. Di conseguenza, queste piante dispongono di una quantità extra di pigmenti accessori, in grado di carpire altre bande di colori. Allo stesso modo, le Alghe del mare che crescono vicine alla superficie ricevono tutto lo spettro del visibile, e quindi assorbono il rosso a mezzogiorno ed il blu la sera. L’acqua assorbe preferenzial- mente il rosso ed il viola (e dunque appare blu-verdina) e quindi le alghe, che si trovano alle grandi profondità, devono adattarsi con pigmenti accessori. La quantità di luce ne esprime l’intensità: le piante del sottobosco ricevono meno luce di quanta non ne ricevano quelle degli strati più alti, o a mezzogiorno i raggi sono più intensi che al tramonto. L’intensità luminosa determina la quantità di anidride carbonica utilizzata, perché una pianta che riceve poca luce avrà di conseguenza bisogno di poca anidride carbonica. Inoltre, la velocità fotosintetica cresce all’aumentare dell’intensità luminosa. Il punto di compensazione per la luce, rappresenta il punto al quale la CO2 viene utilizzata più lentamente di quanta ne venga prodotta con la respirazione: in pratica è il livello di luce in cui la fo- tosintesi uguaglia la respirazione, e corrisponde ad una intensità luminosa molto bassa. Quando una pianta cresce al di sopra di questo punto (cioè in casi normali), i fotosintetati prodotti possono essere utilizzati per la crescita e la riproduzione. In estate, quando l’aria è rarefatta, l’intensità luminosa èaddirittura troppa e le piante devono proteggersi sviluppando uno strato di tri- comi morti o di cere, che riflettono la luce, oppure sviluppando maggiori pigmenti accessori che proteggono le clorofille dalla rottura. Ancora, le piante possono modificare la posizione delle foglie, che invece di crescere in orizzontale crescono in verticale, come nell’Iris e nell’Eucalipto, per cui a mezzogiorno, quando i raggi sono troppo forti, la lamina non è colpita direttamente. Per durata della luce si intende il numero di ore di luce per giorno. All’Equatore il giorno è lun- go dodici ore per tutto l’anno. Spostandosi a Nord o a Sud i giorni diventano più lunghi in estate e la massima lunghezza si verifica ai poli, dove da metà estate il giorno dura 24 ore, e la notte torna soltanto a metà inverno. Alle nostre latitudini, dunque, in inverno il giorno è breve e la quantità di luce è talmente scarsa (il Sole è basso) che le piante sempreverdi sono costrette ad abbassare il tasso fotosintetico. In estate, invece, il tasso fotosintetico aumenta talmente tanto che alcune cellule mostrano un surplus di ami- do tale che devono bloccare la fotosintesi, che riprende la mattina dopo (visto che di notte l’amido è convertito in zucchero ed utilizzato per le sintesi o immagazzinato in cellule apposite). L’ACQUA La struttura della foglia è influenzata dalla presenza dell’acqua: le Angiosperme Dicotiledoni che abitano le zone tropicali o quelle temperate, hanno foglie a struttura dorso-ventrale (vetrino), pre- senta cioè una pagina superiore esposta sempre alla luce diretta del Sole, con uno strato a paliz- zata subito sotto, quindi uno lacunoso e gli stomi sulla pagina sottostante. Questo modello è ottimo per assorbire la luce, ma non per mantenere l’acqua: se le piante degli ambienti aridi utilizzassero questo sistema, dovrebbero tenere gli stomi sempre chiusi e morirebbero di fame. Per ridurre al minimo la traspirazione, queste piante hanno adottato vari sistemi:  Spazi intercellulari scarsissimi: in questo modo, però, diventa difficile far diffondere l’anidride carbonica, per cui il tasso fotosintetico si abbassa.  Tricomi  Cripte stomatiche: gli stomi sono infossati 82  Riduzione della superficie esterna: è il caso delle foglie dei Cactus, trasformate in spine. Oltre a questo tipo di adattamenti per la conservazione dell’acqua, alcune piante che abitano in am- bienti particolarmente sfavorevoli sotto questo punto di vista, devono modificare direttamente il lo- ro metabolismo, adottando un ciclo del C4 al posto del consueto ciclo del C3, oppure un metaboli- smo acido come accade nelle Crassulacee (CAM – vedi avanti). LA FOTORESPIRAZIONE: UNA PERDITA D’ACQUA Abbiamo visto come viene fissata la CO2 nel ciclo di Calvin. Ma c’è un altro meccanismo che, in condizioni in cui la CO2 sia poco concentrata e l’O2 invece molto concentrato, è più efficace nella fissazione di quanto non lo sia il ciclo di Calvin: il processo di fotorespirazione. In questo meccanismo, la CO2 e l’O2 competono come substrato per la RuBP carbossilasi, detta an- che rubisco (da RuBP carbossilasi-ossigenasi). Nella reazione in cui la competizione è vinta dall’ossigeno, due molecole di O2 reagiscono con RuBP formando 3PGA e fosfoglicolato. Il fosfoglicolato entra nel perossisoma, dove è convertito in glicina, che viene trasferita nei mitocondri. Qui, due molecole di glicina sono convertite in una di serina e una di CO2, prodotto della respirazione. Viene anche prodotta dell’acqua che viene espulsa per traspirazione, assieme alla CO2: in questo modo, tutta l’energia che si trova nel fosfoglicolato viene dissipata. In realtà, non è chiaro se siano più grossi i vantaggi o gli svantaggi di questo processo: come van- taggio, siccome il fosfoglicolato può essere tossico, la fotorespirazione viene considerata un sistema di protezione per la pianta contro gli invasori. Tuttavia, si tratta di un vantaggio troppo piccolo in confronto all’energia necessaria per portare avanti il processo: vengono usati ATP e NADPH per produrre CO2 ed H2O da espellere. Inoltre, la fotorespirazione limita la crescita delle piante, perché la sua velocità si avvicina a quella della fotosintesi, quando i livelli di O2 prodotti da questa sono molto elevati. Forse questa via produce CO2 per rimediare alla dissipazione di energia luminosa che si avrebbe nella fotosintesi se la quantità di CO2 fosse insufficiente. IL METABOLISMO C4 Il meccanismo della fotorespirazione, fatte tutte le conclusioni, difficilmente si è evoluto per facili- tare la vita della pianta. In realtà la rubisco si sarebbe dovuta evolvere in un compartimento a sé stante, in modo da non competere con l’ossigeno e non creare questa dispendiosa catena. In pratica, questo è quello che è successo nelle piante a metabolismo C4, come il Granturco o la Canna da zucchero, in cui l’anidride carbonica è imprigionata nelle cellule fotosintetiche, impedendo quasi del tutto la fotorespirazione. Le foglie che seguono questo sistema hanno in genere una anatomia Kranz: non hanno mesofillo a palizzata o lacunoso ordinato in strati, ma questo si dispone attorno alla guaina del fascio, nelle qua- li si concentra la rubisco. Le cellule del mesofillo, quindi, al posto della rubisco contengono l’enzima PEP (fosfoenolpiruva- to) carbossilasi, che non si lega in nessun caso all’ossigeno. L’unico problema di questo enzima sta nel fatto che non è in grado di eseguire la reazione che conduce al 3PG, per cui la rubisco resta l’unico enzima in grado di agire in maniera diretta, pur con i suoi inconvenienti. Lo scopo del ciclo C4 è di assumere CO2 dal mesofillo e portarla in forma concentrata nella guaina del fascio, dove si trova la rubisco. Il ciclo comincia con l’assunzione della CO2 atmosferica da parte delle cellule del mesofillo, che la trasformano in ossalacetato, utilizzando la PEP carbossilasi ed il PEP. Visto che l’ossalacetato ha uno scheletro formato da quattro carboni, dà il nome “C4” a tutto il ciclo. 85 PARTE SECONDA LA SISTEMATICA E L’EVOLUZIONE: PROCARIOTI, FUNGHI ED ALGHE 86 87 INTRODUZIONE ALLA TASSONOMIA ED ALLA SISTEMATICA LA CLASSIFICAZIONE DEI VEGETALI La sistematica è la scienza che definisce la struttura di un sistema. Si dice taxon ogni categoria tassonomica e la tassonomia è la scienza che studia i taxa. I sistemi di classificazione usati sono gerarchici e possono essere esclusivi quando un taxon appar- tiene ad un solo taxon superiore, o non esclusivi quando ogni taxon appartiene ad uno o più taxa superiori. Inoltre, si parla di sistemi artificiali, che seguono un criterio di comodo scelto dal classi- ficatore, e di sistemi naturali, che si basano sulle affinità intrinseche delle specie vegetali indipen- dentemente dal loro rapporto con l’uomo. Per quanto riguarda i sistemi di classificazione dei viventi, in genere si fa riferimento a due teorie storiche principali:  Teoria dei 5 Regni di Margulis: divide i viventi in Monera (Procarioti) ed Eucarioti: Proti- sti (Eucarioti unicellulari), Piante, Animali e Funghi, a seconda delle differenze strutturali che portano differenti stili di vita.  Teoria degli 8 Regni di Cavalier-Smith: tiene conto anche delle differenze morfofunziona- li quali il sesso, il tipo di nutrizione, ecc. Essa distingue un impero dei Batteri (Procarioti), diviso in Regno degli Eubatteri e Regno degli Archeobatteri, e un impero degli Eucarioti, diviso in Regno degli Archeozoi, dei Protozoi, delle Piante, degli Animali, dei Funghi e dei Cromisti. Sebbene esistano dunque diverse linee di pensiero, tutti concordano nel dividere i viventi fra Euca- rioti e Procarioti, organismi molto semplici divisi a loro volta in Archibatteri ed Eubatteri. Per quanto riguarda gli Eucarioti, le loro suddivisioni in campo vegetale sono molto più complesse: Eucarioti Animali Cormofite o Embriofite Funghi Alghe Briofite (PT non vascolari) Tracheofite (PT vascolari) Crittogame (ripr. x meiospore) Spermatofite (ripr. con semi) Gimnosperme (senza fiore) Angiosperme (con il fiore) 90 Per i taxa superiori si usano dei suffissi specifici. Ad esempio per il genere Rosa:  famiglia…………..Ros-aceae  ordine…………….Ros-ales  classe……………..Magnoli-opsida o Magnoli-atae  phylum………...….Magnoli-ophyta 91 REGNO MONERA: PROCARIOTI CONCETTI GENERALI I Procarioti NON sono piante, e si dividono in Eubatteri e Archeobatteri. Vengono inclusi nei testi di botanica innanzitutto per tradizione: i Cianobatteri (una sezione degli Eubatteri) sono sempre stati ritenuti strettamente imparentati con le Alghe. Studi più recenti hanno dimostrato il contrario, ma i botanici continuano a studiarli. Un motivo più rilevante sta nel fatto che tali organismi permettono di compiere studi comparativi con le piante. Ad esempio, prendiamo il caso della fotosintesi: nei in tutte le piante troviamo uno stesso tipo di fotosintesi con gli stessi pigmenti utilizzati. Sembrerebbe logico pensare che questo sia l’unico meccanismo possibile. Invece, attraverso lo studio dei Procarioti abbiamo scoperto che sono possibili ben 5 sistemi fotosintetici alternativi. I Procarioti sono inoltre importanti dal punto di vista economico, a causa dei danni che provocano infestando le piante, oppure per gli antibiotici che se ne possono ricavare per curarle. Altre funzioni importanti riguardano la conversione di zolfo e azoto atmosferico in composti utiliz- zabili dalle piante (solfati e nitrati), che non riescono a compiere da sole questa trasformazione; la partecipazione ai processi di decomposizione; l’importanza nell’ingegneria genetica per la loro ele- vata velocità di riproduzione, che permette di ottenere numerose copie di uno stesso gene e di os- servare in tempi brevi i risultati degli studi. STRUTTURA DELLA CELLULA PROCARIOTA Le cellule dei Procarioti sono abbastanza piccole, generalmente con un diametro compreso fra 1,0 e 5,0 mm. I batteri possono o meno avere una parete. Quelli che ne sono privi (si tratta di forme abbastanza ra- re) vengono detti pleomorfici, perché non presentano una morfologia costante. I batteri forniti di parete si dividono in quattro forme basilari: bastoncelli (bacilli), sfere (cocchi), a virgola (vibrioni) e spirali (spirilli). Batteri e Archeobatteri sono sempre unicellulari. Possono formare delle aggregazioni, ma in ogni caso non esistono connessioni intercellulari. Di conseguenza non esistono organi o tessuti. I Cianobatteri rappresentano un’eccezione a questa regola: sono infatti dotati di una guaina mucilla- ginosa che gli permette di creare lunghi filamenti, che si comportano come singoli individui. Sembra che questa sia la massima differenziazione presente nei Procarioti. IL PROTOPLASMA Per quanto riguarda il citoplasma, sembra che nei Procarioti il citoscheletro non sia presente. Il ma- teriale genico, i ribosomi, mRNA, tRNA, proteine, sostanze di riserva, ecc si trovano tutti sparsi nel citoplasma. Il DNA è quindi presente sotto forma di una molecola circolare in cui sono assenti gli istoni (DNA nudo), e si addensa in regioni chiamate nucleoidi, a contatto con la membrana citoplasmatica, Cia- scun nucleoide può contenere più molecole di DNA circolare. Oltre a questi nucleoidi possono essere presenti dei plasmidi o episomi, molecole di DNA più pic- cole, alla cui presenza è legata la capacità di resistere a certi antibiotici o di poter effettuare la co- niugazione, attraverso la quale i Procarioti si scambiano frammenti di DNA, sia fra loro che fra Po- rocarioti ed individui di phyla estremamente diversi. I ribosomi dei Procarioti sono più piccoli e quindi con un coefficiente di sedimentazione inferiore (70S) rispetto a quello degli Eucarioti (80S). 92 Nei Procarioti non fotosintetici, la parte restante della cellula è riempita dal citoplasma, privo però di tutti gli organelli tipici di una cellula eucariote. I Procarioti fotosintetici (Cianobatteri, Batteri fo- tosintetici verdi e purpurei), invece, presentano un’invaginazione della membrana plasmatica, che si ripiega su sé stessa dando origine al sito attivo per la fotosintesi. Altra caratteristica dei Procarioti fotosintetici è la presenza di vacuoli gassosi, corpiccioli (e non organuli in quanto privi di membrana) pieni di aria necessari per farli galleggiare sulla superficie dell’acqua, la zona fotica. A differenza dei vacuoli degli Eucarioti, costituiti da lipidi e proteine, quelli dei Procarioti sono formati solo da proteine. LA PARETE CELLULARE La parete ha la funzione importantissima di proteggere la cellula dalla lisi causata dalla pressione osmotica. Inoltre riconosce altri sistemi cellulari e protegge l’interno della cellula da agenti tossici. Mentre la composizione della parete degli Archeobatteri è molto variabile, quella degli Eubatteri è più precisa e contiene principalmente peptidoglicano, una molecola complessa formata da due zuc- cheri che si ripetono più volte: l’N-acetilglucosamina e l’acido N-acetilmuramico. Catene di peptidoglicani possono legarsi parallelamente grazie a dei ponti peptidici, formati da due amminoacidi che reagiscono con le catene in un legame covalente. In questo modo si crea una robu- stissima molecola gigante. I peptidoglicani si trovano in quasi tutti i Procarioti, ma mai negli Eucarioti. Per questo, ad esempio, la penicillina agisce solo sulla parete dei Procarioti, perché scinde i legami specifici fra amminoaci- di e peptidoglicani. Negli Eubatteri la composizione della parete, così specifica, è un buon marker tassonomico e per- mette di distinguere i Batteri in Gram+ e in Gram-, a seconda della reazione che hanno con la co- lorazione Gram (pag. 677):  La parete dei Batteri Gram+ possiede uno strato di peptidoglicano molto spesso, diretta- mente attaccato alla membrana plasmatica.  La parete dei Batteri Gram- è formata da uno spesso doppio strato esterno, seguito da uno strato sottile di peptidoglicano, quindi dalla membrana plasmatica. Lo strato esterno ha una composizione molto simile a quella di una normale membrana pla- smatica, ma è impedito il movimento di flip-flop dei lipidi fra un monostrato e l’altro. Inol- tre, la parte più esterna di questo doppio strato è costituita da un tipo particolare di lipidi det- ti lipopolisaccaridi. Grazie a questi componenti, lo strato esterno mantiene fuori della cellu- la molecole troppo grosse o, viceversa, impedisce che queste ne escano. Inoltre, possiede delle caratteristiche tali che lo rendono estremamente tossico per gli animali (ad esempio, l’intossicazione da Salmonella). Molti Procarioti secernono attorno a sé stessi una sostanza mucillaginosa definita glicocalice, ne- cessaria, in particolare nei Cianobatteri che ne producono uno spesso strato, sia al riconoscimento, sia alla coesione di più cellule per formare ampie colonie. I FLAGELLI La parete esterna dei Batteri (ma non dei Cianobatteri o Alghe azzurre) presenta sia flagelli che pili. Entrambe queste strutture sono costituite da subunità proteiche denominate rispettivamente flagelli- na e pilina, avvolte a spirale in modo da delimitare una cavità interna. I flagelli sono responsabili del movimento. I Procarioti si muovono secondo movimenti caratteristi- ci: poiché sono in grado di riconoscere i gradienti di concentrazione del mezzo in cui si trovano, a seconda che questo sia attraente o repellente si muovono verso una zona a maggiore o minore con- centrazione (movimenti chemiotattici). Rispondono analogamente ai gradienti di concentrazione 95 smi. Per effettuare la fissazione, l’eterocisti utilizza la nitrogenasi, un enzima specifico per la ridu- zione dell’azoto elementare. Poiché viene inattivato dall’ossigeno, la parete pluristratificata mantie- ne all’interno un ambiente microaerobio. I composti azotati in eccesso sono accumulati come gra- nuli di cianoficina. In particolari condizioni, i filamenti composti dai Cianobatteri si “riproducono”: alcune cellule rompono la propria parete, si svuotano e muoiono. Il filamento si spezza e si crea un nuovo indivi- duo. A volte la morte di queste cellule è un evento programmato: in questo caso, le cellule specia- lizzate, dette necridi, si lasciano morire, creando dei filamenti di lunghezza prestabilita (ormogo- ni). Se i segnali esterni stimolano la dormienza, alcune cellule di questi filamenti multicellulari ispessi- scono la propria parete e formano degli acineti o spore di resistenza. In Nostoc i filamenti sono legati strettamente fra loro e formano ampie strutture sferiche, mentre in altri casi formano delle lamine. Una particolarità interessante dei Cianobatteri, che ne fa probabilmente l’anello di congiunzione fra Eucarioti fotosintetici e Procarioti, è la presenza di clorofilla a, del PSII e la capacità di produrre ossigeno. Come pigmenti possiedono la ficoeritrina e la ficobilina. Alcuni tipi di Nostoc sono addirittura in grado di crescere in condizioni eterotrofe (al buio e nutriti con zuccheri). Sebbene preferiscano luoghi caldo-umidi, i Cianobatteri possono vivere anche in ambienti estremi, come le pozze di acqua bollente del parco di Yellowstone. In certe zone con l’acqua non eccessi- vamente calda, possono formare degli ammassi di carbonato di calcio simili a rocce, detti stromato- liti, considerati fossili a tutti gli effetti (arrivano ad avere due miliardi di anni e mezzo). Hanno una forte tendenza alla simbiosi, per cui molte Alghe azzurre vivono con le Felci, le Gimno- sperme, i Funghi (formando i Licheni). Altri Cianobatteri importanti oltre Nostoc sono l’Oscillatoria e la Spirulina (a forma di spirale, usa- ta a scopo alimentare per produrre proteine). 96 97 IL REGNO MICETEAE: FUNGI CONCETTI GENERALI Inizialmente sia i Funghi che i Batteri erano inclusi nel regno delle piante perché producono spore, hanno pareti cellulari e, ovviamente, non sono animali. Quando sono state scoperte le differenze fra Procarioti ed Eucarioti, i Batteri sono stati esclusi dal discorso, ma non i Funghi. Eppure nemmeno i Funghi sono delle piante: mancano i plastidi, non sempre contengono cellulo- sa, sono filamentosi e non parenchimatici, le grandi strutture come i corpi fruttiferi hanno un’organizzazione assolutamente differente da quella delle altre piante. Inoltre, i Funghi non costituiscono un gruppo monofiletico, ma solo provvisoriamente sono rag- gruppati insieme: alcuni sembrano derivati dagli Eucarioti ed altri dai Procarioti, oppure la classe degli Oomiceti, è certamente derivata dalle Alghe. L’individuazione di un Fungo, comunque, si basa su alcune caratteristiche essenziali:  La presenza di cellule allungate (ife) e intrecciate fra loro a formare il micelio.  Pareti cellulari con chitina.  Riproduzione tramite cellule ciliate o accoppiamento di ife.  Completa eterotrofia.  Assenza di corpi completi con organi.  Assoluta dipendenza dall’acqua (non avendo strutture rigide, necessitano di molta acqua per gonfiarsi). So conoscono fin’ora 100.000 specie di Funghi e molte altre devono essere scoperte. Il Regno dei Miceteae si compone di due divisioni: Myxomycota ed Eumycota. Gli Eumycota si dividono a loro volta in quattro sottodivisioni: la prima di queste è la Mastigomy- cotina, formata da Funghi unicellulari e provvisti di flagelli. Quindi le altre sottodivisioni, formate da individui filamentosi e privi di stadi mobili: gli Zigomycotina, derivati da forme unicellulari, hanno originato gli Ascomycotina, che a loro volta hanno portato ai Basidiomycotina. La sottodivisione Zigomycotina e la classe Oomycetes (sottodivisione Mastigomycotina) sono Fun- ghi filamentosi inferiori, mentre la sottodivisione Ascomycotina e Basidiomycotina formano i Funghi superiori. I Deuteromycotina sono i Funghi dei quali si conosce solo la riproduzione agamica (un Fungo può essere classificato nel modo giusto solo quando se ne conosce profondamente la riproduzione) e che vengono inseriti solo temporaneamente in questa falsa sottodivisione. NUTRIZIONE E METABOLISMO I Funghi sono tutti eterotrofi, ma non possono inghiottire il cibo come fanno gli animali perché sono provvisti di parete. Quindi ricavano i nutrienti dall’ambiente che li circonda. Vengono perciò suddivisi in tre gruppi:  Biotrofi: o parassiti, in grado ad esempio di provocare la tubercolosi. In genere si limitano a rendere la membrana cellulare delle piante permeabile agli zuccheri ed agli amminoacidi. In questo caso non sono affatto invasivi ed anzi la pianta li utilizza come serbatoio di metaboli- ti in eccesso. Certi biotrofi, però, forano la parete delle cellule e fanno penetrare un austorio per assorbire i nutrienti, stabilendo ovviamente un contatto più invasivo.  Necrotrofi: attaccano gli ospiti in maniera così violenta da ucciderli e assorbirne completa- mente i nutrienti. La morte avviene a causa dell’azione di tossine, che rompono la membra- na plasmatica e rendono i nutrienti disponibili in massa al Fungo. Molte piante hanno sviluppato dei sistemi di difesa contro le tossine. Il più semplice di que- sti è la reazione ipersensibile: le cellule a contatto con la tossina muoiono immediatamente,
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